mercoledì 1 ottobre 2014

I bagagli scomodi della Chiesa







Don Matteo De Meo

Si rende sempre più comune la convinzione che per vivere la fede, per trasmettere la fede ai lontani (nelle periferie esistenziali del mondo o della vita o delle coscienze e via dicendo), la dottrina ( e quindi la Tradizione, quella che i Padri definiscono la regula fidei) sia relativa, o secondaria se non addirittura inutile, anzi molte volte un peso! Tanto la fede si riconduce ad un 'esperienza che basta a se stessa, che spiega se stessa! Una convinzione, o meglio un sentire, che serpeggia in maniera più o meno consapevole fra non pochi cattolici seriamente impegnati e che tende ad opporre drasticamente l'esperienza religiosa, la fede come esperienza alla dottrina della fede.

Ma cos’è la fede? La risposta a questa domanda non ammette equivoci, dopo la definizione del Concilio Vaticano I, riproposta dal nuovo Catechismo della Chiesa cattolica: “la fede è l’adesione della ragione, mossa dalla grazia, alle verità rivelate da Dio, per l’autorità di Dio stesso che ce le rivela. Le verità rivelate sono dette tali perché sono contenute, in maniera esplicita o implicita, nella rivelazione divina, conclusa con la morte dell’ultimo apostolo”.




Premesso ciò, il Cristianesimo, certo, è anche esperienza, ma l’esperienza è per sé stessa, incomunicabile senza diventare un fatto soggettivo, variabile, se non volubile; mentre ciò che si può comunicare sono i princìpi che precedono l’esperienza e da cui l’esperienza dipende. Nessuno mette in dubbio l’esistenza dell’esperienza religiosa che, sotto certi aspetti, è la forma più alta di vita cristiana. L’esperienza è infatti una conoscenza immediata e diretta della realtà, come ci insegna San Tommaso e tutta la tradizione tomistica della Chiesa. Nel percorso di Mons. Luigi Giussani questo aspetto è particolarmente evidente: l’esperienza religiosa non solo non nega la credibilità razionale della fede, ma la presuppone. Mentre nella prospettiva di coloro che pretendono di esaurire la fede nell'esperienza, prescindendo o relativizzando la razionalità dei motivi, posiamo dire che essa si trasforma in una fede diluita e proteiforme. Qualche esempio! Chi potrà dire al buddista che la sua esperienza religiosa non sia vera, mentre la tua si? Esperienza è la sua ed esperienza è la tua. Chi potrà dire al protestante che la sua adesione alla fede luterana sia meno vera della tua. Esperienza è la sua ed esperienza è la tua! Chi potrà dire all'anziano signore convertitosi a ottant'anni ai TdG che la sua scelta è errata, che quella fede non salva! Ti risponderà: come mi hanno abbracciato questi fratelli non mi ha abbracciato nessuno! E allora? Attendiamo un abbraccio migliore? E chi ti dice che ci sia? E che quell'abbraccio sia vero solo perchè migliore? L’esperienza religiosa ha valore solo se sottomessa alla ragione, alla rivelazione e al magistero, all'oggetività delle verità di fede immutabili! Questo da sempre la Chiesa crede e professa!

Oggi si è smarrita la vera nozione di fede, perché la si riduce a sentimento del cuore, a pura esperienza, dimenticando che essa è un atto razionale, che ha come oggetto la verità. L’intelletto è la sola facoltà spirituale che può far proprie le verità proposte dalla rivelazione.

Perché l’esperienza religiosa sia vera e non sia un’illusione ci vuole invece un criterio di verità. Il problema di fondo è come determinare l’autenticità dell’esperienza. L’esperienza religiosa può essere solo esperienza del vero Dio e della vera religione: non è un generico sentimento di dipendenza dall’assoluto, di umano beneficio o gratificazione, ecc..
Ogni errore ha delle conseguenze.

L’esperienza, dunque, poiché il cristianesimo esige non solo di essere conosciuto, creduto, pensato, ma anche vissuto. Ma “esperienza” è concetto ambiguo che porta inevitabilmente con sé una quota di soggettivismo e rischia di relativizzare la fede. Se è vero che il cristianesimo è incontro con Cristo, bisogna insegnare dove ordinariamente avviene: nella Chiesa e nei suoi sacramenti. Certamente il Signore può trovare altre strade per intercettare un’anima, dalla bellezza di un tramonto all’affetto di una “compagnia”. Ma Cristo si incontra nei sacramenti, dal battesimo alla confessione passando per l’eucarestia, e nella preghiera. Per questo vado a messa, mi confesso, mi comunico, mi inginocchio e prego. Perché nel corso della giornata vorrei avere occhi solo per vedere Gesù, ma so che, senza di Lui, non ho la forza per farlo.

Il resto è terreno sdrucciolevole, sul quale i sentimenti rischiano di accecare la ragione e l’esperienza rischia di mangiarsi la verità. Un territorio dove concetti veri come “fascino”, “attrazione”, “risposta alla domanda dell’uomo” possono illudere che seguire Cristo sia l’assecondare una gradevole strada in discesa, mentre è proprio il contrario. L’uomo deve combattere contro tutto ciò che in ogni momento lo spingono lontano da Cristo, deve lottare con la sua “debolezza mortale” ci ricorda la liturgia della Chiesa. E deve vigilare perché il peccato e il male diventano persino un veicolo privilegiato da pilotare per tenere comodamente insieme l’incontro con Cristo e una vita lontana dal Decalogo, dando del moralista a chi lo fa notare e in barba proprio a quel Cristo che ammonisce “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama”.

Per uno di quei paradossi che ne fanno l’unica religione vera, il cristianesimo è esaltante perché indica a tutti il povero orizzonte di quelli che il vecchio Chesterton chiamava i cristiani comuni. Quelli che credono giusto il bere e biasimevole l’ubriachezza, che credono normale il matrimonio e anormale la poligamia, che condannano chi colpisce per primo e assolvono chi ferisce in propria difesa. Quelli che pensano, e quindi compiono, ciò che la dottrina ha sempre insegnato e, loro sì, sono avviati verso il Paradiso.
Insomma, si certamente, esistono tanti modi di vivere ed esprimere la fede. Ma questi sono legittimi solo in quanto non contraddicono la dottrina della fede formulata dalla Chiesa. È sempre essenziale la convergenza tra dottrina e vita.

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Domanda: In questi tempi si insiste molto sulla dimensione pastorale piuttosto che sulla proclamazione della Verità. Si dice:  <<..A chi vive nel deserto esistenziale del nostro mondo non si può proporre la vera dottrina ma un abbraccio.>> Che dire in proposito?



Risposta: Prima di tutto va detto che non c'è pastorale senza verità. Non c'è nessun abbraccio che sia buono se non è nella verità e se non porta alla verità. Come recentemente ha affermato il cardinale Muller ( Prefetto della Congregazione della dottrina della fede) non c'è contrapposizione tra pastorale ( l'abbraccio) e la verità, Cristo maestro e Cristo pastore ( cioè che abbraccia) non sono due Cristi diversi; Cristo è maestro ed è pastore, ed è pastore proprio in quanto è maestro.
La pastorale ( l'abbraccio della Chiesa) è la traduzione della verità sul piano della predicazione e dell'azione cristiana. E' sempre la verità che "informa", nel senso di "dare forma", "dare contenuto", alla pastorale, non il contrario.
Il pastore cosa deve fare? Deve guidare le pecore e proteggerle dai lupi, cioè dai pericoli. Guidare significa orientare verso una meta e non c'è meta senza conoscenza. Proteggere significa mettere in guardia dai pericoli, non solo individuarli, ma anche denunciarli e renderli riconoscibili a tutti affinché nessuno possa lasciarsi irretire.
L'errore logico di qualcuno è di credere che più verità è uguale a meno carità o misericordia .... ma basta un po' studiare i duemila anni di storia della Chiesa per accorgersi che la difesa della verità non è stato mai considerato un atto di poca carità o misericordia! Dire che il matrimonio è indissolubile non è mancare di misericordia verso gli altri....ma amarli veramente! Un papà che non dica al figlio che il fuoco brucia perché altrimenti il figlio potrebbe sentirsi represso o inibito nelle sue esperienze non è un vero papà, è un delinquente. Quindi insegnare, custodire, difendere la retta dottrina è la più grande misericordia della Chiesa verso l'uomo che si trova nel deserto esistenziale altrimenti è solo inutile sentimentalismo. Comunque si possono rileggere con calma e meditare: J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo e L. Giussani, La coscienza religiosa nell'uomo moderno.



Muniat intrantes




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