martedì 20 marzo 2012

Cattolici in politica. Una cartolina da Firenze





 Col titolo “Cattolici protagonisti nella Toscana di oggi” si è tenuto sabato 17 marzo a Firenze, nella basilica di San Lorenzo, un incontro di avvicinamento alla prima settimana sociale dei cattolici toscani, in programma dal 1 al 5 maggio 2013, qualche mese prima della 47.ma settimana sociale nazionale. Ha aperto i lavori il vescovo di Massa Giovanni Santucci, delegato per la pastorale sociale e del lavoro. Li ha conclusi l’omelia dell’arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori. Hanno offerto materia di riflessione ai circa mille partecipanti il neo arcivescovo di Cagliari Arrigo Miglio, presidente del comitato scientifico e organizzativo delle settimane nazionali, il professor Giuseppe Savagnone, direttore a Palermo del centro per la pastorale della cultura, e padre Antonio Airò, responsabile toscano per la pastorale sociale. Tra il pubblico c’era il professor Pietro De Marco, che ci ha inviato le seguenti annotazioni in margine all’intervento di monsignor Miglio e soprattutto a quello del professor Savagnone.  
(Sandro Magister)



 NOTE FIORENTINE 


 di Pietro De Marco

 Monsignor Miglio ha insistito sul paradigma costituito dalla “Caritas in veritate”, su alcune tesi innovative della settimana sociale di Reggio Calabria (superare le cristallizzazioni semi-statalistiche del welfare italiano), ma anche sull’orizzonte di “nicchia” cui la riflessione politica cattolica delle settimane, e la stessa ripresa della dottrina sociale della Chiesa, sembrano oggi destinate. È sembrato condividere, in cenni occasionali, la diagnosi dell’assenza dei cattolici dalla vita pubblica politica, senza eletti né elettori, quasi in una situazione da “non expedit”, senza che questo sia mai stato pronunciato.

 Giuseppe Savagnone ha toccato quelle che considera le “ferite/feritoie di luce” (come le piaghe di Cristo, tema già patristico) della condizione cattolica ed ecclesiale attuale, di fronte al “bene comune”: dall’atto “penitenziale” che mancherebbe nella congiuntura in corso (in cui i cattolici tendono a proporsi come vitali per la risoluzione della crisi etico-politica del paese), ai vent’anni di “supplenza” politica della gerarchia (supplenza a suo giudizio da chiudere), all’esigenza di estendere a temi non bioetici la battaglia per i valori “non negoziabili”, alla nuova pastorale (per non combattere sempre in difesa, con dighe o argini), all’eccesso di programmi e progetti ufficiali della CEI (che le diocesi non riescono a smaltire).

 La sua linea di ragionamento critico è presto detta: i cattolici sono corresponsabili della crisi in corso (che in Savagnone è quella della seconda repubblica e del bipolarismo); e questa corresponsabilità ha le forme dell’assenza di protagonismo cattolico in politica (subalternità negli schieramenti), del diretto governo etico-politico della gerarchia (e implicitamente del suo favore o neutralità di fronte all’esperimento berlusconiano), dell’assenza di visione politica complessiva nell’azione di cattolici e Chiesa (col prevalere delle pratiche di lobby e con la subalternità a un “tardo liberalismo”), del difetto di “spiritualità” negli uomini della politica. Più che proporli in forma elencativa dovremmo dire che il primo punto, l’assenza di presenza e protagonismo, è per Savagnone la conseguenza, l’effetto degli altri.

 Non dò peso a un repertorio che (a Firenze come era avvenuto a Reggio Calabria) sembra fatto per ottenere l’applauso, e lo ottiene: la “dignità del lavoro” come valore non negoziabile al pari della vita, la contraddizione di chi difende l’argine bioetico ma legifera in termini persecutori sugli immigrati, il dibattere di politica in chiesa (o altrimenti “non si capisce cosa vi andremmo a fare”), il ruolo ancora subordinato del laicato nella Chiesa, e simili. Tocco solo un punto.

Quando, rischiando un eccesso di facilità, ha evocato il diario spirituale di don Giuseppe Dossetti per opporlo a degli immaginari (quanto immaginabili, a suo avviso) “diari spirituali” di Silvio Berlusconi, Savagnone è entrato involontariamente su un terreno cruciale. Al non discutibile prestigio di Dossetti e delle cerchie influenzate da lui la storia politica italiana e la cultura cattolica degli ultimi sessant’anni devono, infatti, molto dei loro fondamentali limiti: dalla sopravvalutazione della esemplarità e del significato (e del destino di affermazione) della politica comunista, a quello che ordinariamente si chiama oggi lo “statalismo” della prima repubblica, alla deriva moralista e al fondamentalismo costituzionale dei resti della DC di sinistra, negli anni Novanta. Non è che i “cattolici” sono “scomparsi” politicamente; piuttosto (nel riapparire del monaco Dossetti alla dimensione pubblica) i resti del naufragio democratico-cristiano – cioè quelli che si consideravano par excellence “i politici cattolici” – si sono immersi nell’impolitica, se già non si erano trasformati in indistinguibili e conformi politici, amministratori, scrittori, ideologi di sinistra.

 Non mi manca la franchezza di affermare che dalla “politica cattolica” derivata (per fortuna solo parzialmente), dopo Tangentopoli, dalla “spiritualità” dossettiana i cittadini si sono protetti, sapientemente, affidandosi a un nuovo progetto politico, cioè al berlusconismo. Non è dalla “spiritualità” che si deduce la buona politica cattolica. Savagnone ha inoltre ricordato i dati di un libro di Sandro Magister che a sua volta citava una ricerca dell’Istituto Cattaneo: una DC dei decenni Cinquanta-Sessanta i cui quadri erano costituiti prevalentemente da uomini di Azione Cattolica e il cui elettorato era costituito prevalentemente da praticanti regolari.

Questo favorisce un secondo argomento: è stata proprio quella classe politica, e in certa misura quella élite religiosa, che nel suo insieme non ha retto (in termini di carattere, non meno che di fermezza ideale e intellettuale) né la lunga crisi del dopo Sessantotto né le svolte critiche del divorzio e dell’aborto, rifugiandosi in improvvisate “laicità” e “scelte religiose”. Insomma, la prova che quei politici cattolici, salvo minoranze, hanno dato nel corso dell’ultimo ventennio della prima repubblica, ha segnato il tracollo non solo della lunga esperienza di “mediazione” della DC ma anche della affidabilità e consistenza cattolica delle organizzazioni formative dell’AC. D’altronde fu in quel clima, tra collasso culturale e illusioni emancipatorie, che la dottrina sociale della Chiesa sembrò perdere legittimità e plausibilità. E scomparve per un ventennio (1970-1991) dal linguaggio e dalle iniziative pubbliche del “mondo cattolico” italiano.

 Sono rimaste “politiche” (è la mia tesi) le maggioranze di cattolici ordinari, non di élite, non di filiera AC, del paese, presenti nei partiti, nelle istituzioni, nei quadri della società civile e negli elettorati. Su queste maggioranze di uomini e donne (certo non praticanti assidui, non obbedienti in tutto, difformi anche dalle minoranze parrocchiali qualificate) si è esercitata, nei limiti del possibile, la diretta guida delle gerarchie. Su chi altri queste avrebbero dovuto contare? Sui residui di ciò che nell’arco di un cinquantennio si era trasformato in un disastro?

Solo che questo ruolo di guida delle gerarchie non è, a mio avviso, una provvisoria supplenza: la grande stagione otto-novecentesca del laicato organizzato, un progetto geniale e fecondo, è conclusa, assieme al quadro e alla sfida della sfera pubblica liberale che lo aveva reso necessario. Non vi sono passi indietro da fare, ora, per la gerarchia. Ma Savagnone ha ragione su un punto: la formazione dei comuni battezzati dovrà essere non solo difensiva (posto che oggi lo sia, perché spesso non è neppure questo), ma all’altezza di una nuova capacità di azione. Che descriverei come coerenza tra il credere nella divina rivelazione, l’affermare l’indispensabile fondamento antropologico cristiano delle società, e l’esistere politicamente (poliarchicamente) secondo le diverse forme di una conseguente razionalità.

 Un titolo del settimanale interdiocesano “Toscana Oggi” (18 marzo 2012: “La sveglia per le nostre comunità sonnacchiose”) sembra eleggere a protagoniste del rinnovamento politico cattolico le “comunità”. Ma il soggetto “comunità” (tanto più al plurale), così abusato, genera confusione e un pathos improprio, in sede di analisi politica. Gli attori politici, in una regione come in un continente, non sono le “comunità” (di fede, parrocchiali o altro, comunque selezionate); sono ad un tempo tutte le individualità di un paese titolari di diritti di cittadinanza in senso proprio, portatrici di istanze e interessi, e le formazioni – e le procedure –propriamente politiche che provvedono alla formazione della rappresentanza e della decisione. Su questi fronti nessuno “sonnecchia”, anzi si è fin troppo attivi nella difesa del particolare attraverso le retoriche del “sociale” e la macchina dei “diritti”, e nel vincolare in questo “do ut des” amministratori e legislatori.

Non si deve confondere, quindi, la poca effervescenza politica (che ha molte ragioni) di una parrocchia o di altri ambienti di sociabilità cattolica, con un’assenza di politicità nella e della maggioranza del paese, quindi di ordinaria politicità dei cattolici. Questa è una politicità diffusa e segmentata, diversamente diretta ed esercitata da cattolici, che non è rappresentabile se non minimamente da “politici cattolici”, per le ragioni dette, né dai parroci (e non può esserlo, anche perché i parroci conoscono poco, e amano ancora meno, questa “maggioranza silenziosa”) o da altri soggetti dichiaratamente “cattolici”, magari “critici” o “di base”.

Questa maggioranza cattolica silenziosa non ha niente a che fare con lo “scisma nascosto” agitato per contrastare la decisione gerarchica, né risulta visibile con gli occhiali storici del “movimento cattolico”, o del diretto mandato gerarchico della stagione classica di AC, o del più recente associazionismo. Intendiamoci, il governo della CEI, in curioso isolamento, ha indossato da vent’anni altri occhiali; ma si attende che lo facciano tutti, vescovi, organismi, comitati, clero e professori. Se non si parte da queste evidenze non ci salviamo dall’infecondità del moraleggiare e della deprecazione, e non evitiamo l’impolitica scambiata per “politica futura”. E organismi ecclesiastici, clero e laicati, le cosiddette “minoranze qualificate”, continueranno a caricare se stessi di linguaggi esornativi e di compiti impossibili.

 Firenze, 18 marzo 2012
Settimo Cielo di Sandro Magister

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