sabato 3 marzo 2012

La confusione tra l'umano e il divino






di padre Giovanni Cavalcoli



Uno dei problemi più gravi della teologia contemporanea e in particolare della cristologia e dell’antropologia è l’incapacità o la non volontà di distinguere in generale l’umano dal divino e in special modo, in cristologia, le due nature di Cristo, umana e divina, secondo il dettato del dogma di Calcedonia.

Questo dogma fondamentale della cristologia, conclusione della sofferta chiarificazione dottrinale avvenuta nel quinto secolo, dopo alcuni secoli di dibattiti accesi e a volte drammatici, raccomanda di non confondere le due nature, benchè insegni che esse sono strettissimamente unite nell’unica persona divina di Gesù Cristo.

Tuttavia, precisa il Concilio, distinte non vuol dire separate, perché Cristo è appunto un’unica Persona umano-divina.
Questo dogma, nella storia del cristianesimo, è alla base degli ulteriori sviluppi della cristologia fino al nostro tempo, sviluppi che furono caratterizzati dallo spostamento dell’attenzione della dogmatica ecclesiale dalla considerazione della Persona di Cristo in se stessa – risposta alla domanda: chi è Cristo? – alla considerazione di ciò che Cristo ha fatto per noi – il dogma della Redenzione e della salvezza -, questione emersa in primo piano nel sec.XVI con Lutero e il Concilio di Trento, fino a giungere al secolo scorso, nel quale è emersa in primo piano, col Concilio Vaticano II, la questione dell’umanesimo cristiano, ossia la risposta alla domanda: quale antropologia scaturisce dalla cristologia?

Questi sviluppi dottrinali seguono un percorso perfettamente logico, per il quale, iniziando dalla conoscenza della verità – il mistero di Cristo – si è passati gradualmente nel corso dei secoli a chiarire sempre meglio le conseguenze di questa verità nella nostra vita cristiana e come noi discepoli di Cristo dobbiamo fondare in Lui la nostra vita.

Senonchè però Lutero ha dato il via ad una cristologia la quale, se da una parte evidenziava il rapporto di Cristo con noi come nostro Salvatore e Redentore, dall’altra accentuava esageratamente questa funzionalità dell’opera di Cristo a servizio dell’uomo, trascurando la finalità contemplativa del cristianesimo: contemplare Cristo insieme col Padre e lo Spirito Santo.

Ed inoltre Lutero, preoccupato del suo rapporto intimo e personale con Cristo – istanza in sé valida, già sviluppata dalla mistica medioevale soprattutto di stampo agostiniano -, accentuò esageratamente anche questo rapporto, trascurando la mediazione oggettiva, sociale ed esterna della comunità ecclesiale, la quale ai suoi occhi perdeva la sua infallibilità, per abbassarsi nei puri limiti e difetti di qualunque associazione umana.

Lutero teoricamente accettava il dogma di Calcedonia delle due nature, ma il suo animo inquieto lo portò in pratica a respingerlo in quanto, avendo notato che effettivamente nel dogma non compare nulla che riguardi l’opera redentrice di Cristo, egli, esageratamente ed egocentricamente preoccupato di questo aspetto della cristologia, certo essenziale ma non primario, finì per elaborare una nuova cristologia del “Cristo-per-me” – nel sec. XX si sarebbe detto “l’Uomo-per-gli-altri”, una cristologia puramente soteriologica, dove Cristo non ha più valore assoluto e per se stesso come adorabile Persona divina, non è più, come era stato nella cristologia precedente e in fondo come risulta dallo stesso Vangelo, soprattutto di Giovanni, quel Volto di Dio che sommamente l’anima desidera contemplare nella visione beatifica, ma si limita ad essere garante della salvezza dell’io sia pur sempre grazie al suo potere divino di intercessione presso il Padre ottenuto in forza del sacrificio della croce.

Con Lutero, quindi, comincia a venir meno l’interesse per la distinzione fra le due nature, che fonda la cristologia speculativa, principio della contemplazione cristiana. Vien meno quindi l’interesse contemplativo per l’intellegibilità del Mistero di Cristo, diminuisce la preoccupazione, quindi, così evidente nella Scrittura e sviluppata poi soprattutto dal dogma ecclesiale e da Tommaso d’Aquino, di distinguere gli attributi dell’uomo, finito, fragile, sofferente, mutevole, peccatore dal Deus immensae maiestatis, infinito, misterioso, trascendente, onnipotente, santissimo, immutabile ed impassibile.
In cristologia, con Lutero, l’attenzione calcedonese all’esse di Cristo, ossia l’impostazione metafisica, comincia ad essere sostituita dall’interesse per il fieri, il divenire, quindi ciò che Cristo ha fatto, la sua storia e la nostra storia.

La concezione stessa dell’Incarnazione risente di un fraintendimento della famosa formula giovannea: “Il Verbo divenne carne”, intesa non nel senso ortodosso dell’assunzione della natura umana da parte della Persona divina, senso insinuato da S.Paolo (“assumendo la forma di servo”, Fil 2,7), ma proprio come se la natura divina diventasse umana: una vecchia eresia del sec. IV, quella di Eutiche, che la Chiesa si era già a suo tempo premurata di condannare.

Si comincia a confondere le due nature. E questo per il fatto che a Lutero non interessava tanto contemplare l’essenza divina di Cristo in cielo, come invece era stato dogmaticamente definito da Papa Benedetto XII nel 1336, ma gli interessava sentire Cristo presente nel suo intimo in questa terra.

Dunque il bisogno di un Dio non trascendente ma immanente, che tende ad identificarsi con la propria coscienza singola: ecco nascere il caratteristico soggettivismo protestante, refrattario ad accogliere l’oggettività e l’universalità dell’insegnamento del Magistero della Chiesa, nella convinzione di avere già idealmente e realmente Cristo nel proprio cuore di più e meglio di quanto una comunità religiosa esterna ci possa donare.

Ma, con Lutero non cambia solo l’idea dell’Incarnazione, della Redenzione del fine ultimo dell’uomo, ma cambia anche la nozione di Dio e dell’uomo stesso. Il fatto dell’Incarnazione non è più inteso come effetto libero di un Dio d’amore che in Se Stesso non ha bisogno del mondo e dell’uomo per essere Dio, ma al contrario nella visione di Lutero, condotta poi alle estreme conseguenze da Hegel sino ai nostri giorni, Dio non è Dio se non come Dio incarnato, ovvero Dio non è Dio, come dirà appunto Hegel, “senza il mondo”, oppure come altri diranno oggi, Dio è solo il Dio “della storia”, il Dio che “diviene uomo”.

Ma, anche la concezione dell’uomo cambia. Non si dà più una “natura umana”, animal rationale, distinta dalla natura perfezionata dalla grazia, no: il vero uomo è solo il cristiano, perché Cristo non è Dio in un senso trascendente, ma la divinità di Cristo si risolve nell’essere il modello supremo dell’uomo.
In tal modo un Rahner, nel secolo scorso, potrà dire che la cristologia è la pienezza dell’antropologia. Ma, nel contempo, sempre secondo Rahner, l’antropologia trova la sua pienezza nella teologia, appunto perché Cristo è Dio, ma è Dio solo perché Dio è la pienezza dell’uomo. E così giungiamo al panteismo, che però è l’altra faccia dell’ateismo, perché basta sostituire l’uomo al Dio trascendente che il gioco è fatto.

Nel luteranesimo, quindi, al di là dell’apparente antiumanesimo moralistico della natura umana radicalmente corrotta, c’è in realtà una traccia dell’antropocentrismo pagano rinascimentale, che si configura come assolutizzazione del singola coscienza, la quale ritiene che Dio sia aprioricamente ed immediatamente presente in modo tale che la differenza tra il proprio io e Dio tende a scomparire.

Nel contempo gli attributi divini vengono sviliti ed abbassati al livello dell’umano: ecco il Dio che divine, che soffre e che muore, mentre l’uomo si gonfia di orgoglio e avoca a sé ciò che appartiene a Dio: un’assoluta indipendenza che gli fa credere di disporre di una libertà divina ed una mente presuntuosa che fa esaurire l’intera realtà nelle idee che essa arbitrariamente concepisce secondo le proprie voglie e le proprie folli aspirazioni.
In questa antropologia l’uomo – per quanto peccatore – non è più creato ad immagine e somiglianza di Dio, secondo le modalità dell’analogia, ma questa viene sostituita dal binomio univocità-equivocità, che fonda la cosiddetta “teologia dialettica”, come la chiamerà il teologo calvinista Karl Barth nel secolo scorso.

Ciò vuol dire che tra natura umana e natura divina non c’è una distinzione nella convergenza, ma si pone un’alternativa: o la confusione che porta all’identità (univocità) o la contrapposizione che conduce alla esclusione reciproca (equivocità), e quindi o un umanesimo che è assorbito panteisticamente in Dio o un umanesimo autodivinizzato che comporta l’ateismo.

Infine, come è noto, in Lutero anche la dottrina della grazia viene falsificata, a causa di questa sua tendenza dialettica, per la quale la grazia non è più una qualità dell’anima che si aggiunge alla natura umana e neanche una partecipazione della natura divina, ma per Lutero la grazia è la stessa “giustizia di Cristo”, quindi in ultima analisi è Dio stesso.

E allora siamo da capo: l’uomo in grazia viene a identificarsi con Cristo stesso, pur restando peccatore, secondo una visione che sembra avere avuto un precorrimento nel secolo XIV nel mistico tedesco Maestro Eckhart.
Stando così le cose, non è difficile peraltro accorgersi di come queste idee sono penetrate anche nel mondo cattolico.

Da qui la necessità di prendere atto di questa situazione e di ricorrere a quelle misure dottrinali e pastorali che possono aiutarci a ritrovare il vero senso della cristologia e dell’antropologia ed aiutare così i nostri fratelli protestanti a giungere alla pienezza della verità.



Liberta' e Persona

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