Oggi si festeggia per la settima volta la Giornata mondiale delle persone Down e quest’anno, per la prima volta, l’appuntamento è stato riconosciuto ufficialmente delle Nazioni Unite.
Ma andiamo un attimo in dietro negli anni. La malattia che va sotto il nome di “trisomia 21” fu scoperta nel 1959 dal genetista cattolico Jerome Lejeune (1926-1994), in comunione con il professor Turpin e Marthe Gautier.
L’identificazione dell’anomalia cromosomica alla base della sindrome di Down – che comporta la presenza di un quarantasettesimo cromosoma oltre i quarantasei previsti, identico al 21esimo paio – fu rivoluzionaria sotto due versanti: uno positivo ed uno negativo.
L’aspetto positivo della scoperta di Jerome interessa il piano sociale.Fino ad allora i bambini affetti da tale malattia erano visti come una razza inferiore: era pensiero comune, infatti, che i portatori della trisomia 21 incarnassero un livello evolutivo primitivo della razza umana, quando il livello di intelligenza era inferiore.
Questa concezione distorta della realtà – determinata da una visione razzista e da una scarsa conoscenza scientifica – aveva ricadute sia sui Down, che non venivano considerati al pari degli altri, sia sulle loro famiglie, che erano accusate di aver generato un bambino appartenente ad una razza inferiore. La vergogna e l’umiliazione per i genitori erano enormi.
La scoperta scientifica di Jerome, ovvero che alla base dell’”idiozia mongoloide” – così era stata catalogata tale malattia da Down nel 1866 – vi fosse una causa genetica, fu estremamente positiva, quindi, in quanto favorì uno sguardo più aperto e consapevole da parte di tutti nei confronti dei portatori di tale sindrome e, nel contempo, la liberazione dei genitori dal senso di colpa e dalla vergogna.
Inoltre, fatto non di secondaria importanza, determinante fu anche l’atteggiamento con cui Jerome affrontava la sua vocazione di medico. Egli guardava ogni ragazzo Down che si recava da lui con una cura, un’attenzione e un amore sconfinati e totalmente gratuiti. Significativo di ciò è che Jerome ricordava a memoria il nome di ogni suo paziente: per lui nessuno era un errore o un persona non degna di essere voluta bene al massimo grado.
L’importantissima identificazione di Jerome, tuttavia, ebbe anche un riscontro negativo, i cui effetti sono ben visibili ancora oggi. Ci riferiamo all’aborto selettivo dei bambini affetti da sindrome di Down. Fin dagli anni ’60, in Francia si levò un dibattito intensissimo: visto che ormai si era a conoscenza della causa del mongolismo, perché non porre preventivamente fine al “problema” sopprimendo preventivamente tutti i feti che si diagnosticano effetti da tale sindrome?
Erano in molti, purtroppo, coloro che volevano utilizzare la stupenda scoperta di Jerome non in favore della vita, bensì della morte.
Ma egli, il padre della genetica moderna, non poteva accettare nulla di simile. Nel suo Diario si legge: “E’ straziante che questa negazione della medicina, negazione di ogni fraternità biologica che lega gli uomini, sia la sola applicazione pratica della scoperta della trisomia 21”.
E a chi lo accusava di mescolare fede e scienza rispondeva senza esitazioni: “Se, Dio non voglia, la Chiesa arrivasse ad ammettere l’aborto, allora io non sarei più cattolico”.
Jerome combatté con tutte le sue forze contro l’introduzione dell’aborto in Francia, ma nel 1979 vi fu l’approvazione definitiva della legge più ingiusta di sempre, dopo una sperimentazione durata cinque anni. La cultura della morte si affermò dunque anche nella legislatura.
Jerome non si fece però abbattere. Continuò il suo lavoro con dedizione e alacrità, senza arrendersi o scendere a compromessi con nessuno. La sua posizione ferma contro l’aborto gli costò anche un premio Nobel.
Le gratificazioni gli arrivarono dunque dalla Chiesa: nel 1974 Jerome fu nominato membro della Pontificia Accademia delle Scienze e nel 1994, nonostante fosse ormai morente, papa Giovanni Paolo II, in segno di riconoscenza, lo nominò primo presidente della Pontificia Accademia per la Vita.
Jerome Lejeune morì il giorno di Pasqua del 1994. Cecilia, una sua paziente, lo ricordò così, in una poesia letta durante il funerale: “Mio Dio, per favore, / veglia sul ‘mio amico’; / per la mia famiglia io sono brutta assai, / lui mi trova persino carina, / perché sa com’è fatto il mio cuore”.
Libertà e Persona
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