di Sandro Magister
CITTÀ DEL VATICANO, 20 marzo 2012 – “Come nacque uno scisma”: è questo il titolo di un articolo apparso nei giorni scorsi su "L'Osservatore Romano" a firma del cardinale bavarese Walter Brandmüller (nella foto). Un articolo di taglio storico ma con espliciti riferimenti all’attualità.
Un articolo che fin dall’inizio si richiama al movimento antiromano "Los von Rom", nato in Austria tra l'Ottocento e il Novecento, che "riuscì a spingere circa centomila cattolici austriaci ad allontanarsi dalla Chiesa".
Questo movimento – prosegue il cardinale entrando nell'attualità – "venne ripreso all'indomani del Concilio Vaticano II". Ma non solo. "Tendenze analoghe sembrano di tanto in tanto riemergere anche ai nostri giorni in taluni appelli alla disobbedienza nei confronti del papa e dei vescovi".
L'evidente riferimento del cardinale è a quanto sta succedendo a Vienna e dintorni con la "Pfarrer Initiative" promossa nel 2006 da monsignor Helmut Schüller – fino al 1999 vicario generale del cardinale Christoph Schönborn nella capitale austriaca e già presidente della Caritas nazionale – che ha tra i suoi obiettivi qualificanti l’abolizione del celibato e il reintegro nell’esercizio sacerdotale di preti “sposati” e concubini.
Questo movimento è sostenuto da oltre 400 tra preti e diaconi ed ha lanciato una aperta “Chiamata alla disobbedienza” nei confronti di Roma che vuole allargarsi al di là dei confini austriaci creando una rete internazionale. Vi hanno già aderito frange di clero in Germania, Francia, Slovacchia, Stati Uniti, Australia. In Irlanda, lo scorso ottobre, si è recato lo stesso Schüller, per far proseliti.
L’iniziativa è seguita in Vaticano con parecchia apprensione, tanto che ad essa è stata dedicata lo scorso 23 gennaio una riunione riservata tra una rappresentanza dei vescovi austriaci e i vertici dei più importanti dicasteri romani. All’incontro, che si è svolto nel palazzo del Sant’Uffizio, hanno preso parte per l'Austria il cardinale Schönborn, l’arcivescovo di Salisburgo Alois Kothgasser, i vescovi di Graz e Sankt Polten, Egon Kapellari e Klaus Küng. Mentre per il Vaticano c’erano, tra gli altri, i cardinali prefetti della congregazione per la dottrina della fede, William J. Levada, dei vescovi, Marc Ouellet, e del clero, Mauro Piacenza.
Il cardinale Schönborn, assieme ad altri vescovi, ha preso fermamente le distanze dalla "Pfarrer Initiative" criticando sia la forma che i contenuti dell'appello. Finora comunque non ha promosso azioni canoniche contro di essa.
Ma torniamo allo scritto del cardinale Brandmüller.
L’articolo analizza inoltre lo scisma che si consumò in Boemia dopo la prima guerra mondiale col movimento di protesta "Jednota". Che aveva anch'esso come suo cavallo di battaglia "l’abolizione dell’obbligo del celibato". E che aveva come leader Bohumil Zahradnik, "sacerdote e romanziere, che dal 1908 viveva in rapporto matrimoniale illegittimo".
Lo scisma portò l’8 gennaio 1920 alla proclamazione di una “Chiesa cecoslovacca”. Ma quello che più interessa al cardinale è l’analisi di come la Santa Sede guidata da Benedetto XV reagì a quella ribellione del clero boemo.
La causa principale fu individuata nella "formazione insufficiente del clero nei decenni precedenti, dal punto di vista sia teologico sia spirituale", dalla quale era derivata "una crisi che scuoteva la fede cattolica nelle sue fondamenta".
Da qui il rifiuto, da parte di Roma, di ammansire i preti ribelli con concessioni. Il Sant'Uffizio li colpì "immediatamente" con la scomunica, ottenendo dai vescovi il pieno appoggio. E Benedetto XV troncò ogni illusione circa un allentamento della "sacrosanta e oltremodo salutare" legge del celibato.
Così lo scisma interessò alla fine solo una piccola frazione dei cattolici boemi. Conclude l'autore dell'articolo: "Questo modo di agire della Santa Sede, non determinato da riflessioni politiche e pragmatiche, ma soltanto dalla verità della fede", si è rivelato "l’unico giusto" da seguire.
Qui si ferma la riflessione di Brandmüller, che su "L'Osservatore Romano" viene qualificato semplicemente come "cardinale diacono di San Giuliano dei Fiamminghi", ma che è molto in più. Accademico, per quasi trent'anni professore di storia della Chiesa medievale e moderna all’Università di Augsburg, dal 1998 al 2009 ha presieduto la pontificia commissione di scienze storiche, di cui era entrato a far parte nel 1981, chiamato a subentrare a Hubert Jedin, il grande storico del Concilio di Trento scomparso l’anno precedente.
Nato nel 1929, Brandmüller è stato sempre molto stimato dal collega professore e conterraneo bavarese Joseph Ratzinger che, diventato Benedetto XVI, lo ha conservato alla guida del comitato fino al compimento degli 80 anni e lo ha voluto onorare del cardinalato nel concistoro del 20 novembre 2010.
Grande esperto di storia dei Concili, Brandmüller non disdegna la dotta polemica, come quando con un articolo apparso il 13 luglio 2007 contemporaneamente su "L'Osservatore Romano" e sul quotidiano della conferenza episcopale italiana "Avvenire" criticò a fondo l’impostazione dell’opera “Conciliorum Oecumenicorum Generaliumque Decreta” curata dalla scuola storiografica di Bologna.
Né egli disdegna di parlare dell’oggi richiamando le analogie col passato. Come avviene nell’articolo sul quotidiano vaticano dell’11 marzo 2012, che è riprodotto integralmente qui di seguito.
Che poi in questo caso la storia possa diventare davvero “magistra vitæ”, e che Benedetto XVI voglia ripetere oggi – nei confronti della "Pfarrer Initiative" e di altri movimenti di preti ribelli – i passi compiuti da Benedetto XV quasi un secolo fa, è... un’altra storia.
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COME NACQUE UNO SCISMA
di Walter Brandmüller
"Senza Giudea, senza Roma costruiamo il Duomo tedesco". Così sosteneva il movimento del cavaliere Georg von Schönerer per il distacco dalla Chiesa di Roma, "Los von Rom", nato a cavallo tra il XIX e il XX secolo in Austria. Si fondava su idee pangermaniste, anticlericali e antisemite. Da tale serbatoio ideologico attinsero poi anche i nazionalsocialisti.
Di fatto, all’epoca, l’intensa propaganda, appoggiata dall’associazione protestante tedesca "Gustaf Adolf Verein", nel giro di quasi un decennio riuscì a spingere circa centomila cattolici austriaci ad allontanarsi dalla Chiesa.
Mezzo secolo dopo, all’indomani del Concilio Vaticano II, questo movimento venne ripreso. E tendenze analoghe sembrano di tanto in tanto riemergere anche ai nostri giorni in taluni appelli alla disobbedienza nei confronti del papa e dei vescovi.
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[Più a nord,] furono il disfacimento della monarchia asburgica e la creazione della Repubblica Cecoslovacca, il 28 ottobre 1918, a fare esplodere le tensioni, già da tempo virulente, di gran parte del clero ceco dalle idee nazionaliste, a favore dell’emancipazione dal mal sopportato dominio statale ed ecclesiastico austriaco.
Ben presto prese a delinearsi il programma del movimento di protesta Jednota, entità che già esisteva dal 1890. All’inizio era rivolto contro l’episcopato fedele agli Asburgo. Poi passò a voler realizzare "una Chiesa nazionale democratizzata e nazionalizzata indipendente da Roma" [così Emilia Hrabovec in "Der Heilige Stuhl und die Slowakei 1918-1922 im Kontext internationaler Beziehungen", 2002]. A ciò si aggiunse la richiesta di una liturgia nella lingua nazionale, di una semplificazione della preghiera del breviario e – soprattutto – dell'abolizione dell’obbligo del celibato.
Poiché a Praga ancora non esisteva una rappresentanza vaticana, verso la fine del febbraio 1919 il nunzio a Vienna, Teodoro Valfrè di Bonzo, decise di recarsi a Praga per farsi un’idea personale della situazione. Tra l’altro, già prima di ciò, l’irreprensibile arcivescovo di Praga, il non autoctono conte Pavel Huyn, aveva ricevuto istruzioni dal cardinale segretario di Stato, Pietro Gasparri, di abbandonare la sua sede e di non ritornarvi. A portare a ciò erano state motivazioni prettamente politiche.
Dunque il nunzio si recò a Praga, dove incontrò anche i dirigenti di Jednota. Gli fu presentato un elenco di richieste, stilato da Bohumil Zahradník, sacerdote e romanziere, che dal 1908 viveva un rapporto matrimoniale illegittimo, e che il governo aveva chiamato a capo della sezione per la Chiesa del ministero dell’istruzione.
Le richieste riguardavano soprattutto l’abolizione del diritto di patronato dell’aristocrazia, la scelta dei vescovi da parte del clero e del popolo, la dotazione economica del clero, l’uso della lingua ceca nella liturgia, la democratizzazione della costituzione ecclesiastica, ma, soprattutto, l’abolizione del celibato e degli abiti clericali.
Di fatto, con la fine della monarchia, il diritto di patronato dell’aristocrazia era diventato obsoleto, e la nomina di vescovi autoctoni cechi o slovacchi era certamente in linea con la visione di Benedetto XV.
Anche la questione della lingua usata nella liturgia poteva essere presa in considerazione, mentre la situazione economica dei sacerdoti esulava dalla competenza di Roma.
Tutto il resto, però, era inconciliabile con la fede e con il diritto della Chiesa. Il nunzio non aveva spazio di trattativa. Perciò anche la delegazione di Jednota, che verso la metà di giugno del 1919, d’accordo col governo e a spese di quest’ultimo, si recò a Roma per essere ricevuta dal papa, non ebbe alcun successo.
In ogni modo, la nomina ad arcivescovo di Praga dello stimatissimo professore ceco František Korda?, nel settembre 1919, fu la risposta a una giustificata attesa. Proprio qui, però, si rivelò il vero volto degli agitatori, ai quali non interessava solo la nomina di un ceco a capo dell’arcidiocesi di Praga – una richiesta del tutto lecita e riconosciuta da Roma – ma anche di avere un vescovo secondo il loro desiderio e le loro idee.
Infatti, non appena fu resa pubblica la nomina di Korda?, dalle idee sinceramente nazionali ceche, ma altrettanto sinceramente cattoliche e fedeli al papa, si sollevò contro di lui un’ondata di malumore da parte dei riformisti, i quali potevano contare sull’appoggio del governo di orientamento laicista.
L’esito della missione a Roma della delegazione di Jednota, ritenuto da molti insoddisfacente, comportò tra il clero una divisione degli animi. La facoltà teologica dell’università Carlo IV di Praga prese le distanze dal suo decano, che aveva fatto parte della delegazione.
In una parte si ebbe una radicalizzazione, il cui nocciolo duro era costituito da un gruppo che si chiamava Ohnisko, punto focale. I suoi membri, ben prima del viaggio a Roma, erano decisi a mettere in pratica le loro richieste di riforma anche nel caso di un rifiuto da parte della Santa Sede.
Pertanto, nell’agosto 1919 esortarono i sacerdoti a contrarre pubblicamente matrimonio. Uno dei primi a farlo fu il già citato Zaradník, che con un matrimonio civile non fece altro che legalizzare un concubinato che andava avanti da anni. I preti che seguirono il suo esempio furono assunti in prevalenza al servizio dello Stato, e a settembre furono consegnate al nunzio a Vienna milleduecento richieste di dispensa dal celibato da parte di sacerdoti.
Poi, sotto l’influenza di un nuovo governo anticlericale, si arrivò a una ancor più aspra radicalizzazione di Jednota, i cui protagonisti si avviarono decisi verso lo scisma. "La questione del celibato si dimostrò ancora una volta una delle molle più forti del movimento scismatico" (Hrabovec). L’8 gennaio 1920 fu proclamata la “Chiesa cecoslovacca”, e poco dopo fu scelto un suo "patriarca" nella persona del sacerdote Karel Farský.
Come mostra il censimento del 1921, a questa Chiesa aderì il 3,9 per cento dei cechi, mentre il 76,3 rimase fedele alla Chiesa cattolica. Nove anni dopo, il 5,4 per cento aderiva allo scisma e il 73,5 per cento alla Chiesa cattolica. Oggi, la comunità che si definisce Chiesa ceca-hussita dovrebbe avere circa 100 mila membri. Fin qui i fatti storici.
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Ora occorre però domandarsi come la Santa Sede reagì a questi sviluppi. È interessante osservare che il nunzio Valfré di Bonzo per prima cosa ricercò i motivi che avevano portato a tutto ciò.
L’analisi del nunzio non si fermò certo alla superficie. Indubbiamente egli riconobbe anche in quale misura il movimento di protesta fosse dovuto al risentimento antiasburgico e antiromano di ampie cerchie ceche, nutrito dalla glorificazione di Jan Hus quale simbolo del sollevamento nazionale contro Roma, e in che modo esso rispecchiasse le tendenze generali alla secolarizzazione della società post-bellica.
Individuò le cause principali dell’allontanamento di questi sacerdoti, però, nella formazione insufficiente del clero nei decenni precedenti, dal punto di vista sia teologico sia spirituale, dalla quale era poi derivata l’incapacità, da parte di tanti, di resistere alle idee di progresso nazionaliste e liberali dominanti.
Dal punto di vista attuale bisogna aggiungere che ebbero una certa influenza anche le idee del cosiddetto cattolicesimo riformista tedesco. D’altronde, il movimento di riforma non era cosa di professori o intellettuali, ma del clero semplice di campagna. Il successivo sviluppo della Chiesa nazionale ceca testimonia anche la forte influenza del modernismo. Così, per esempio, il catechismo compilato da Karel Farský affermava che Gesù era figlio di Dio solo nel senso in cui tutti gli uomini sono figli di Dio. Gesù non era Dio, bensì il più grande tra i profeti.
Fu facile capire come il problema affondasse le sue radici più in profondità e non solo a livello di una qualche riforma pratica, disciplinare. È evidente che grandi parti del clero stavano attraversando una crisi che scuoteva la fede cattolica nelle sua fondamenta. Il catechismo di Farský del 1922 confermò questa diagnosi.
A Roma si comprese, in breve, tutta la gravità della situazione. Esisteva il pericolo acuto di "un rimodellamento della Chiesa cattolica secondo il modello presbiterale-sinodale, in una organizzazione ecclesiastica nazionale costruita dal basso, dotata di ampia autonomia da Roma, alla fin fine sottoposta alla sovranità statale" (Hrabovec).
Su questo sfondo, in vista dell’imminente arrivo della delegazione di Jednota a Roma, il nunzio Valfrè di Bonzo aveva già consigliato al cardinale segretario di Stato Gasparri un atteggiamento inequivocabile e deciso dinanzi alle richieste ceche. Riteneva che i protagonisti di Jednota non potessero più essere conquistati neanche con delle concessioni, mentre quanti ancora esitavano sarebbero solo stati destabilizzati se si fosse ceduto. Un gesto sensato per andare loro incontro fu il richiamo definitivo dell’arcivescovo di Praga, il conte Pavel Huyn, e dei vescovi di origine ungherese nelle diocesi slovacche. Ma comunque a Roma si era già deciso di fare questo.
Il resto delle richieste di Jednota, in particolare l’abolizione dell’obbligo del celibato, non ammetteva altro che un rifiuto deciso.
La raccomandazione di Valfré di Bonzo – che in fondo non sarebbe stata nemmeno necessaria – fu accolta nell’agire della curia e del papa. Prima ancora che si giungesse allo scisma, il 3 gennaio 1920, il papa aveva invitato il nuovo arcivescovo di Praga, Korda?, a convocare immediatamente una conferenza dei vescovi del paese che – salute permettendo – doveva essere presieduta dall’arcivescovo di Olomouc, il cardinale Leo Skrbensky.
Pur consapevoli che gli agitatori costituissero solo una parte del clero, si sapeva quanto fosse grande la loro influenza sugli altri. Occorreva quindi valutare se il movimento Jednota fosse risanabile o se occorresse scioglierlo. È indicativo dell’atteggiamento dei vescovi il fatto che nel frattempo avessero già preso l’iniziativa e si fossero riuniti in conferenza.
Quando poi – l’8 gennaio 1920 – avvenne lo scisma, il Sant’Uffizio reagì immediatamente. Con un decreto del 15 gennaio la "schismatica coalitio" fu condannata senza indugio e colpita dalla scomunica.
I sacerdoti che aderivano a quella Chiesa scismatica, a prescindere da posizione e dignità, dovevano essere considerati "ipso facto" scomunicati. Conformemente al canone 2384 del "Codex iuris canonici", questa scomunica era riservata alla Santa Sede "speciali modo". I vescovi furono invitati a rendere immediatamente noto ai fedeli questo decreto e a metterli in guardia dal sostenere in qualsiasi modo lo scisma.
Poco dopo il papa stesso si rivolse all’arcivescovo Korda? con una lettera datata 29 gennaio 1920, nella quale esprimeva il massimo compiacimento per l’iniziativa dei vescovi cechi, per il loro atteggiamento univoco e per il loro stretto vincolo con la Santa Sede. Con apprezzamento, prendeva atto dello scioglimento di Jednota da parte dei vescovi e della sua suddivisione in associazioni diocesane sotto l’autorità e il controllo del vescovo del luogo.
Benedetto XV sottolineava in modo molto deciso che non sarebbe mai stato approvato un allentamento della legge sul celibato, "qua ecclesia latina tamquam insigni ornamento laetatur". Il papa ricordava poi con grande stima i vescovi, che si erano dimostrati all’altezza della sfida in quella difficile situazione.
Verso la fine di quell’anno tanto drammatico e funesto Benedetto XV riprese ancora una volta l’argomento, più precisamente in un’allocuzione al concistoro del 16 dicembre. In quel discorso il papa osservò che fino ad allora non erano stati in molti a voltare le spalle alla Chiesa, e che un numero ben più grande di persone, pur tentate dal cattivo esempio, erano rimaste fedeli.
Ricordò ancora una volta le sottigliezze dell’argomentazione degli scismatici, che avevano parlato di qualche errore procedurale che doveva essere individuato da parte di Roma, e respinse come fuorvianti le affermazioni secondo le quali Roma stava contemplando di mitigare la legge sul celibato. Secondo il papa era superfluo precisare quanto ciò fosse lontano dalla verità. Piuttosto, era certo che la vitalità e lo splendore della Chiesa cattolica dovevano gran parte della loro forza e della loro gloria al celibato dei sacerdoti, che pertanto doveva essere mantenuto intatto. Ciò non era mai stato tanto necessario quanto in quei tempi di corruzione morale e di cupidigie sfrenate, in cui le persone avevano urgente bisogno del buon esempio di sacerdoti esemplari.
E Benedetto XV proseguì: "Riaffermiamo ora solennemente e formalmente quanto già più volte abbiamo avuto occasione di dichiarare, e cioè che giammai questa Sede Apostolica sarà indotta non solo ad abolire, ma nemmeno a mitigare, attenuandola in parte, la sacrosanta e oltremodo salutare legge del celibato ecclesiastico".
Lo stesso valeva per le modifiche alla costituzione della Chiesa. E con ciò la Santa Sede aveva detto l’ultima parola.
Quanto la Santa Sede considerasse seria la situazione è dimostrato anche dall’invio a Praga, nell’ottobre 1919, del promettente giovane monsignore Clemente Micara, prima ancora di essere nominato nunzio nel giugno 1920.
Anche lui, come in precedenza Valfrè di Bonzo, aveva capito da tempo che le richieste dei riformatori avevano radici più profonde che non la mera insoddisfazione per la situazione della Chiesa. Erano piuttosto espressione di una crisi della fede che si stava sempre più diffondendo, addirittura di un movimento di distacco.
Anche a Roma erano giunti alla stessa conclusione, come dimostrano la chiarezza e la decisione con cui sia il Sant'Uffizio sia lo stesso papa risposero ai riformatori cechi. Avevano capito che essi non potevano più essere conquistati attraverso trattative. I riformatori avevano abbandonato i fondamenti della fede cattolica, addirittura del cristianesimo stesso.
Come questo modo di agire della Santa Sede, non determinato da riflessioni politiche e pragmatiche ma soltanto dalla verità della fede, fosse l’unico giusto, lo dimostrano non soltanto i già citati censimenti, ma anche la manifestazione di massa di centinaia di migliaia di persone durante la consacrazione, il 3 aprile 1921, del nuovo arcivescovo di Olomouc, Antonín Cyril Stojan, che si trasformò in una impressionante dimostrazione di fedeltà al papa e alla Chiesa.
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