Ampio e interessante studio sulle origini e gli sviluppi della Liturgia delle Ore a cura dei Benedettini dell'Abbazia di Buckfast (Devon - Inghilterra)
Proponiamo questo ampio studio sull'Ufficio Divino a cura dei monaci Benedettini dell'Abbazia di Buckfast (Devon - Inghilterra), apparso sulla rivista "Homiletic & Pastoral Review" nel 1924 (pagine 43-49; 149-156). Il testo originale inglese è tratto dal sito CatholicCulture.org, la traduzione italiana è a cura di Don Giorgio Rizzieri.
L'Ufficio Divino
Introduzione
Si può dire che la preghiera sia una cosa naturale per l'uomo, in qualsiasi forma essa venga effettuata. Soltanto il più degradato degli esseri umani non si rivolge a Dio d'istinto, per così dire, se non altro quando si sente minacciato da un pericolo. L'uomo ha una facoltà spirituale che lo rende simile al suo Creatore.
Sperimentiamo il bisogno di Dio inconsciamente forse, o troppo vagamente nella maggior parte dei casi, ma questo anelito è la testimonianza che nella nostra natura è insita la solenne verità che siamo stati fatti da Dio per nessun altro fine se non quello di conoscerlo, amarlo ed essere felici di questa beata conoscenza, ora e nella vita più vasta che ci attende nell'aldilà.
C'è un bell'assioma nell'antico Codice Romano che rappresenta il nobile contributo del genio dei Romani al patrimonio etico e intellettuale dell'umanità: res clamat domino. I Romani, come gli anglosassoni di oggi, avevano un elevato senso della sacralità della proprietà privata che era tutelata, come l'onore di una donna, da un centinaio di norme di legge. Per una finzione legale, qualsiasi cosa appartenente a un cittadino dell'impero era, per così dire, assai sensibile e suscettibile su questo punto. Se a un Romano capitava di perdere un proprio bene, non doveva avere alcun timore che se ne impossessasse il primo venuto, poiché l'oggetto stesso avrebbe protestato contro il nuovo ingiusto proprietario e avrebbe invocato quello vero, come un cagnolino domestico geme e piange di tornare al proprio padrone: res clamat domino.
Il nostro cuore grida verso Dio poiché siamo sua proprietà. La preghiera altro non è che l'elevazione della mente e della volontà verso Dio. Non c'è bisogno di parole per comunicare con Lui, né di spostarsi fisicamente per entrare in contatto con Lui, dal momento che Egli riempie ogni spazio con la maestà della Sua invisibile presenza. In questo senso, ha ragione il poeta quando descrive la preghiera con parole che si stampano nella memoria, essendo né più né meno che: Il peso di un sospiro / Il cadere di una lacrima: / Lo sguardo verso l'alto / Quando non c'è nessuno vicino se non Dio. [Verso di una poesia di James Montgomery, (1818 - 1897)].
La natura umana non è però tutta spirituale, ma un insieme di anima e corpo, per questo è necessario che l'uomo renda omaggio al suo Fattore non soltanto nella camera segreta del suo cuore, ma anche con manifestazioni esteriori e corporali di venerazione e di amore. Inoltre l'uomo è un essere per natura sociale. Formiamo una grande famiglia di fratelli, avendo lo stesso Dio per Padre comune. Per questa ragione, la pratica della preghiera pubblica e collettiva è fondata sugli istinti più profondi, e anche più veri, dell'umana natura. Il culto pubblico e comunitario della Maestà Divina è uno stretto dovere. Quante volte lo scrittore sacro esorta i popoli della terra a lodare il loro Signore?
Omnes gentes plaudite manibus: jubilate Deus in voce exultationis...
Psallite Deo nostro, psallite: psallite Regi nostro, psallite (Sal. 46).
E anche il messaggio del noto Salmo 116, tanto breve quanto ricco di significato, non è un mero pio desiderio o un'effusione poetica, ma una dichiarazione vera e propria del dovere che incombe su tutti di lodare Dio, insieme alle ragioni di tale obbligo:
Laudate Dominum omnes gentes: laudate eum omnes populi.
Quoniam confirmata est super nos misericordia eius:
et veritas Domini manet in aeternum.
La lode di Dio ha avuto inizio con l'origine stessa della nostra stirpe. Nel Giardino delle delizie, nella bellezza radiosa e incontaminata della primitiva innocenza, i nostri progenitori glorificavano il loro Creatore, della cui grandezza essi possedevano una conoscenza e una comprensione che di gran lunga supera la misura che può raggiungere le nostre capacità, indebolite a causa della caduta del primo uomo e della prima donna e per i nostri peccati personali. "Il Signore creò l'uomo dalla terra...li rivestì di una forza pari alla sua e a sua immagine li formò. Discernimento, lingua, occhi, orecchi e cuore diede loro per pensare. Li riempì di scienza e d'intelligenza ... Pose il timore di sé nei loro cuori, per mostrare loro la grandezza delle sue opere, e permise loro di gloriarsi nei secoli delle sue meraviglie. Loderanno il suo santo nome per narrare la grandezza delle sue opere" (Sir. 17, 1ss.).
Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi e a diffondersi sulla terra, anche il male si accrebbe. Ciononostante, a fianco della malvagità e della follia umana, notiamo che esiste una forma organizzata di culto divino, poiché leggiamo del sacrificio di Caino e Abele e sappiamo di Enoch, figlio di Set, il quale "cominciò a invocare il nome del Signore" (Gen. 4, 26). Qui ci è dato chiaramente di intuire qualche forma di culto pubblico, dato che non ci può essere alcun dubbio che, oltre al giusto Abele, anche Adamo ed Eva abbiano invocato il nome del Signore durante i lunghi secoli di penitenza per espiare le scelte cattive fatte nel tragico giardino.
Nella pienezza del tempo, lo stesso Figlio di Dio è venuto nel mondo per essere per tutti Salvatore e modello di santità e di perfezione morale. Gesù Cristo ha imposto il dovere di pregare con la parola e con l'esempio: Erat pernoctans in oratione Dei, dice l'evangelista, e il suo espresso comando è di pregare sempre, senza stancarsi mai di compiere tale dovere che è anche il più grande privilegio dell'uomo.
La preghiera del Signore era parte integrante della Sua missione redentiva a nome dell'umanità. Non ne aveva bisogno per sé ma intercedeva per noi, per grazia e misericordia. La preghiera di Cristo è un inno di lode e di supplica: "Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli" (Mt. 11, 25). Della sua supplica San Paolo dice: "Nei giorni della sua vita terrena Egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a Lui, venne esaudito" (Eb. 5, 7).
La preghiera è un atto della virtù di religione, una virtù speciale, afferma San Tommaso d'Aquino, la più nobile delle virtù morali e appartenente alla virtù cardinale della giustizia. Inclina il cuore a rendere a Dio l'omaggio che Gli è dovuto. Ora, essendo le perfezioni di Dio infinite e la nostra capacità di riconoscerle e ammirarle confinata entro limiti ristrettissimi, la religione ci spinge a onorare, glorificare, lodare e adorare la Maestà di Dio fino al massimo possibile delle nostre capacità, consapevoli che, per quanto ci sforziamo, saremo sempre molto lontani da quello che Egli esige dalle nostre mani. "Nel glorificare il Signore, esaltatelo quanto più potete, perché non sarà mai abbastanza. Nell'esaltarlo moltiplicate la vostra forza, non stancatevi, perché non finirete mai" (Sir. 43, 29-30).
La giustizia, o perfezione morale, è pertanto strettamente connessa con la lode di Dio e la preghiera. Leggiamo in un'omelia a lungo attribuita a Sant'Agostino: "Vere novit recte vivere, qui recte novit orare - Ha imparato a vivere bene solo chi ha imparato a pregare bene" (Migne, P.L., Op. S. Aug. v, p. 1847). Il culto a Dio deve essere esterno ed interno. E' un puro sofisma da parte dei puritani valersi delle parole che Nostro Signore disse alla donna di Samaria: "Viene l'ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità" (Gv. 4, 23). Afferma un Concilio di Colonia dell'anno 1860, che non sarebbe di certo "un culto vero e sincero quello confinato dentro il cuore che non si esternasse mai, e che non è possibile custodire mentalmente una disposizione che non venga mai accesa ed infiammata da atti esterni".
San Paolo era di avviso ben diverso e, di sicuro, non era un esteriorista o un arido formalista. "Per mezzo di Lui dunque (Gesù Cristo) offriamo a Dio continuamente un sacrificio di lode, cioè il frutto di labbra che confessano il Suo nome" (Eb. 13, 15).
II.
Pur ponendo il dovuto accento sul dovere di rendere culto a Dio, non dobbiamo mai dimenticare il fatto che Dio non ha alcun bisogno della nostra lode. Non possiamo aggiungere un solo atomo alla somma totale delle Sue adorabili perfezioni, nella contemplazione delle quali consiste la Sua gloria eterna e infinita. San Tommaso d'Aquino definisce la ragione per la quale dobbiamo rendere culto interno ed esterno a Dio con queste parole: "Prestiamo a Dio riverenza ed onore non per se stesso, che in sé è così pieno di gloria che nessuna creatura può aggiungergli nulla, ma per noi: poiché mediante la riverenza e l'onore che prestiamo a Dio la nostra mente a Lui si sottomette, raggiungendo così la propria perfezione. Ora l'anima umana per unirsi a Dio ha bisogno di essere guidata dalle cose sensibili, poiché come dice l'Apostolo "le Sue perfezioni invisibili vengono contemplate e comprese attraverso le opere da Lui compiute" (Rm. 1,20). Perciò nel culto divino è necessario servirsi di cose materiali, come di segni mediante i quali l'anima umana venga eccitata alle azioni spirituali che la uniscono a Dio. La religione quindi abbraccia atti interni, che sono principali ed essenziali per la religione, e atti esterni, che sono secondari e ordinati a quelli interni" (San Tommaso, Summa II-II, q.81, a.7).
Che il dovere della preghiera, o più in generale, l'obbligo di adorare la Maestà di Dio, vincoli ogni creatura razionale, non è negato da nessuno che creda in Dio e riconosca la propria dipendenza da Lui. I benefici che riceviamo da Dio sono in ogni ora del giorno: in ogni momento Egli ci dona la vita e l'essere. Ogni dono perfetto da sempre discende dall'alto, dal Padre della Luce. Ne deriva perciò che il dovere della lode e del ringraziamento ci sollecita a tutte le ore e in tutti i luoghi. E' vero che l'individuo non è in grado di sostenere uno sforzo continuo e intenso, ma guai al mondo se il profumo della lode e della preghiera dovesse cessare di innalzarsi al cospetto di Dio!
La Chiesa Cattolica - la Sposa immacolata dell'Agnello - si fa carico di questo dovere impellente e benedetto. Ad ogni ora del giorno e della notte, in tutto il mondo, Ella benedice e glorifica il Signore del cielo e della terra. La Liturgia della Chiesa cattolica è la continuazione dell'intercessione e delle suppliche di Nostro Signore durante i giorni della Sua vita mortale. Si può dire senza tema di esagerare che, come la Messa quotidiana è prosecuzione e riattualizzazione mistica del sacrifico del Calvario, così la preghiera liturgica della Chiesa è sequela e continuazione della preghiera che Gesù effondeva al Padre celeste mentre era pernoctans in oratione Dei.
La Chiesa Cattolica, pur composta di esseri umani fragili e peccatori, è veramente il corpo di Cristo. Nella Chiesa, Gesù Cristo continua a vivere in questo mondo, soffre, prega e loda il Padre che è nei cieli. La voce della Chiesa è perciò la voce di Gesù Cristo. Con le dovute riserve, possiamo applicare all'ufficio pubblico della Chiesa quanto Sant'Agostino dice del Battesimo: Petrus baptizet, hic est qui baptizat; Paulus baptizet, hic est qui baptizat; Judas baptizet, hic est qui baptizat - Pietro battezza? E' Cristo che battezza; Paolo battezza? E' Cristo che battezza; Giuda battezza? E' Cristo che battezza". (Trattato su Giovanni, 6). La preghiera liturgica costituisce un valore inestimabile proprio perché non è una manifestazione privata e personale di pietà, ma un atto compiuto in nome, per autorità e delega della Chiesa universale.
La recita dell'Ufficio Divino, in una forma o nell'altra, attiene al carattere sacerdotale. L'ideale del sacerdozio comporta due cose: il sacrificio e la preghiera. Questo era il concetto di vita apostolica di San Pietro, di cui siamo partecipi col nostro sacerdozio. Non è giusto, dice il Principe degli apostoli, che noi trascorriamo il tempo a servire alle mense - altri siano scelti per questo compito - nos vero orationi et ministerio instantes erimus (At. 6, 4). San Tommaso dice che l'Ufficio Divino non è una pratica privata e personale di devozione: Communis oratio est quae per ministros Ecclesiae in persona totius populi Deo offertur (Summa II-II, q.83, a.12).
I religiosi non sacerdoti o le vergini consacrate a Dio, se recitano l'Ufficio Divino quotidianamente, lo fanno non da persone private ma come delegati e rappresentanti di tutta la Chiesa. Nella mente del principale legislatore dei monaci d'occidente, il Divino Ufficio è l'occupazione più importante dei monaci e al quale nulla deve essere anteposto: Nihil operi Dei praeponatur (Regola di San Benedetto).
L'Ufficio è la preghiera della Chiesa e ha perciò un'efficacia simile a quella dei sacramenti, poiché Cristo non può restare sordo ai dolci accenti della Sposa. La preghiera liturgica oltrepassa prontamente le nubi e giunge all'ascolto del Padre che è nei cieli; ma non sono le nostre parole esitanti che Egli ascolta, quanto la forte voce del Figlio amato, nella quale si fondono le nostre deboli voci. Non è appunto con il Signore che noi ci uniamo formalmente all'inizio delle Ore canoniche? Domine in unione illius divinae intentionis, qua ipse in terris laudes Deo persolvisti, has tibi horas persolvo - Signore, unendomi alla tua divina intenzione, con la quale in terra elevasti lodi a Dio Padre, ti elevo nella lode queste Ore.
La singolare dignità della preghiera pubblica della Chiesa deve suscitare la nostra attenzione e devozione. Preghiamo, intercediamo, adoriamo e lodiamo come rappresentanti accreditati della Chiesa, e il nostro culto è unito al culto dell'Uomo-Dio. Lungi da noi, dunque, qualsiasi tipo di sciatteria o fretta sconveniente, preoccupazioni vane e sciocche immaginazioni. Quando diciamo l'Ufficio, in un coro prestigioso o in qualche nobile cattedrale o nel silenzio del nostro studio - anticipiamo sulla terra quella che sarà la nostra eterna occupazione in cielo. Divina psalmodia est eius hymnodiae filia quae canitur assidue ante sedem Dei et Agni: così si legge nella prefazione di Papa Urbano VIII al Breviario che usiamo giorno dopo giorno. Lo stesso concetto è nobilmente espresso nell'inno per la Dedicazione di una chiesa:
Sed illa sedes caelitum
Semper resultat laudibus,
Deumque trinum et unicum
Jugi canore praedicat:
Illi canentes jungimur
Almae Sionis aemuli.
Della preghiera pubblica della Chiesa cattolica si può dire, con le debite proporzioni, ciò che il pio autore dell'Imitazione di Cristo dice del Sacrificio della Messa: il sacerdote, con la devota recita dell'Ufficio - fosse anche su una carrozza del treno - onora Dio, allieta gli angeli, edifica la Chiesa, aiuta i viventi, ottiene il riposo per i defunti e diviene partecipe di ogni cosa buona.
Non siamo isolati o abbandonati a noi stessi. Per grazia, siamo membra vive di un organismo vivente, nel quale si agisce, si reagisce e si è influenzati in mille modi misteriosi. Non vi è dubbio che la recita dell'Ufficio Divino diventerà non un dovere faticoso, ma una fonte di felicità, se la osserviamo alla luce della fede soprannaturale. Già nel terzo secolo, il grande martire africano, San Cipriano, diceva della preghiera ecclesiastica: Publica est nobis et communis oratio, et quando oramus, non pro uno, sed pro toto populo oramus, quia totus populus unum sumus (San Cipriano, De Oratione Domini, VIII).
fonte: www.catholicculture.org/culture/library/view.cfm?recnum=9037
La formazione dell'Ufficio Divino
L'Ufficio Divino è chiamato comunemente Breviario. Non sta mai chiuso per troppo tempo - ci accompagna dovunque andiamo - e le pagine consumate sono le confidenti dei nostri pensieri quotidiani. Quante volte succede, aprendo il libro e recitando i salmi o le preghiere proprie di un certo giorno, di ricordare all'improvviso quello che ci è accaduto, forse qualche anno addietro, precisamente in quel giorno particolare, di gioia o di dolore. E' perciò nel massimo interesse di ogni sacerdote avere almeno alcune nozioni generali sull'origine, la crescita e lo sviluppo del Breviario fino alla sua familiare forma attuale.
Etimologicamente, il termine "Breviarium" significa registro o inventario. In questo senso è usato da San Benedetto nella sua Regola, quando dice l'Abbas brevem teneat riguardo agli strumenti appartenenti al monastero. Nel Medio Evo significa tenere un elenco di brani evangelici da leggersi in chiesa nel corso dell'anno. In genere, Breviarium era un po' come il nostro Ordo, o anche meno, poiché non era che un foglio sul quale si scrivevano alcune direttive per la celebrazione delle Messe e la salmodia. Era un'intera collezione suddivisa in genere in quattro volumi, secondo le quattro stagioni dell'anno, del pensum completo del servizio a Dio, distinto dal Messale, dal Pontificale e dal Rituale che contengono i testi delle Messe, i vari riti dei sacramenti e così via. Già Alcuino, verso la fine del secolo VIII, usa il termine Breviarium parlando del Libro delle Ore che lui stesso aveva composto per l'uso personale dell'Imperatore Carlo Magno.
Diamo solo alcuni lineamenti sulla storia della formazione del Breviario. L'osservanza di forme di preghiera pubblica o liturgica da parte della Chiesa è di origine apostolica. Come sappiamo, gli ebrei offrivano tre sacrifici ogni giorno, vale a dire all'alba, a metà della giornata e nel tardo pomeriggio o sera. E' altrettanto certo che gli apostoli e i primi discepoli di Cristo non si erano staccati, nei primi tempi, dalla sinagoga. Al contrario, leggiamo che essi "ogni giorno erano perseveranti insieme nel Tempio", e l'unica divergenza dalla pratica ebraica era che essi "spezzavano il pane nelle case, lodando Dio" (At. 2, 46). Anche se gli apostoli avessero desiderato effettuare un cambiamento radicale, sarebbe stato impossibile improvvisare una nuova forma di culto, completa e a sè stante. La Legge antica è solo l'ombra della Legge nuova, tuttavia sembrò naturale mantenere la cornice della vita religiosa ebraica, se non altro per addolcire la transizione dalla sinagoga alla Chiesa cristiana. Dal Libro degli Atti sappiamo quanto la Chiesa di Gerusalemme ci tenesse a mantenersi legata alle funzioni del Tempio, da sempre amate.
Ancora gli Atti ci mostrano San Pietro e San Giovanni che salgono al Tempio a pregare all'ora nona del giorno. Nel giorno di Pentecoste, troviamo il collegio apostolico in preghiera quando all'ora terza lo Spirito Santo discese sotto forma di lingue di fuoco. E quando San Pietro ebbe la visione del grande telo calato per i quattro angoli dal cielo sulla terra, egli stava in preghiera al piano superiore della casa verso l'ora sesta (At. 10, 9).
Queste ore della preghiera apostolica corrispondono alle ore del sacrificio e della lode nel Tempio, come pure alle ore fisse di preghiera di cui i pii ebrei si erano fatti una regola dai giorni del loro esilio. Nei penosi anni trascorsi presso i fiumi di Babilonia non esisteva il rito del sacrificio, ragion per cui questo fu sostituito dalla preghiera, dalla lettura delle Scritture e dal canto dei salmi. Tali pie pratiche sopravvissero dopo il ritorno dall'esilio e furono, di norma, osservate per tutto il tempo della diaspora.
Nelle ore di preghiera osservate dagli apostoli abbiamo, per così dire, il nucleo dal quale sbocciò quel maestoso albero pieno di frutti che è la Divina Liturgia, in grado di produrre una messe tanto ricca di fiori e frutti dolcissimi, per la gloria di Dio e il conforto dell'uomo. Mattino, mezzogiorno e sera erano distinte in celebrazioni proprie - le altre Ore canoniche erano un primitiva sequenza di lamentazione.
Fin dall'inizio, e necessariamente, il culto cristiano comprende due elementi ben distinti, e cioè la frazione del pane o Sacrificio Eucaristico, e la recita di preghiere e salmi, che i neo-convertiti conoscevano già molto bene fin dai loro primi passi nella fede. Conosciamo qualcosa sulla natura di queste preghiere, grazie a un testo famoso di San Paolo. Scrivendo al diletto Timoteo, che aveva nominato Vescovo di Creta, l'Apostolo gli dà delle direttive valide non solo per sé, ma per la vita e la pratica della Chiesa. Quando i fedeli si riuniscono per pregare, vi devono essere quattro generi di culto: Obsecro igitur primum omnium fieri obsecrationes, orationes, postulationes, gratiarum actiones, pro omnibus hominibus - Raccomando prima di tutto che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini (1 Tim. 2, 1). Ovviamente, non si tratta di devozione privata ma di preghiera comunitaria e di ringraziamento - in altre parole, di celebrazione liturgica. I primi commentatori hanno visto in questa ingiunzione apostolica i rudimenti, quanto meno, di una liturgia: Disciplinae leges tradidit (Paulus) pro publicis Ecclesiae precibus in Missa et Officio divino, dice Sant'Ambrogio (In Tim. cfr. Migne P.L. XVII. 466). Sant'Agostino, in realtà, cerca di applicare i quattro termini paolini esclusivamente alle quattro parti del Sacrificio Eucaristico. Tuttavia, già nel primo secolo San Clemente I Papa menziona una direttiva apostolica per le ore di culto. San Paolo, ovviamente, insiste affinchè Timoteo compia fedelmente nella sua chiesa ciò che era già consuetudine altrove.
San Clemente Papa, nella sua lettera alla Chiesa di Corinto scritta nell'anno 96, distingue chiaramente il sacrificio eucaristico dalle altre funzioni religiose: "Dobbiamo fare ogni cosa fedelmente come il Signore ci ha comandato; i sacrifici e i sacri Uffici siano offerti nelle ore stabilite e a intervalli regolari".
Qualche tempo dopo, troviamo un'altro accenno alle pratiche liturgiche dei primi cristiani, tanto più prezioso in quanto non fu certo scritto per facilitare le ricerche antiquarie dei posteri. Plinio il giovane era governatore della Bitinia all'inizio del II secolo, e in un rapporto indirizzato all'imperatore Traiano, egli parla delle assemblee dei cristiani. Non ha niente da biasimare, tutto ciò che sa di loro è che sono soliti radunarsi prima dello spuntar del giorno: ante lucem convenire, carmenque Christo quasi Deo canere. "Poi si ritirano durante il giorno" quibus peractis moram discedendi, per ritrovarsi la sera per un pasto comune". Era l'agape seguita dalla Cena eucaristica (Plinio, Epist. I. x. 97).
La Didachè prescrive la recita della preghiera del Signore tre volte al giorno e ad ore fisse. Questa preghiera corrisponde al triplice sacrificio e al culto che si praticavano nel Tempio. Le varie prescrizioni della Didachè ci danno tutti gli elementi di un vero e proprio Ufficio canonico. Dobbiamo inoltre considerare che il sacrificio ebraico del mezzogiorno e quello vespertino si erano gradualmente unificati, in modo che vi erano nel Tempio solo due assemblee generali dedicate al sacrificio: una al mattino e l'altra nel tardo pomeriggio o alle prime ore della sera. Si continuava a parlare di tre sacrifici, ma nello stesso modo in cui noi parliamo di Mattutino e Lodi come di due distinti Uffici, i quali erano effettivamente distinti e separati all'inizio, non solo nel carattere ma anche per i tempi diversi di celebrazione; virtualmente però, essi formano un unico Ufficio notturno della Chiesa.
Gli scritti di Tertulliano sono la più importante fonte d'informazione per gli ultimi due decenni del II secolo. Nel suo libro sulla Preghiera, egli dà per scontato che tutti i cristiani osservino dei momenti stabiliti di preghiera, al mattino e di notte. Per il resto del giorno non esiste alcuna norma, tuttavia egli dichiara che "non erit otiosa extrinsecus observatio etiam horarum quarumdam, istarum dico communium quae diem inter spatia signant, tertia, sexta, nona, quas sollemniores in Scriptura invenire est". Dobbiamo pregare non meno di tre volte al giorno, noi che siamo i debitori del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. E' un dovere distinto dalla preghiera stabilita che deve essere offerta, senza ulteriore insistenza, all'inizio del giorno e della notte. (De Oratione 23-25).
Fin dai primissimi tempi notiamo pure una tendenza ad associare alcune ore di preghiera con i misteri della Redenzione. Nei Canones Hippolyti infatti leggiamo che i cristiani devono pregare all'ora terza, perché in quell'ora il Salvatore del mondo volontariamente si fece crocifiggere per la nostra salvezza. (Un'altra spiegazione è: perché a quell'ora Nostro Signore fu condannato da Pilato). Si deve pregare all'ora sesta, perché a quell'ora tutta la creazione fu sconvolta dal crudele crimine dei Giudei; all'ora nona, perché a quell'ora Cristo pregò e affidò il Suo spirito nelle mani del Padre.
Ogni secolo successivo aggiunse il suo contributo per rendere sempre più stabile e solenne la preghiera pubblica della Chiesa. Tuttavia, fu solo in tempo di pace per la Chiesa, quando finalmente emerse dalla schiavitù e dalle feroci persecuzioni dei poteri civili, che l'Ufficio Divino potè prendere la forma definitiva che conosciamo. Due fatti determinarono il suo sviluppo: la fondazione e diffusione degli Ordini religiosi e l'osservanza religiosa dei misteri dell'Incarnazione, vale a dire l'istituzione delle festività di Nostro Signore, di Maria Santissima, dei martiri e anche di quei santi che non erano martiri della fede.
Si può affermare senza esagerare, che furono gli ascetae, o monaci, a inventare l'Ufficio Divino, la cui celebrazione era la loro principale occupazione. Essi arricchirono quello che già costituiva il compito quotidiano del clero e anche dei laici. Come nota in proposito Thomassin: "La santa disciplina del monachesimo getta una luce non piccola su quello che dirò riguardo agli Uffici ecclesiastici: quod enim a Matre acceperant, non sine foenore filii reddidere. Cominciarono i monaci come discepoli della Chiesa, ma dei discepoli tali che la Chiesa ritenne un guadagno e un onore seguire le loro orme" (Vet. et Nov. Eccl. Discipl. p. I, c. 2).
Si ricava una chiara idea degli elementi costitutivi dell'Ufficio Divino, dopo il riconoscimento civile della Chiesa, studiando la famosa Peregrinatio di Eteria. Questa nobile e intraprendente donna gallo-romana testimoniò la celebrazione della liturgia nella Città Santa verso la fine del IV secolo. "Ogni mattina - racconta - prima del canto del gallo, vengono aperte le porte della chiesa della Risurrezione, dove scendono i monaci e le monache e non solo, ma anche uomini e donne che desiderano vegliare con loro. Da quell'ora fino all'alba, si recitano inni e salmi, responsori e antifone. Dopo ogni salmo si legge una preghiera ... Appena spunta la luce del giorno, incominciano a recitare i salmi del Mattutino e delle Lodi". Anche la Terza, la Sesta e la Nona vengono osservate. "All'ora decima, che noi chiamiamo Lucernarium, la moltitudine si riunisce ancora nell'Anastasis, si accendono tutte le lampade e le candele e si crea un grande splendore; dopodiché si cantano i salmi dei Vespri: dicuntur psalmi lucernares, sed et Antiphonae diutius"; vale a dire che l'Ufficio dei Vespri era più lungo dell'Ufficio di Terza, Sesta e Nona. Inoltre, i salmi cantati erano già entrati nell'uso comune o approvati dalla legge ecclesiastica.
Negli scritti dei Padri del IV e V secolo, troviamo molte allusioni agli Uffici, sia notturni che diurni. I preti e i monaci non erano i soli a celebrarli, anche i fedeli laici vi partecipavano, e i più fervorosi tra questi assistevano sempre anche alla salmodia notturna. La Veglia pasquale era universalmente osservata. Anche le veglie dei martiri erano frequentate, ma si concedeva una misura di libertà riguardo a queste ultime (cfr. San Girolamo contra Vigilantium). Lo stesso san Girolamo raccomanda Laeta di portare con sé la sua bambina, anche se piccola, tutte le volte che partecipa agli Uffici notturni delle grandi festività. San Girolamo parla delle Ore di Terza, Sesta, Nona, Vespri, mezzanotte e mattina.
Fino al V secolo, l'Ufficio Divino era ancora in uno stato di fluidità, con tanta varietà e incertezza. Ci voleva un grande maestro per coordinare i diversi elementi della liturgia e farne un complesso armonioso. Per questo, Dio ha dato alla sua Chiesa quel meraviglioso liturgista che fu San Benedetto, il patriarca del monachesimo occidentale, il quale fece per la Chiesa latina ciò che il re Davide aveva fatto per i servizi del Tempio: dedit in celebrationibus decus et ornavit tempora usque ad consummationem vitae, ut laudarent nomen sanctum Domini, et amplificarent mane Dei sanctitatem - alle celebrazioni egli diede decoro e mise ordine ai tempi solenni fino al termine della sua vita, affinché lodassero il nome santo di Dio, e magnificassero la santità di Dio ogni mattina (Sir. 47, 12-14, Vulgata).
San Benedetto legiferò solo per i suoi monaci. Nella sua umiltà, egli arriva a suggerire che se il suo ordinamento dell'Ufficio Divino non piace, ci si deve sentire liberi di cambiarlo o migliorarlo. Ed invece la Chiesa non solo ha mantenuto la sua opera, ma tutti gli storici sono concordi nell'affermare che la Chiesa Cattolica ha assunto la disposizione di San Benedetto a modello dell'ordinamento finale della liturgia. " Sull'esatto ordinamento degli Uffici, la distribuzione dei salmi, antifone o responsori ... vi è stata grande varietà nelle diverse chiese ... i Concili provinciali hanno tentato di portare uniformità e quando questa finalmente fu raggiunta, fu sotto l'ispirazione della Regola benedettina, in particolare per l'influenza e la pratica dei monasteri di Roma, quelle grandi abbazie raggruppate attorno alle basiliche del Laterano, del Vaticano, di Santa Maria Maggiore che gradualmente divennero Capitoli, dapprima regolari e in seguito secolari" (Duchesne, Origines du culte chrétien, p. 437).
Per prima cosa, il disegno di San Benedetto fu quello di ordinare la distribuzione dei salmi in modo che l'intero salterio si potesse recitare nel corso di una settimana. Anche le Scritture dovevano essere lette completamente ogni anno, insieme alle omelie o commentari quae a nominatissimis, et orthodoxis, et catholicis patribus factae sunt (Regula, c. 9). L'Ufficio notturno consiste di almeno dodici salmi, e altri dodici sono riservati per le Ore del giorno, tre per ciascuna. Il Lucernario si divide in due Uffici, rispettivamente chiamati Vespri e Compieta. Ogni Ora inizia con l'invocazione tanto cara agli antichi santi dei deserti orientali: Deus in adjutorium meum intende. San Benedetto dà anche ospitalità a inni metrici - l'Ambrosianus, come egli chiama la nuova composizione. Da ciò, notiamo che il grande legislatore attinse tanto da Milano quanto da Roma. Ma è sempre la grande Chiesa romana il suo modello (sicut psallit Ecclesia romana) (Regula, c. 13).
Quando l'ultima fondazione di San Benedetto, l'abbazia di Montecassino, fu distrutta dai Longobardi, i suoi monaci cercarono una nuova sede e la trovarono nei pressi del Laterano. Contemporaneamente, nuovi monasteri benedettini venivano costruiti nell'immediata vicinanza delle altre basiliche, e i monaci vi cantavano il Divino Ufficio di giorno e di notte. In questo modo, l'ordinamento dell'Ufficio, impostato da San Benedetto, ottenne sempre maggiore importanza e influenza. Dobbiamo a questo grande santo la disposizione definitiva della divina salmodia che fu accolta dalla metà del VI secolo in poi, non solo a Subiaco e Montecassino, ma nel cuore stesso della cristianità.
Ci si può domandare: "San Benedetto ha ordinato la salmodia ex novo, oppure ha basato la sua disciplina psallendi su ciò che era in uso a Roma?". La risposta sembrerebbe che Roma - o forse, più correttamente - Montecassino e Roma si influenzavano a vicenda. Uno scrittore del secolo VIII, o probabilmente della metà del secolo VII, afferma che il cursus di San Benedetto assomiglia moltissimo alle sequenze delle liturgie romane: "Est et alius cursus, beati Benedicti, quem singulariter pauco discordantem a cursu romano in sua Regula reperies scriptum" (Cfr. Dict. d'archeol. chrét. Bréviaire, p. 1307).
segue....
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