Rubrica di teologia liturgica a cura di Don Mauro Gagliardi
di Natale Scarpitta*
ROMA, mercoledì, 21 marzo 2012 (ZENIT.org).- Il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), richiamando la Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium (cf. n. 8), insegna che «nella Liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste, che viene celebrata nella santa Città di Gerusalemme» (n. 1090). Riprendendo questa consapevolezza squisitamente teologica, ribadisce poi che «coloro che celebrano il culto liturgico, vivono già in qualche modo, al di là dei segni, nella Liturgia celeste, dove la celebrazione è totalmente comunione e festa» (n. 1136). Ed aggiunge: «è a questa Liturgia eterna che lo Spirito e la Chiesa ci fanno partecipare quando celebriamo, nei sacramenti, il Mistero della salvezza» (n. 1139).
L’azione liturgica allora non si esaurisce nella sua dimensione meramente storica. Essa piuttosto è un assaggio (cf. Giovanni Paolo II, Udienza Generale, 28.06.2000), un riflesso reale seppur pallido (cf. Benedetto XVI, Omelia alla celebrazione dei Vespri nella Cattedrale di Notre-Dame a Parigi, 12.09.2008), di quella che incessantemente si celebra nell’alto dei cieli. La Liturgia ecclesiale, dunque, non costituisce semplicemente un’imitazione più o meno fedele della Liturgia celeste, né tantomeno una celebrazione parallela o alternativa. Essa, piuttosto, significa e rappresenta una concreta epifania sacramentale della Liturgia eterna.
Una delle immagini bibliche che stanno a fondamento di tutto ciò la propone il Libro dell’Apocalisse, nelle cui pagine viene delineata una luminosa icona di Liturgia celeste (cf. Ap 4–5; 6,9; 7,1-9; 12; 14,1; 21; 22,1; e anche CCC, nn. 1137-1138).
È l’intera creazione che eleva a Dio una lode incessante. Ed è proprio a questa Liturgia ininterrotta del cielo che la comunità costituita dal popolo santo di Dio, radunata in fraterna esultanza nell’assemblea liturgica, misticamente si associa nelle celebrazioni ecclesiali. Cielo e terra si ricongiungono in una sublime communio sanctorum.
Non risulta allora difficile comprendere la verità di fede esposta dal Catechismo quando insegna che la Liturgia è azione del «Cristo tutto intero» (CCC n. 1136), ossia del Capo inscindibilmente unito al Suo Corpo Mistico, che è la Chiesa nel suo insieme: celeste, purgante, pellegrinante.
L’azione liturgica che si compie, inoltre, non rappresenta una celebrazione dei membri di una qualsiasi comunità ecclesiale. È sempre la Chiesa tutta, quella universale, ad esserne realmente coinvolta. Anzi, è proprio nella Liturgia che la scultorea descrizione della Chiesa come «sacramento di unità» si invera nel suo massimo fulgore. In essa, infatti, l’intima unità che vige tra i fedeli diventa espressione viva, reale e concreta.
A questo proposito il CCC, al n. 1140, parla anche della preferenza che, nel culto liturgico, deve essere data alla celebrazione comunitaria rispetto a quella individuale e quasi privata. Ciò si spiega soprattutto per il valore «epifanico» della liturgia: il rito comunitario, cioè, non è un rito che «vale» di più, ma senz’altro è un rito che manifesta meglio il carattere ecclesiale di ogni celebrazione liturgica.
Nello stesso numero del Catechismo si specifica pure che non tutti i riti liturgici comportano una celebrazione comunitaria: ciò vale in particolare per il Sacramento della Riconciliazione (la cui celebrazione – tranne casi del tutto eccezionali – deve essere individuale!), per l’Unzione degli infermi, e per numerosi Sacramentali. Il Sacrificio eucaristico rappresenta invece il grado massimo che può esprimere la celebrazione comunitaria: viene offerto infatti a nome di tutta la Chiesa, è il principale segno dell’unità, il più grande vincolo di carità.
C’è da dire comunque che, anche quando l’azione liturgica viene compiuta secondo la modalità individuale, essa non perde mai il suo carattere essenzialmente ecclesiale, comunitario e pubblico.
È necessario, poi, che la partecipazione all’azione liturgica sia «attiva», ovvero il singolo fedele non assicuri solo una presenza esteriore, ma anche un interiore coinvolgimento attraverso una consapevole attenzione della mente e una predisposizione del cuore, che sono sia risposta dell’uomo suscitata dalla grazia, sia fruttuosa cooperazione con essa.
La dimensione essenzialmente comunitaria dell’azione liturgica non esclude, però, che coesista la dimensione gerarchica (al contrario, il concetto stesso di «Comunità ecclesiale» richiede ed include quello di «Gerarchia ecclesiale»). Il Culto liturgico, infatti, riflettendo la natura teandrica della Chiesa, è azione di tutto il popolo santo di Dio, che è ordinato e agisce sotto la guida dei sacri ministri. L’espressa menzione dei vescovi (cf. CCC, n. 1140) è un richiamo alla costitutiva centralità della figura episcopale, attorno alla quale ruota la vita liturgica della Chiesa locale. In parole più semplici, sebbene la celebrazione sia di tutta la Chiesa, essa non può svolgersi senza i sacri ministri. In modo particolare, ciò vale per l’Eucaristia, la cui celebrazione è riservata ai sacerdoti per diritto divino.
All’interno dell’azione liturgica, intesa quale manifestazione limpida dell’unità del Corpo della Chiesa, in virtù del proprio Battesimo, il singolo fedele svolge il proprio compito, a seconda del suo stato di vita e dell’ufficio che ricopre all’interno della comunità (cf. CCC, nn. 1142; 1144). Oltre ai ministri consacrati (vescovi, sacerdoti e diaconi), vi è anche una varietà di ministeri liturgici (sagrista, ministrante, lettore, salmista, accolito, commentatore, musici, coristi, ecc.) il cui compito è normato dalla Chiesa, o determinato e specificato dal vescovo diocesano secondo le tradizioni liturgiche o le necessità pastorali della Chiesa particolare a cui è preposto.
* Don Natale Scarpitta, presbitero dell’Arcidiocesi di Salerno – Campagna – Acerno, è Dottorando in Diritto Canonico presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma.
fonte: Zenit.org
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