venerdì 31 ottobre 2025

Don Ravagnani e quel malinteso rapporto tra piacere e dovere






Chiesa cattolica | CR 1922



di Fabio Fuiano, 29 Ottobre 2025 

Nello scorso articolo, abbiamo ricordato una recente intervista a don Alberto Ravagnani, commentando il modo in cui in essa si è parlato del rapporto tra marito e moglie nel matrimonio. Vogliamo ora riprendere il discorso, concentrando l’attenzione sull’opinione che il sacerdote ha manifestato sui rapporti prematrimoniali e sui fini del matrimonio. L’argomento riveste una grande importanza, anche alla luce delle recenti decisioni del governo sulla c.d. “educazione sessuale” nelle scuole e del revisionismo in tema di morale sessuale che alcuni “teologi” (citati dallo stesso Ravagnani) vorrebbero all’interno della Chiesa.

Per don Ravagnani ci sarebbe da chiedersi «se la conoscenza reciproca dei due partner, anche attraverso l’esperienza della sessualità possa aiutare l’anima a compromettersi, a sperimentare la bellezza dell’amore, a far desiderare una vita insieme […]. Credo che la Chiesa debba imparare a dare un po’ più di valore al tema del piacere, che non ci sia soltanto il dovere in una relazione».

Il discorso si è poi spostato sui fini del matrimonio: «un tempo, la sessualità era finalizzata alla procreazione. Adesso la Chiesa dice: no, è finalizzata all’unione e alla procreazione. C’è un tema unitivo e un tema procreativo. Se prima c’era il tema procreativo quasi e basta adesso il tema unitivo prevale».

Secondo don Ravagnani, l’insegnamento della Chiesa su ciò che è peccato e ciò che non lo è, sarebbe frutto di un vecchio retaggio culturale: prova di ciò sarebbe per lui il fatto che la sessualità vissuta da una coppia di sposi con molti figli, ma con un matrimonio combinato – come un tempo si usava – pur essendo “priva” della dimensione unitiva, non costituirebbe formalmente un peccato. Viceversa, a differenza del caso precedente, la sessualità vissuta prima del matrimonio, pur con una viva componente unitiva, verrebbe “considerata” peccato dalla Chiesa. In conclusione – ha affermato – «credo che occorra andare al di là della legge così come è scritta sulla carta, il Catechismo, e seguire la legge dell’amore».

Anche in questo caso, si deve fare lo sforzo di guardare alla verità cattolica sul tema nella sua integralità. Solo così è possibile rendersi conto quanto artificiosa sia la contrapposizione tra legge dell’amore e legge morale naturale. La Chiesa ha molto da dire sul piacere connesso alla generazione, ma il modo in cui ne parla è sempre secondo verità e non per assecondare il peccatore.

Illuminanti, a tal proposito, sono le parole del certosino Dom François Pollien (1853-1936) nella sua opera intitolata Cristianesimo vissuto (Edizioni Fiducia, Roma, 2017, pp. 52-54).

L’autore, rivolgendosi direttamente al lettore, lo conduce per mano a capire come mai Dio, nella sua infinita bontà, abbia disseminato tanti piaceri nelle creature. Quando si ha a disposizione uno strumento facile a maneggiarsi, si prova del piacere a servirsene e di conseguenza si compie con maggiore facilità quel che si deve fare. Infatti, afferma Dom Pollien, «quando si tratta di un lavoro importante, gli strumenti non sono mai troppo precisi, perfetti e maneggevoli. È difficile fare un bel lavoro con strumenti che si maneggiano con difficoltà. Dio lo sa e perciò, in ogni strumento, volle metterci per te un piacere. Ad ogni dovere risponde uno strumento per farlo, e ad ogni strumento corrisponde un piacere per ben compiere il dovere».

Ecco l’idea di Dio e la delicatezza del suo amore: «Egli ti affida un magnifico incarico: quello di glorificare Lui e di render te beato. Per questo ti dà un numero infinito di strumenti che sono le creature. Per facilitarti l’uso di questi strumenti, in ognuno di essi mette un piacere: ecco il piacere creato».

Ma, domanda Pollien, cos’è per noi questo piacere? Per le nostre facoltà «quello che l’olio è per le ruote. Osserva una macchina: quando tutto è secco, provi a metterla in moto; sforzi inutili. L’attrito fa troppa resistenza, lo stridore è violento, i movimenti stentati, e così il meccanismo si guasta in poco tempo. Metti una piccola goccia d’olio nei punti più indicati, ed ecco che gli attriti cessano, il movimento si compie con la massima facilità, tutta la macchina funziona senza guastarsi. Per agire con facilità e forza anche le tue facoltà hanno bisogno d’un po’ d’olio, di quell’olio di gioia che Dio ha fatto appunto per lubrificare il meccanismo, per dir così, delle anime che vogliono amare la giustizia e odiare l’iniquità».

La funzione del piacere, dunque, è quella di facilitare il lavoro, «quella di attirare, trascinare, elevare, incoraggiare, dilatare, fortificare le tue facoltà nell’esercizio del tuo dovere. È dunque un piacere strumentale, una semplice facilitazione di lavoro e non mai un fine. Esamina tutti i piaceri, dai più soprannaturali fino ai più materiali, da quello delle estasi e delle consolazioni divine nelle alte vette della perfezione fino a quelli del cibo e della generazione, nelle regioni inferiori della conservazione della specie e degli individui umani, tutti senza eccezione hanno per scopo di facilitare il compimento di un dovere».

Ecco, dunque, che ad ogni piacere, nell’idea di Dio, corrisponde un dovere da compiere. Non siamo fatti per abusarne, ma per servircene.

Coloro che ne abusano «si lasciano ingannare da esso e dimenticano il dovere. Quello che Dio aveva fatto solo per facilitare il dovere, diventa invece l’ostacolo più grande. […] Colui che si trastulla coi piaceri sensuali, ohimè! Diventa un bruto […] Ricordati di questo: il piacere creato è un rimedio per uso esterno: guai a te se lo ingoi. Dunque, invece d’ingoiarlo, servitene; esso t’aiuta a farti compiere il tuo dovere. Servitene per uso esterno, cioè secondo l’espressione di S. Agostino, tienilo nella mano e non permettere che alberghi nel cuore. Fa’ sì che il piacere serva unicamente al dovere; non separar mai queste due cose. Ogni piacere, trastullo, divertimento, gioia o soddisfazione, che prendi fuori del tuo dovere, ti guasta. Temi come la morte il piacere che soffoca le tue facoltà nell’egoismo del godimento. Ma quello che ti conduce al tuo dovere, che dà alle tue facoltà lo slancio, la forza, la gioia, il vigore, l’agilità, per compiere il dovere con facilità e prontezza, oh! Sì, quello è buono e benefico, non temere; servitene, Dio lo benedice».

Come se non bastasse – ricorda Pollien – in principio Dio «aveva creato soltanto strumenti e non ostacoli, piaceri e non sofferenze. Ogni creatura era uno strumento, ed ogni strumento portava con sé il suo piacere. Il peccato sconvolse profondamente questo primo piano di Dio; cambiò una quantità di strumenti in ostacoli, ed una moltitudine di piaceri in sofferenze. L’ostacolo e la sofferenza sono conseguenza del peccato». Ma la bontà di Dio per noi «Gli fece trovare, anche dopo il peccato, il mezzo di cambiare gli ostacoli stessi in strumenti, e le sofferenze in gioie. La Passione del Salvatore ha operato questo prodigio. Tutto serve al bene degli eletti, tutto, anche gli ostacoli del peccato, e tutto per loro diventa gioia, perfino la sofferenza, che diventa la più grande delle gioie».

Se il piacere è subordinato al dovere in quanto strumentale ad esso, allora anche il fine unitivo e il corrispondente piacere della relazione tra i coniugi devono essere subordinati al fine procreativo e all’educazione della prole. L’unione fine a sé stessa costituisce una sterilizzazione del matrimonio e della sua bellezza. Solo ristabilendo la corretta gerarchia di questi fini nel sacramento del matrimonio è possibile ricostituire quell’armonia a cui ogni cuore umano anela.






Il card. Simoni recita una preghiera di esorcismo nella Basilica di San Pietro


Il Card. Simoni al pellegrinaggio Summorum Pontificum di Roma.

Il cardinale Ernest Simoni, albanese di 97 anni, decenni fa è stato torturato, imprigionato e condannato a morte. Sabato, al termine della Messa a San Pietro, si è recato all'ambone e ha compiuto un esorcismo recitando la lunga preghiera di San Michele di Leone XIII. Come commenta Fr. Zuhlsdorf qui, San Pietro aveva bisogno di quell'esorcismo da molto tempo, vista la Pachamama, le due profanazioni dell'altare maggiore e la recente invasione LGBTQ+, per non parlare di altre violazioni. Grazie a Dio per questo audace intervento di un vero confessore della fede.




Michael J. Matt

Sabato 25 Ottobre, durante la Messa tradizionale Summorum Pontificum celebrata nella Basilica di San Pietro, è accaduto un altro fatto che mi sembra significativo. Tra i prelati di chiara fama presenti alla Messa in latino celebrata da Sua Eminenza il Cardinale Raymond Burke c'era il famoso esorcista, il Cardinale Ernest Simoni Troshani, che all'età di 97 anni è salito sul pulpito e ha recitato con voce tonante una preghiera di esorcismo composta da Papa Leone XIII nel 1890.

Chi è il cardinale Simoni Troshani?


Il cardinale Simoni è un cardinale albanese, nato il 18 ottobre 1928, che secondo la sua voce nel College of Cardinals Report, ha trascorso «diciotto anni in prigione per mano dei comunisti albanesi». Dopo aver completato clandestinamente gli studi in seminario, è stato ordinato sacerdote il 7 aprile 1956. Ma la vigilia di Natale del 1963, dopo aver celebrato una Messa pubblica "illegale", Simoni è stato arrestato e imprigionato.

Inizialmente fu condannato a morte per aver celebrato la Messa (all'epoca la Messa Tridentina), ma la sentenza fu poi commutata in venticinque anni di lavori forzati. Durante gli anni di prigionia, Simoni subì «torture e condizioni di vita estreme, compreso il lavoro nelle miniere e nelle fogne». Lungi dall'essere intimidito dalla minaccia della tortura, celebrava segretamente la Messa in latino a memoria e ascoltava le confessioni dei suoi compagni di prigionia.

Dopo il suo rilascio nel 1981, secondo il rapporto del Collegio Cardinalizio, il cardinale Simoni era ancora considerato un "nemico del popolo" e fu quindi costretto a lavorare nelle fogne di Scutari. Ciononostante, continuò a esercitare clandestinamente il suo ministero sacerdotale fino alla caduta del regime comunista nel 1990.

Facciamo un salto in avanti fino ai giorni nostri.


Questo eroico sacerdote, un tempo condannato a morte per aver celebrato la Messa, ha partecipato ieri al pellegrinaggio Summorum Pontificum. Dal santuario dell'Altare della Cattedra, Sua Eminenza ha recitato una preghiera di esorcismo composta da Papa Leone XIII il 18 maggio 1890. La preghiera fu composta dopo che Papa Leone aveva ascoltato una conversazione tra Dio e il Diavolo, subito dopo aver celebrato la Messa, in cui il Diavolo si vantava di poter distruggere la Chiesa in cento anni. Temendo per le anime e per la vita della Chiesa di cui Leone era il capo visibile, il Santo Padre compose la preghiera di esorcismo, che fu raccomandata dalla Chiesa ogni volta che si sospettano atti del Diavolo.

Ecco un estratto della preghiera di esorcismo recitata ieri in San Pietro:

"Supplica il Dio della Pace di schiacciare Satana sotto i nostri piedi, affinché non possa più tenere gli uomini prigionieri e danneggiare la Chiesa. Offri le nostre preghiere al cospetto dell'Altissimo, affinché la misericordia del Signore venga rapidamente in nostro aiuto, affinché tu possa catturare il drago, l'antico serpente, che è il diavolo e Satana... Noi scacciamo ogni spirito immondo, ogni potere satanico, ogni assalto dell'avversario infernale, ogni legione, ogni gruppo e setta diabolica, nel nome e con il potere di nostro Signore Gesù + Cristo».

Cose importanti stanno accadendo, amici. Questa è una guerra tra Dio e Satana, e molti hanno cominciato solo di recente a comprenderne la portata. Uniamoci quindi a questa Guerra Santa con gli strumenti e l'armatura dei soldati di Dio. Continuiamo a offrire preghiere di riparazione e supplica, affinché Dio protegga noi e la Santa Madre Chiesa dal fuoco dell'inferno. Soprattutto in questa grande festa di Cristo Re, offriamo preghiere di ringraziamento per i buoni pastori - i generali di questo esercito - che Dio, nella Sua Provvidenza, ha ritenuto opportuno concederci. La semplice esistenza di tali uomini dimostra, ancora una volta, che Dio non ha abbandonato la Sua Chiesa.






L’idea di famiglia di Leone XIV e del percorso sinodale italiano





 

di Roberto de Mattei, 29 Ottobre 2025

Louis Martin (1823-1894) e Zélie Guérin (1831-1877), genitori di santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, sono stati canonizzati insieme nel 2015. Nel decimo anniversario della loro elevazione agli altari, lo scorso 1° ottobre, papa Leone XIV ha inviato a mons. Bruno Feillet, vescovo di Séez, un ampio messaggio di cui vale la pena leggere i passi salienti.

«Delle vocazioni alle quali gli uomini e le donne sono chiamati da Dio, il matrimonio – dice il Papa – è una tra le più nobili e più alte. (…) Louis e Zélie hanno compreso che potevano santificarsi non malgrado il matrimonio, bensì attraverso, nel e con il matrimonio, e che le loro nozze dovevano essere considerate come il punto di partenza di un’ascesa a due. La coppia santa di Alençon è quindi un modello luminoso edentusiasmante per le anime generose che hanno intrapreso questo cammino o che hanno intenzione di percorrerlo, con il desiderio sincero di condurre una vita bella e buona sotto lo sguardo del Signore, nella gioia come nella prova. Hanno assunto il loro dovere di stato nella normalità della vita quotidiana, (…). Tuttavia non bisogna farsi trarre in inganno: questa vita in apparenza “comune” era abitata dalla presenza a dir poco “straordinaria” di Dio, che ne era il centro assoluto. “Dio al primo posto” è il motto sul quale hanno costruito la loro intera esistenza».

«Ecco dunque – aggiunge Leone XIV – il modello di coppia che la Santa Chiesa presenta ai giovani che desiderano, forse con esitazione, lanciarsi in un’avventura così bella: un modello di fedeltà e di attenzione all’altro, un modello di fervore e di perseveranza nella fede, di educazione cristiana dei figli, di generosità nell’esercizio della carità e della giustizia sociale; un modello anche di fiducia nella prova… Ma soprattutto, questa coppia esemplare testimonia l’ineffabile felicità e la gioia profonda che Dio concede, già qui sulla terra e per l’eternità, a coloro che si impegnano su questo cammino di fedeltà e di fecondità. In questi tempi difficili e confusi, nei quali ai giovani vengono presentati tanti contro-modelli di unioni, spesso passeggere, individualiste ed egoistiche, dai frutti amari e deludenti, la famiglia così come l’ha voluta il Creatore potrebbe sembrare superata e noiosa. Louis e Zélie Martin testimoniano che non è così (…). Che felicità riunirsi la domenica, dopo la messa, intorno al tavolo dove Gesù è il primo ospite e condivide le gioie, le pene, i progetti e le speranze di ognuno! Che felicità questi momenti di preghiera comune, questi giorni di festa, questi eventi familiari che segnano il tempo! Ma anche che conforto stare insieme nelle prove, uniti alla Croce di Cristo quando questa si presenta; e infine, che speranza quella di ritrovarsi un giorno riuniti nella gloria del cielo! Care coppie, vi invito a perseverare con coraggio sul cammino, talvolta difficile e complicato, ma luminoso, che avete intrapreso. Prima di tutto, mettete Gesù al centro delle vostre famiglie, delle vostre attività e delle vostre scelte. Fate scoprire ai vostri figli il suo amore e la sua tenerezza senza limiti, e sforzatevi di farlo amare a sua volta come merita: ecco la grande lezione che Louis e Zélie ci insegnano per il presente, e di cui la Chiesa e il mondo hanno tanto bisogno. Come avrebbe potuto Teresa amare tanto Gesù e Maria– e poi trasmetterci una dottrina così bella – se non l’avesse imparato dai suoi genitori sin dalla più tenera età?».

Poche settimane dopo questo messaggio, il 25 ottobre, è stato approvato, con 781 “placet” su 809 votanti, dalla Terza assemblea sinodale il Documento di sintesidella Conferenza episcopale italiana,dal titolo “Lievito di Pace e di Speranza”. Il documento si presenta non come dottrinale, ma come pastorale, e va giudicato soprattutto per il suo stile e il suo linguaggio, che dovrebbe essere chiaro ed evangelico ed è invece contorto e intriso di spirito mondano.

Colpisce innanzitutto l’assenza di modelli positivi, proposti ai giovani e alle famiglie. Eppure, anche a non voler citare i coniugi Martin ricordati dal Papa, e limitarsi solo all’Italia, si sarebbero potuti ricordare come modelli: i beati Luigi Maria Beltrame Quattrocchi; i venerabili Sergio Bernardini e Domenica Bedonni; i servi di Dio Ulisse Amendolagine e Lelia Cossidente, tutti vissuti nel ventesimo secolo (cfr. La santità nelle famiglie del mondo, Libreria Editrice Vaticana 2022).

Inoltre, si sarebbe potuta definire la famiglia cristiana, formata da un uomo e da una donna indissolubilmente legati, per costruire una famiglia, come un luminoso modello per i giovani. Non solo ciò non accade, ma nelparagrafo La cura delle relazioni della Parte I, i vescovi italiani propongono percorsi di «accompagnamento, discernimento e integrazione» per le «situazioni affettive e familiari stabili diverse dal sacramento del matrimonio», specificando che si tratta di «seconde unioni, convivenze di fatto, matrimoni e unioni civili, etc.» (n. 30), ovvero quelle che Leone XIV chiama giustamente «contro-modelli», dai «frutti amari e deludenti».

Nel punto successivo si auspica che «le Chiese locali, superando l’atteggiamento discriminatorio a volte diffuso negli ambienti ecclesiali e nella società, si impegnino a promuovere il riconoscimento e l’accompagnamento delle persone omoaffettive». Va sottolineata la sostituzione del termine “omosessuale” con quello“omoaffettivo” e l’applicazione del termine positivo “riconoscimento” a situazioni oggettivamente peccaminose.

Il linguaggio e lo spirito del documento è ben diverso da quello di Leone XIV. Se il Papa, nel suo messaggio, esorta a mettere “Gesù al centro” e “Dio al primo posto”. Gesù Cristo e Dio sono invece rigorosamente assenti dalla prospettiva sociologica e antropocentrica del testo approvato dai vescovi. Lo sguardo non è rivolto a Gesù Cristo, ma al mondo, per benedirlo.

Nelle parole del documento, sottolinea nell’Introduzione, mons. Erio Castellucci, Presidente del Cammino sinodale, ci sono la storia e il senso del Cammino sinodale delle Chiese in Italia. «In questi quattro anni – scrive il Vescovo – ci siamo ispirati al magistero di papa Francesco che, fin dall’inizio del percorso sinodale universale, ci esortò – richiamando Yves Congar – a fare non un’altra Chiesa, ma una Chiesa diversa, aperta alla novità che Dio le vuole suggerire». Castellucci aggiunge che il documento «riporta la realtà di oltre duecento Chiese locali, con tutte le loro articolazioni», «comunità cristiane», che«non sono allo sbando». Il riferimento alle duecento chiese locali sembra una larvata minaccia di possibile ribellione al Papa, se contrastasse questo cammino.

Questa è la realtà che Leone XIV ha ereditato dal suo predecessore. Ma cosa può fare oggi il Papa per arrestare un processo di auto-dissoluzione della Chiesa, che non è italiano, ma planetario, e che è iniziato non sotto papa Francesco, ma negli anni del post-concilio? Chi sono oggi i presidenti e i segretari delle Conferenze episcopali nel mondo? Chi sono gli oltre cinquemila vescovi residenziali? Chi sono gli oltre 400.000 sacerdoti che da questi vescovi dipendono, se non, in larga parte, uomini di Chiesa che si sono formati nei seminari e nelle università ecclesiastiche infette da relativismo e neo-modernismo, che sono stati cooptati ai loro posti di responsabilità in coerenza con queste dottrine e che fanno parte di una catena di comando dalla quale, fino ad oggi, sono stati estromessi e marginalizzati i sacerdoti e i vescovi più fedeli all’insegnamento immutabile della Chiesa? La domanda è accorata e va posta con il Rosario in mano, perché ciò che umanamente pare impossibile, può diventare possibile con l’aiuto di Dio che tutto può (Mt. 19, 26).





giovedì 30 ottobre 2025

«Sola, senza figli: credere nel femminismo mi ha rovinato la vita»



La giornalista Kate Mulvey è l’ultima femminista a fare mea culpa: “Ho pagato un prezzo altissimo per la mia cosiddetta liberazione“. Intanto tra le giovani dilaga l’anti-femminismo.


Ultimissime


La Redazione, 30 Ott 2025


Colpa del femminismo, dice Kate Mulvey.

63 anni, giornalista e attivista radicale, si dichiara sola e senza figli e accusa l’ideologia a cui ha dedicato per anni tutta se stessa della responsabilità di un destino che oggi le appare come una profonda sconfitta.


“Il femminismo mi ha rovinato”

In un racconto spoglio e diretto, Mulvey riflette sulla sua vita:
«Sono convinta che il motivo per cui continuo a prenotare un tavolo per una persona a 63 anni, invece di aver trovato un partner, è perché, come per tante donne della mia generazione, il femminismo ha rovinato la mia vita sentimentale».
Mulvey ricorda il suo inizio nel movimento di liberazione femminile in una prestigiosa università inglese, quando «trascorrevamo le pause pranzo assorbendo i mantra femministi di Germaine Greer e Betty Friedman: “Comportatevi come uomini”, gridavano mentre bruciavano i reggiseni e demonizzavano i lavori domestici e la famiglia».

Mulvey descrive le sue disastrose relazioni affettive, quando si arrabbiava per ogni gentilezza ricevuta da un uomo, anche fosse stato un mazzo di fiori. Arriva a «pentirsi profondamente» del numero di «avventure occasionali» che ha avuto che la lasciavano ogni volta «vuota e usata».

Eppure le femministe hanno sempre incoraggiato a “fare sesso come un uomo” ma anche questo, scrive, «ci si è ritorto contro».

La ferita maggiore per donne come Kate Mulvey, vittime del femminismo, sembra essere proprio la solitudine e il soffocamento forzato dell’istinto materno.

Invece di garantire potere, ha spiegato infatti, «il femminismo della seconda ondata ci hanno fatto credere che il matrimonio e la vita domestica dovessero essere evitati come la peste e che gli uomini fossero nemici piuttosto che partner».

Aveva sempre immaginato il suo matrimonio, dei figli meravigliosi ma «ho pagato un prezzo altissimo per la mia cosiddetta liberazione».


Qualcosa sta cambiando?

Oggi qualcosa sta cambiando e negli Stati Uniti e su Tik Tok dilaga il fenomeno delle cosiddette “Tradwife”, guidato da donne anti-femministe che elogiano la distinzione dei ruoli, la maternità e la vita familiare.

La stessa Mulvey afferma che «l’idea che le donne siano diverse dagli uomini e che il sesso occasionale possa essere dannoso per noi sta prendendo piede».

Come riferimento cita la giornalista britannica Louise Perry, autrice del bestseller “The Case Against the Sexual Revolution” (2022) in cui confuta le argomentazioni a favore della rivoluzione sessuale.

Nel suo ultimo libro, “A New Guide to Sex in the 21st Century” (2025), Perry mostra con dati alla mano come il sesso occasionale, le app di incontri, la pornografia, la norma della contraccezione prematrimoniale e la normalizzazione delle perversioni sessuali mettano a rischio le donne. Ritiene che la società trarrebbe beneficio al ritorno di valori tradizionali.

Né Mulvey, né Perry ovviamente rivendicano una società patriarcale o una sottomissione agli uomini.

Bensì una valorizzazione della famiglia dove i ruoli siano tradizionalmente intesi, una società dove la maternità non venga osteggiata e dove una donna possa scegliere di privilegiare la casa e la famiglia alla carriera lavorativa senza essere considerata anormale, succube o una che si trascura.


Femministe pentite, anche in Italia

Nel corso degli anni abbiamo dato voce a queste donne, nel 2022 parlavamo ad esempio di Candace Bushnell, autrice del famoso programma femminista “Sex in the City”. Anche lei, stesso copione: «Siamo tutte donne single, senza figli. Prima non ci pensavo, ora mi sento sola».

E che dire della scrittrice Samantha Johnson? «Quando sono diventata madre», scrisse, «il femminismo mi ha deluso. Predichiamo alle ragazze che non c’è alcun valore nella maternità, promuoviamo la carriera professionale come simbolo di successo svalutando completamente il contributo dei genitori a casa. Dobbiamo dire alle donne quanto è importante è essere madri».


In Italia fatica ancora ad arrivare questa consapevolezza.


L’abbiamo individuata in un raro lamento, soffocato, di Rossanda Rossanda, fondatrice de Il Manifesto, quando ammise: «Aver avuto figli? Adesso mi sentirei meno sola e soprattutto avrei la percezione di avere tramandato qualcosa di me».

In uno dei pochi momenti senza maschera, anche Emma Bonino manifestò sentimenti simili.

«Non sono mai stata moglie, mai madre», confessò la leader radicale. «Sola lo sono sempre. Sola intimamente, politicamente. Piango moltissimo, da sola. Su questo divano. Mi appallottolo qui e piango».

Come sempre Alda Merini aveva però già capito tutto, nel 2008 fu reclutata a sua insaputa dalla femministe in un appello contro il Papa “oscurantista” e lei lo denunciò in un’intervista a Lucia Bellaspiga, aggiungendo:
«Il vero diritto di una donna è quello alla maternità: il figlio è il più grande atto d’amore e il suo mistero resta intatto. E’ una bestemmia negare tutto questo in nome di un femminismo che è l’opposto dell’essere femmina, nel senso più alto del termine».




Ognissanti a San Vitale Pistoia

 








In che modo il personalismo filosofico ha contribuito alla crisi del cattolicesimo contemporaneo?





30 Ottobre 2025


Con il personalismo cambia il concetto di “persona”

1. Mounier, pensatore di riferimento del personalismo, anzi proprio colui che ha coniato il termine “personalismo”, dice chiaramente che non si può dare alcuna definizione precisa della persona. Egli così scrive nel suo libro più rappresentativo, che s’intitola appunto Il personalismo: Ci si aspetterebbe che il personalismo cominciasse con una definizione della persona. Ma si possono definire solo gli oggetti posti fuori dell’uomo, e che l’uomo può porsi sotto gli occhi. Invece la persona non è un oggetto: essa anzi è proprio ciò che in ogni uomo non può essere trattato come oggetto. (Il personalismo, Milano 1952, p.7).

2. Dunque, se non si può dare una precisa definizione di persona, vuol dire che la metafisica classica, quella che ci piace definire come “filosofia naturale e cristiana”, sbaglia. Lo stesso Severino Boezio (475-525) avrebbe sbagliato quando affermava che la persona è: Rationalis naturae individua substantia, cioè: Sostanza individuale di natura razionale, dove la persona è data dal suo essere sostanza completa, individuale e soprattutto capace di ragione. No. Mounier e i personalisti non sono d’accordo. Per loro la persona sarebbe un insieme di emanazioni e manifestazioni psicologiche, in cui sarebbero centrali i sentimenti, le emozioni, gli stati d’animo…

3. Vi chiederete: perché una convinzione di questo tipo ha influenzato l’attuale crisi della Chiesa e della fede cattolica? Per rispondere ricordiamo ciò che il modernismo e il neo-modernismo teologici (che sono la vera “anima” dell’attuale crisi) affermano in merito alla fede. Essa non deve essere più concepita come un assenso dell’intelletto alle verità rivelate rivelate, bensì sarebbe solo una forma di sentimento religioso che scaturirebbe dal fondo della sub-coscienza.

4. Oggi il cattolico “ragiona” paradossalmente togliendo di mezzo la ragione nell’atto di fede. Questa (la fede) sarebbe solo un credere “cieco”, ancor meglio: un credere nell’assurdo. Anzi, ci si convince che più si crede nell’assurdo e più l’atto di fede sarebbe meritevole. Ma questo non è un ragionare cattolico: è un ragionare da buon protestante. Insomma, essere cattolici significherebbe soprattutto “sentirsi” tali, non essere intelligentemente convinti di esserlo. Se si chiedesse a molti cattolici oggi: Perché lo sei? La risposta con ogni probabilità sarebbe di questo tipo: Sono cattolico perché mi sento di esserlo. Si tratta, insomma, di una riduzione della fede ad “esperienza”. Ovviamente non si può negare che la fede sia anche uno sperimentare la vita con Dio, ma un conto è dire che la verità giudica l’esperienza, altro è che sarebbe l’esperienza a giudicare la verità. Se bastasse il “sentirsi bene” per giustificare la propria fede, allora come la mettiamo con il musulmano che può dirci: Anch’io mi sento bene nell’essere musulmano? E infatti, proprio questa riduzione della fede ad “esperienza” ha aperto ulteriormente le porte al sincretismo e al relativismo religiosi sempre più promossi dai modelli aperturisti del cosiddetto “dialogo interreligioso”.

L’amore si deve auto-giudicare

5. Un altro punto in cui l’influenza del Personalismo è evidente nella crisi attuale del cattolicesimo contemporaneo è quello relativo alla concezione dell’amore. Per capirlo, dobbiamo sempre partire dalla concezione “fluida” della persona che fa sì che questa venga vista prevalentemente sotto l’aspetto psicologico. Anche in questo caso va fatta una precisazione: un conto è dire che bisognerebbe dare importanza anche alla dimensione psicologica, altro è pretendere di definire la persona solo sotto l’aspetto psicologico. Se si cade in questo errore (la persona è prevalentemente dimensione psicologica), diviene consequenziale che l’amore, che è una passione, non debba più sottostare all’impero della ragione per essere da essa giudicata, bensì diventa criterio a sé. Facciamo parlare Mounier: "(…) l’atto di amore è la più salda certezza dell’uomo, il cogito esistenziale irrefutabile: Io amo, quindi l’essere è, e la vita vale (la pena di essere vissuta).” (Il personalismo, cit., p.37). Ecco spiegato perché oggi tanti cattolici non si sentono più in dovere di correggere chi vive in stato di peccato grave a causa di condizioni di vita come convivenze extraconiugali o omosessuali. Non sono pochi i cattolici (anche praticanti) che commentano casi di questo tipo dicendo: Che male c’è? Se si amano…

La fede ridotta ad “incontro”


6. Come abbiamo detto prima, la concezione autenticamente cattolica di fede è: assenso dell’intelletto alle verità rivelate. Dunque, c’è l’assenso e c’è il coinvolgimento dell’intelligenza a Dio che si rivela. E’ evidente che la fede si finalizzi con il vivere con Dio, con lo sceglierLo, con l’abbracciarLo, ma tutto questo è l’esito di un assenso, di un capire, di un aderire a Lui che si rivela. Invece, nel neo-modernismo attuale l’incontro non è più l’esito logico dell’atto di fede, bensì ne diventa il tutto esclusivo; causando in tal modo quella deriva esperenzialista della fede di cui abbiamo parlato prima. Questa convinzione, purtroppo, è stata portata avanti anche da realtà tendenzialmente positive (ma guarda caso influenzate anch’esse dal personalismo) che pur volevano inizialmente contrastare una certa deriva neo-modernista. Pensiamo, per esempio, alla teologia di don Luigi Giussani, fondatore del movimento di Comunione e Liberazione. Si leggano attentamente queste sue parole, tratte dal suo All’origine dell’esperienza cristiana: "L’oggetto primo della mia fede non consiste in una lista di verità, intelligibili o non. (…) è l’abbraccio di una Persona vivente (…) E’ questo l’essenziale, l’oggetto rivelato non è concepito come una serie di proposizioni (…).” (All’origine dell’esperienza cristiana, Milano 1988, p.56).

Oblio dell’apologetica

7. La dimenticanza dell’apologetica che ha caratterizzato i decenni del post-concilio non è che la conseguenza di tutto questo. I catechismi di una volta erano di una chiarezza sublime, una chiarezza che faceva ben capire la differenza tra verità ed errore. Poi non si è capito più nulla (nel senso letterale del termine), perché non si è voluto far capire più nulla. I catechismi moderni (pardon: modernisti), e non ci riferiamo solo a quelli folli della teologia olandese, presentano tutto in maniera vaga, intellettualista (intellettualismo che è il contrario dell’intelligenza) e in maniera sentimentale. Proprio perché l’apologetica doveva essere fatta fuori, e lo doveva essere per favorire la deformazione del concetto di fede di cui abbiamo parlato.

Sopravvalutazione della coscienza nell’atto morale

8. Altro punto in cui il personalismo ha dato un contributo significativo alla crisi del cattolicesimo è stato nell’ambito della teologia morale. Quello strano concetto di persona come insieme di emanazioni psicologiche, in cui l’intelligenza passa in secondo piano, si è riflettuto sul concetto di coscienza. Questa da “luogo” bisognoso di essere illuminato dalla verità per riconoscere cosa sia bene e cosa sia male, è sempre più diventato “luogo” decisionale del bene e del male. A questo poi si aggiunge che nell’ambito del personalismo la persona non potrebbe prescindere dalla situazione storica e sociale in cui si trova, situazione che non si limiterebbe ad influenzarla, ma addirittura a determinarla.

Oblio della mortificazione e delle virtù passive a favore dell’attivismo

9. C’è un punto del personalismo che finora non abbiamo toccato, ovvero che la persona si realizzerebbe aprendosi necessariamente agli altri. Anche qui va fatta una precisazione. Un conto è dire che la persona è un essere naturalmente sociale e che ha l’obbligo morale di aprirsi ai bisogni altrui, altro è dire che ontologicamente necessita di questo. Una tale affermazione farebbe della relazione la sostanza stessa della persona rendendola ulteriormente evanescente. Ebbene, tale convinzione si è riflettuta nel modo di pensare di molti cattolici i quali ormai sembrano essere convinti dell’inutilità, se non addirittura della dannosità, delle virtù cosiddette “passive”: mortificazione, digiuno, temperanza, castità… A che servono le suore di clausura? Meglio quelle che stanno per strada ad aiutare i poveri! Facciamo parlare ancora Mounier: “(…) Spesso questa inquietante preoccupazione di purezza esprime anche un narcisismo superiore, una preoccupazione egocentrica d’integrità individuale, staccata dal dramma della collettività; (…).” (Il personalismo, cit., pp.106-107).

La Chiesa nella sua dimensione orizzontale

10. E veniamo all’ultimo punto: come il personalismo ha influito sul concetto di Chiesa così come è “evoluta” (pardon: “involuta”) nel dominante neo-modernismo. Abbiamo detto che nella concezione di persona di Mounier e soci la relazione assurge a sostanza, pertanto l’apertura agli altri diventa l’essere stesso della persona. Se è così, la Chiesa finisce con l’essere essenzialmente considerata come “comunità” e non più come “Mistero della presenza di Cristo nella storia degli uomini”. Ciò che rende la Chiesa “Chiesa” non sarebbe più Cristo ma l’unione degli uomini. Ecco spiegato perché oggi si pensa che il problema più grave non è rifiutare Cristo con il peccato, bensì tutto ciò che potrebbe minacciare la convivenza pacifica tra gli uomini (i conflitti, le guerre…) o la loro salute fisica (inquinamento ambientale, malattie…). Ma non solo: se la Chiesa è prevalentemente “comunità”, se la Chiesa è soprattutto “mistero dell’apertura all’altro” piuttosto che unione con Cristo, allora tutti gli uomini, in quanto uomini, sono automaticamente figli di Dio e già sarebbero in un certo qual modo “salvati”. E’ il “cristianesimo anonimo” di Karl Rahner.






Contrordine compagni, anche Bill Gates cambia idea sul clima



Il cambiamento climatico non è un'apocalisse. Lo afferma anche Bill Gates, che sinora è stato uno dei maggiori promotori del catastrofismo climatico. Addirittura arriva a sostenere, come i "negazionisti", che adattarsi è meglio che mitigare.

CATASTROFISMO ADDIO

Creato 


Stefano Magni, 30-10-2025

Contrordine compagni: «Il cambiamento climatico avrà serie conseguenze, particolarmente per coloro che vivono nei Paesi più poveri, ma non condurrà alla scomparsa dell’umanità». Parola di Bill Gates. Il fondatore di Microsoft, il filantropo che ha investito miliardi nelle energie rinnovabili e ha fatto lobbying per l’adozione delle politiche verdi più radicali, oggi non sembra troppo preoccupato dal cambiamento climatico. «Nell’immediato futuro – dice - la gente sarà in grado di vivere e prosperare nella maggior parte dei luoghi del pianeta». Quindi, sbaglia chi ritiene che l’apocalisse sia imminente, a partire da lui stesso nel recente passato. Come quando scriveva libri quali Clima, come evitare un disastro, pubblicato nel 2021.

Gates, che ha costituito la coalizione di investitori Breakthrough Energy, per finanziare le startup delle rinnovabili, in un saggio pubblicato il 28 ottobre scrive: «le prospettive apocalittiche spingono una gran parte dei difensori dell’ambiente a concentrarsi troppo sull’obiettivo di ridurre a breve termine le emissioni nocive» e quindi, «distraggono risorse dai progetti più efficaci per migliorare la nostra vita in un mondo che si riscalda». E quindi sta dicendo la stessa cosa degli “ambientalisti scettici”, dei “negazionisti climatici”, di quelli che, anche su pressione delle sue fondazioni, venivano emarginati se solo preferivano la strategia dell’adattamento dell’umanità al cambiamento climatico, rispetto a quella della mitigazione (riduzione delle emissioni di gas serra).

Nel suo ultimo saggio Gates ha ammesso che gli investimenti passati nella lotta al cambiamento climatico sono stati mal riposti e che troppi soldi sono stati investiti in iniziative costose e discutibili. Anche un ragionamento di questo tipo, se non fosse provenuto da Gates, ieri, sarebbe stato trattato come una bestemmia dal “consenso scientifico” e dal mondo dei media.

Ma soprattutto, il fondatore di Breakthrough Energy, ritiene che le emergenze siano ben altre. Parlando dei tagli alla cooperazione e allo sviluppo dell’amministrazione Trump, il miliardario afferma che essi possano causare il peggioramento di problemi più urgenti, infliggendo “danni globali potenzialmente duraturi” alla lotta contro la carestia e le malattie prevenibili. «Il cambiamento climatico, le malattie e la povertà sono tutti problemi gravi», ha scritto Gates. «Dovremmo affrontarli in proporzione alla sofferenza che causano». Della serie: prima sfamiamoci, poi permettiamoci il “lusso” di pensare anche al cambiamento climatico.

Le conclusioni che ne trae Gates? «Questa è un’opportunità (i tagli di Trump, ndr) per tornare a concentrarsi su un parametro che dovrebbe contare ancora di più delle emissioni e del cambiamento di temperatura: migliorare la vita. Il nostro obiettivo principale dovrebbe essere quello di prevenire la sofferenza, in particolare per coloro che vivono nelle condizioni più difficili nei Paesi più poveri del mondo».

Non pochi scienziati hanno accolto lo scritto dell’imprenditore con un misto di stupore e indignazione. «Non esiste minaccia più grande per i paesi in via di sviluppo della crisi climatica», ha affermato Michael Mann, direttore del Penn Center for Science, Sustainability & the Media. Altri scienziati come Jennifer Francis del Woodwell Climate Research Center, hanno sottolineato che gran parte della sofferenza nei paesi poveri sia già amplificata dagli effetti del clima, esortando a non separare artificialmente i due fronti. Michael Oppenheimer, docente di Geoscienze della Princeton University ritiene che Gates stia sostenendo una “falsa dicotomia” che «era finora tipica degli scettici del cambiamento climatico (…) Le sue parole potrebbero essere sfruttate da coloro che vogliono niente meno che la distruzione di tutti gli sforzi finora compiuti per affrontare il cambiamento climatico».

Le parole hanno un senso e il mutamento radicale degli argomenti di Bill Gates sul cambiamento climatico sono già una notizia. Difficile pensare che si tratti solo di un atto di obbedienza al presidente Trump, che punta di nuovo sulle energie più stabili e rodate (combustibili fossili e nucleare). Gates guadagnerà dalle tecnologie di adattamento invece che da quelle della mitigazione? Probabilmente sì. Ma è proprio questo l’importante: il filantropo ha capito che gli investimenti stanno andando altrove, che stanno cambiando le priorità. Perché dell’ecologismo radicale, millenarista e apocalittico non ne può più nessuno. L’elezione di Donald Trump, che ha indotto i grandi imprenditori americani (basti pensare a Zuckerberg e Besos) a compiere una svolta nelle loro politiche, è un sintomo enorme di questa insofferenza. È decisamente cambiato clima sul cambiamento climatico.






mercoledì 29 ottobre 2025

Lievito di pace e speranza? No, di confusione. E la Chiesa italiana fa un altro passo verso il suicidio







by Aldo Maria Valli, 29 ott 2025

La propensione al suicidio dimostrata dai gerarchi della chiesa sinodale avrebbe dell’incredibile se non si mostrasse apertamente, davanti ai nostri occhi.

Guardiamo alla Germania. Ormai è chiaro che, attraverso il processo del cosiddetto cammino sinodale, la Chiesa cattolica tedesca, dissanguata dalla perdita di fedeli, si trova in piena apostasia e sull’orlo dello scisma. Non uno scisma dalla chiesa vaticansecondista, s’intende, ma dall’unica Chiesa fondata da Cristo.

E ora lo spirito della sinodalità sta cercando di distruggere anche la Chiesa italiana.

Il 25 ottobre 2025, la terza Assemblea sinodale della Chiesa cattolica in Italia si è conclusa con l’approvazione a larga maggioranza di un documento finale, “Lievito di pace e di speranza”, il cui titolo più appropriato sarebbe “Lievito di confusione”.

Presentato come pietra miliare nel “cammino di inclusione” della Chiesa, il testo è stato salutato con entusiasmo dal cardinale Matteo Zuppi (lo stesso Zuppi che ha partecipato alla farsesca messa tridentina in San Pietro, un bell’esempio di come questi gerarchi tengano a bada i tradizionalisti gettando loro qualche briciola liturgica e chiedendo in cambio l’accettazione della sinodalità): si tratterebbe di una ventata d’aria nuova, è stato detto, perché pone la “pari dignità in Cristo” al centro della visione ecclesiale.

Ma per i fedeli che, come direbbe Prezzolini, non se la bevono, le conclusioni dell’assemblea sinodale italiana non costituiscono un rinnovamento della vita della Chiesa. In realtà si tratta di un altro passo lungo il sentiero, ormai ben tracciato, dell’ambiguità, dell’orizzontalità e dell’adattamento allo spirito dei tempi: ovvero del suicidio.

L’espressione “pari dignità in Cristo” è il solito fumo negli occhi. Certamente è vero che tutti i battezzati condividono una dignità soprannaturale in quanto membri del Corpo Mistico di Cristo. Ma il documento va oltre – troppo oltre – suggerendo che questa uguaglianza richiede una riconfigurazione dei ruoli e delle responsabilità all’interno della Chiesa.

Il testo insiste sul fatto che le donne non devono più essere “destinatarie” ma “protagoniste” nella vita della Chiesa, invocando una “corresponsabilità” nel processo decisionale e nel ministero pastorale. Qui la tradizionale distinzione cattolica tra collaborazione e governo – tra la partecipazione dei laici e la sacra autorità dei sacerdoti ordinati – viene sottilmente, ma significativamente, offuscata.

Questo linguaggio è in contrasto con l’insegnamento di papa Pio XII, che nella “Mystici Corporis Christi” afferma che la Chiesa è una società gerarchica, divinamente costituita e non soggetta all’egualitarismo umano. L’ordine della grazia non abolisce la distinzione, la santifica.

Parlando di corresponsabilità come di un “diritto battesimale”, il Sinodo mina la natura sacramentale del sacerdozio. La distinzione tra il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale degli ordinati – finora preservata nella dottrina cattolica – si perde nella nebbia della retorica partecipativa.

“Ordinatio sacerdotalis” (1994) ha ribadito una volta per tutte che la Chiesa non ha alcuna autorità per conferire l’ordinazione sacerdotale alle donne. Qualsiasi insinuazione secondo cui le donne possano condividere equamente il governo o il ministero rischia di contraddire questo insegnamento definitivo. Da una prospettiva cattolica, “Lievito di pace e di speranza” prosegue quindi la tendenza postconciliare a confondere complementarietà con uguaglianza, sostituendo la bellezza dell’ordine divino con la monotona uniformità dell’egualitarismo funzionale.

Il passaggio più inquietante del documento esorta le Chiese locali a “promuovere il riconoscimento e l’accompagnamento pastorale delle persone omosessuali e transgender”, e anche qui c’è da distinguere. Sebbene la compassione verso ogni peccatore sia essenziale alla carità cristiana, la Chiesa non può affermare un’identità radicata in quello che per la reta dottrina è disordine. Parlare di “persone LGBTQ+” come portatrici di “doni” significa adottare un’antropologia secolare che nega la realtà della creazione divina di uomo e donna.

La Chiesa accoglie le persone con attrazione per lo stesso sesso o con confusione di genere, ma con l’obiettivo della conversione, non della rivendicazione. Come insegna il Catechismo, gli atti omosessuali sono “intrinsecamente disordinati” e “contrari alla legge naturale”. La cura pastorale deve condurre le anime al pentimento e alla santificazione, non alla falsa pace dell’accettazione di sé senza la grazia.

“Lievito di pace e di speranza” chiede l’adozione di un “linguaggio di ascolto e tenerezza”, aspirazione condivisibile se ordinata alla verità. Ma la tenerezza separata dalla conversione è sentimentalismo, non misericordia. Cristo ha accolto i peccatori, ma sempre con le parole: “Va’ e non peccare più”.

Sostituendo l’appello al pentimento con il vocabolario dell’“inclusione”, il Sinodo fa propria la tendenza condannata da san Pio X nella “Pascendi Dominici gregis”: lo sforzo modernista di rimodellare la dottrina attorno all’esperienza soggettiva piuttosto che alla rivelazione oggettiva.

Il ripetuto richiamo del documento al “camminare insieme” e alla “corresponsabilità” è talmente insistente da provocare nausea, ma soprattutto rivela un’ecclesiologia che pende verso la categoria politica della democratizzazione. L’autorità è presentata come consultiva piuttosto che gerarchica, il discernimento come collettivo piuttosto che magisteriale.

Ma la Chiesa cattolica non è un parlamento di opinioni; è un organismo soprannaturale con Cristo come Capo. Il sensus fidelium non crea la verità: la riceve. Quando la sinodalità diventa il mezzo attraverso cui la dottrina viene “sviluppata”, la Chiesa rischia di scambiare la voce della Rivelazione con il meccanismo del consenso.

Il documento incoraggia anche il sostegno a “giornate” civiche contro “omofobia” e “transfobia”, e ancora una volta siamo di fronte a distorsione e ambiguità. Certo, dobbiamo opporci a violenza e ingiustizia, ma presentare la questione in questi termini introduce nella Chiesa un bagaglio ideologico estraneo alla teologia morale cattolica. La Chiesa condanna il peccato e invoca la virtù, non si riconosce negli slogan dell’attivismo laico. Adottando il vocabolario del mondo, la Chiesa ne adotta l’antropologia e perde sé stessa.

“Lievito di pace e di speranza” si presenta come un soffio di rinnovamento, ma in fondo non è che l’ultima versione della narrazione postconciliare. Sostiene che la Chiesa per sopravvivere deve “ascoltare”, “accogliere” e “includere”. Ma una Chiesa che non chiama più le anime al pentimento non è più missionaria. Una Chiesa che dimentica la suddivisione gerarchica non è più cattolica. Una Chiesa che cerca la pace senza la verità non è più la Sposa di Cristo.

Il vero lievito di pace e speranza non è l’inclusività, ma la santità. Non abbiamo bisogno di una Chiesa che rispecchi la fragilità del mondo, ma di una Chiesa che offra la luce guaritrice di Cristo: chiara, senza compromessi ed eterna. “Non conformatevi a questo mondo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente” (Romani 12:2).

Sembra ormai probabile che l’Italia, sulle orme della Germania, sarà la prossima tessera del domino. Ovviamente con l’incoraggiamento da parte di Prevost o della maggior parte dei vescovi. E il tutto sembrerà così normale che i cattolici addormentati, cullati dalla ninna nanna sinodale, non se ne accorgeranno nemmeno.





Questa sinodalità farà morire la Dottrina sociale



Il punto principale della guerra della nuova sinodalità alla Dottrina sociale della Chiesa sarà il principio dell’accoglienza e del dialogo inteso come testimonianza di Cristo e sostanza della fede cristiana.

Chiesa

Editoriali 


Stefano Fontana, 29-10-2025

Vedremo se la sinodalità così come è stata impostata da Francesco e sta continuando, almeno per il momento, con Leone, prenderà pienamente piede nella vita della Chiesa, o se troveranno adeguato modo di esprimersi delle opposizioni significative per rallentare o bloccare il processo. Fin da ora però una cosa possiamo dire: se prevarrà l’attuale linea non ci sarà più posto per la Dottrina sociale della Chiesa come l’abbiamo conosciuta almeno fino a Benedetto XVI.

Nella “vecchia” Dottrina sociale la prassi non assumeva il primo posto. Certamente, l’impegno di qualche vescovo e di laici nella società moderna per fronteggiare la nuova “questione sociale” si era verificato già prima della pubblicazione della Rerum novarum, ma non si può dire che ne sia stata la causa. L’iniziativa della prima enciclica sociale è stata di papa Leone XIII, che ha agito consapevole di farlo come Papa, la pienezza dei suoi contenuti sono quelli della dottrina e della tradizione. Certamente, per tornare alla prassi, essa non solo ha preceduto ma poi fatto seguito al magistero sociale, ora in modo coerente ora meno, ma anche in questi casi non ne è stata all’origine, ma si intendeva come applicativa.

Nella nuova sinodalità, invece, si parte dall’accoglienza dell’effettualità, vale a dire di ciò che capita nella società contemporanea, e lo si accoglie con lo scopo di integrarlo perché tutti farebbero parte della Chiesa già così come sono, ossia nella pienezza del loro contesto esistenziale. La Dottrina sociale precedente alla sterzata di Francesco era rimasta fedele all’impegno di offrire “principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione”: la dottrina precedeva e fondava la prassi.

Ora accade il contrario: se ci sono delle prassi in atto nella vita sociale non vanno giudicate (i vecchi “criteri di giudizio” vengono considerati appunto vecchi), né vanno illuminate sulla base di “principi di riflessione” considerati a priori astratti, dottrinali e quindi ideologici, ma vanno accolte, accompagnate e integrate. Come si vede il percorso è opposto al precedente. Già ai tempi di Giovanni XXIII e del suo “vedere, giudicare, agire” qualcuno aveva storto il naso sul primo punto: vedere sì, ma alla luce della fede e della retta ragione, non con gli occhi della sociologia. Quel vedere, si diceva, non sia un constatare ciò che si dà di fatto. Il giudicare alla luce dei principi doveva guidare lo stesso vedere. Qualcosa da precisare c’era quindi anche allora, ma adesso è tutto l’impianto del percorso e non solo qualche suo aspetto che va ri-precisato.

La nuova sinodalità richiede l’assemblearismo, ossia la partecipazione democratica di tutti alle fasi di consultazione, dialogo e decisione. Richiede, in altre parole, un’apertura a tutti i portatori di interessi, intesa quest’ultima espressione non nel senso di interessi pratici ma di visioni di fede, di morale e di pastorale.

L’assemblearismo per definizione non deve assumere criteri previ di selezione né delle persone né delle idee. Esso deve essere aperto, plurale, gelatinoso se non liquido, accogliente e capace di favorire un “dibattito pubblico” alla Habermas. Le verità già stabilite dal magistero e le dottrine già fissate sono degli impedimenti a questa apertura e ad una vera e propria ermeneutica dal basso, dal popolo, dalle periferie. Uno dice: sì ma poi saranno sempre i vescovi a decidere e non le assemblee. Non sarà vero, purtroppo, perché anche i vescovi ragioneranno in chiave di assemblearismo e non sapranno più dire di no a niente. Voglio vedere il vescovo che si opporrà ad una decisione assembleare delle periferie della sua diocesi.

Il punto principale della guerra della nuova sinodalità alla Dottrina sociale della Chiesa sarà il principio dell’accoglienza e del dialogo inteso come testimonianza di Cristo e sostanza della fede cristiana. L’annuncio verrà identificato con l’apertura, il Kerigma coinciderà con l’uscita dalle proprie mura, non si riterrà più che la Chiesa abbia una luce propria, unica e insostituibile da dare alla società e alla politica, si penserà invece che essa debba avere uno sguardo amorevolmente inebetito verso tutti e tutto, perché “Cristo non è venuto a condannare ma a salvare”, come si sente dire spesso.

A quel punto di “coerenza” del cattolico in politica non si potrà più parlare. Se non viene richiesta la coerenza all’ingresso men che meno può esserci coerenza in uscita. Se il dibattito nella Chiesa deve essere plurale e senza steccati, se si è consolidata la prassi del voto da parte di assemblee apparentemente spontanee ma in realtà pilotate come si fa ai congressi dei partiti, se la mozione di maggioranza finirà per prevalere comunque perché così era stato già deciso prima ancora di partire, la Chiesa diventerà ancora di più il luogo delle opinioni e ognuno andrà per la propria strada, convinto di essere stato inviato dallo Spirito.






martedì 28 ottobre 2025

Da vescovo, cosa penso del Documento di sintesi del Sinodo



Il punto di vista chiaro e deciso del vescovo mons. Antonio Suetta sul Documento finale votato dalla CEI. Testo criticato per i contenuti ambigui e il linguaggio utilizzato.


Ultimissime, 27 Ott 2025



Torniamo sul controverso Documento del Sinodo di cui abbiamo parlato ieri.

Lo facciamo pubblicando integralmente la dichiarazione che S.E. mons. Antonio Suetta, vescovo di Ventimiglia–San Remo, ha gentilmente inviato a UCCR.

***



di S.E. mons. Antonio Suetta*

Il documento di sintesi del Cammino Sinodale, “Lievito di Pace e di Speranza” è stato approvato dalla terza Assemblea Sinodale delle Chiese in Italia.

Pur tenendo conto dello scalpore che ha suscitato per alcune proposizioni approvate (soprattutto circa il riconoscimento e l’accoglienza di persone omoaffettive e transgender e il supporto che sarebbe da concedere a giornate e iniziative contro l”omotrasfobia), va collocato nel suo effettivo ed oggettivo contesto.


Il Documento non è pronunciamento della CEI

Si tratta di una consultazione di fedeli (e non) promossa dalla Conferenza Episcopale Italiana con uno stile sinodale.

Non è formalmente un Sinodo, né un pronunciamento della stessa CEI, nonostante nelle Assemblee che si sono succedute fossero presenti anche numerosi Vescovi.

Va anche notato che, nonostante l’intento di aprire al maggior numero possibile di persone coinvolte nel cammino sinodale, le statistiche restituiscono che, a tutti i livelli del percorso, i partecipanti rappresentano comunque una porzione minoritaria rispetto ai fedeli che sono in Italia.

Il testo approvato che ne viene fuori registra purtroppo tendenze e visioni di Chiesa e di dottrina, che, a mio parere, sono tutte da verificare e rettificare alla luce della Dottrina Cattolica, contenuta, ad esempio nel Catechismo della Chiesa Cattolica e nel Magistero costante e ininterrotto sulle tematiche oggi dibattute.

La prossima Assemblea della Conferenza Episcopale Italiana riceverà questo Documento e ne farà oggetto di riflessione, dibattito ed eventualmente di orientamenti pastorali.

Anche su questo punto è bene precisare che non è competenza delle Conferenze Episcopali intervenire sulla Dottrina se non per promuoverne sviluppi e applicazioni pastorali nel segno della fedeltà al Magistero e della comunione della fede cattolica.


Linguaggio e contenuti lontani da morale cattolica

Nel merito della questione più specifica ritengo che, a fronte della giusta esigenza di sostenere l’accompagnamento spirituale e pastorale delle persone omosessuali e delle buone intenzioni espresse in questo documento, la terminologia adottata e le soluzioni proposte siano lontane dalla giusta prospettiva ecclesiale.

Sono convinto che in un documento ecclesiastico non si debbano introdurre termini tipicamente e ideologicamente connotati come “riconoscimento” (nell’ambito specifico delle rivendicazioni dei movimenti omosessualisti e cosiddetti arcobaleno) e transgender, vocabolo di assoluto marchio ideologico per quanto riguarda la teoria del gender, che vorrebbe promuovere diritti delle persone omosessuali in ordine al Matrimonio, alla famiglia, alla procreazione e all’adozione dei figli.

Faccio notare che, dal punto di vista della morale cattolica, non si può accettare questa parola perché la dottrina cattolica non riconosce quanto la ideologia gender sostiene, cioè la possibilità di cambiamento di genere in dipendenza di un’auto percezione o di volontà a prescindere dal dato biologico della nascita. Per casi patologici conclamati si tratta piuttosto di persone disforiche.


Si accolgono le persone, non le ideologie


Affermare poi che le persone omosessuali abbiano un diritto all’intimità sessuale contraddice con quanto insegnato perennemente dal Magistero e dal Catechismo della Chiesa Cattolica.

Va da sé che tale insegnamento, proposto a tutti, vincola i fedeli, e che dunque è legittimo dialogare con ambiti della società civile per quanto concerne l’impegno politico del cristiano ed il necessario dialogo e confronto culturale, ma ciò va fatto sempre senza rinunciare o sminuire il valore della morale cattolica.

A mio avviso la debolezza e la negatività di tali passaggi nel Documento stanno nel non aver debitamente e sufficientemente distinto l’accoglienza personale pastorale e l’accompagnamento spirituale delle singole persone, anche omosessuali naturalmente, e la doverosa distanza con tutte le forme organizzate di promozione della ideologia omosessualista e gender, come efficacemente Papa Francesco evidenziava: si accolgono le persone e non le organizzazioni o le ideologie.

Mi sembra utile, per concludere, citare una chiara espressione di Papa Francesco, pronunciata il 21 marzo 2025 durante un incontro con i giovani sul lungomare Caracciolo di Napoli: “La teoria del gender è uno sbaglio della mente umana che crea tanta confusione”.







In nome dei poveri Cupich vagheggia una povera liturgia



Per l'arcivescovo di Chicago Dilexi te getta una luce "equa e solidale" sulla riforma liturgica. Nessun riscontro nel testo papale né in quelli conciliari, ciò che conta sono i desiderata del cardinale in cui il solo ridotto in miseria è il culto divino.

Stravaganze

Editoriali


Luisella Scrosati, 28-10-2025

Nessuna pretesa di finezza di contenuti e di attenzione alle sfumature, ma almeno la decenza di non attribuire ad altri quanto essi non hanno mai detto, solo per sdoganare il proprio pensiero. È una riflessione “un tanto al chilo” quella che il cardinale Blase Cupich ha di recente consegnato a Vatican News, a commento dell’esortazione apostolica Dilexi te.

Stando all’arcivescovo di Chicago, l’esortazione di papa Leone XIV, offrirebbe una nuova luce sulla riforma liturgica voluta dai padri conciliari, ossia una liturgia che avrebbe dovuto presentare «al mondo una Chiesa non definita dagli orpelli del mondo, bensì caratterizzata da sobrietà e semplicità, consentendole di parlare alla gente di questo tempo in un modo che assomigliasse molto di più al Signore e permettendole di dedicarsi in modo nuovo alla missione di proclamare la buona novella ai poveri».
E così la riforma, traendo beneficio dalla «ricerca accademica sulle risorse liturgiche», si sarebbe sbarazzata degli «adattamenti, introdotti nel tempo, che incorporavano elementi provenienti dalle corti imperiali e reali», permettendo così alla Chiesa di poter parlare da povera ai poveri. «Con il recupero dell’antica sobrietà del rito romano, l’Eucaristia torna di nuovo a essere il luogo di pace autentica e di solidarietà con i poveri in un mondo spezzato», conclude Sua Eminenza.

Tralasciando la «ricerca accademica», che non è esente dall’aver inanellato una serie di sfondoni storici sulla sobrietà della liturgia delle origini (si vedano i supplementi della Domenica, che stiamo dedicando all’argomento), la narrazione di Cupich potrebbe forse apparire affascinante a qualcuno, ma c’è un piccolo problema di fondo, ossia che il cardinale ha un tantino esagerato nell’attribuire i propri desiderata ai padri conciliari. Non che già sessant’anni fa mancassero i sostenitori di una povera liturgia per i poveri poveri (non è una ripetizione), ma di certo non è quello che è stato approvato dal Concilio nella costituzione sulla liturgia. La quale dei poveri non parla proprio, e nemmeno di sobrietà, ma di «nobile semplicità», che permetta ai segni di essere trasparenti e più facilmente comprensibili ai fedeli, così che «non abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni» (SC 34). Spiegazioni che, invece, farciscono le celebrazioni Novus Ordo, frastornando le orecchie dei fedeli (loro sì, poveri!) con una pletora di parole, commenti, didascalie e riflessioni. Usque ad nauseam.

Il Concilio, poi, per la cronaca, ha anche indicato alcuni confini entro i quali la riforma si sarebbe dovuta mantenere, come la conservazione della lingua latina, che non doveva essere sostituita dalle lingue nazionali, ma affiancata in alcune parti dei vari riti (cf. SC 36); oppure come l’affermazione del canto gregoriano come canto proprio del rito romano (cf. SC 116). Da nessuna parte questa «nobile semplicità» è stata intesa come lo stravolgimento, per esempio, del calendario liturgico, dal quale sono stati decurtati tempi liturgici molto antichi, come la Settuagesima o le Quattro Tempora; o come il rifacimento ex novo dei riti d’offertorio.

Curioso poi che, in nome della “sobrietà”, si sia toccata proprio l’unicità del Canone romano, per aggiungere dapprima altre tre Preghiere Eucaristiche, e poi altre sei (due “della Riconciliazione” e quattro “per varie necessità”), introducendo così una “varietà” sconosciuta anche a tutti gli altri riti liturgici. Nemmeno si comprende cosa abbiano a che fare con la sobrietà lo stravolgimento del complesso delle orazioni della Messa o l’introduzione di preghiere dei fedeli tanto numerose quante sono le menti che le concepiscono. Tutte modifiche che fanno sorgere il sospetto che la sobrietà sia stato un tutt’altro che nobile pretesto.

Ad ogni modo, la «nobile semplicità» dei riti c’entra con una liturgia solidale con i poveri come i cavoli a merenda. Che l’obiettivo del Concilio, nel promuovere la riforma liturgica, fosse quello di realizzare una non meglio precisata liturgia per i poveri, è quanto di più arbitrario si possa pensare. Ma si sa, è diventato sport ecclesiale quello di attribuire al Concilio qualsiasi stravaganza teologica e liturgica passi per la testa dei “periti”, le cui fantasie, purtroppo, sembrano non perire mai.

A ben vedere, nemmeno Dilexi te afferma quello che Cupich desidera. Il n. 84, citato dal cardinale, si riferisce all’emergere, all’epoca del Concilio, soprattutto nelle riflessioni dell’allora arcivescovo di Bologna, il cardinale Giacomo Lercaro, di «una nuova forma ecclesiale, più semplice e sobria, coinvolgente l’intero popolo di Dio e la sua figura storica. Una Chiesa più simile al suo Signore che alle potenze mondane...». Nell’esortazione apostolica, della liturgia, nemmeno si parla, se non di sfuggita al n. 40. Però scrivere che Leone XIV ha affermato che il Concilio voleva una liturgia sobria per una Chiesa dei poveri, a pochi giorni dal pellegrinaggio Summorum Pontificum, che aveva previsto il “rivale” cardinale Burke presiedere la Messa degli “orpelli del mondo” in San Pietro, e pure con l’autorizzazione del Papa, era più che doveroso; per mettere subito in chiaro che Burke è a prescindere contro il Papa e la Messa in rito antico è contro il Concilio.

Se poi qualcuno si ostina a ricercare quali siano i fondamenti di queste affermazioni, anziché credere sulla parola all’arcivescovo di Chicago, allora non ha ancora capito che siamo nel tempo dello spirito che dà vita, non della lettera che uccide. Questione di ermeneutica.





Vescovi italiani: ciechi ai segni dei tempi?





Pubblicato 28 ottobre 2025

Julio Loredo

Proprio mentre a San Pietro si riuniva un imponente pellegrinaggio tradizionalista, composto soprattutto da giovani, la CEI pubblicava un controverso documento nel quale ripropone la vecchia agenda ultraprogressista. Non capiscono che i venti della storia ormai soffiano dall’altra parte?

Questa ultima settimana a Roma è stata segnata da due eventi di segno contrario, anzi contraddittorio, che ben mostrano le divergenze all’interno della Chiesa nei nostri giorni. Uno è il documento approvato dall’assemblea sinodale della Chiesa italiana che promuove l’inclusione e l’accompagnamento delle persone LGBT, incentivando anche i fedeli ad appoggiare, anzi, a partecipare alle manifestazioni in favore dell’omosessualità. L’altro evento è il pellegrinaggio imponente del Summorum Pontificum -siamo sempre a Roma- nel corso del quale, per la prima volta in molti anni, si è celebrata la Santa Messa tradizionale sull’altare della cattedra nella Basilica di San Pietro.

Come interpretare questi segni così contrastanti? Dopo ben 4 anni di lavoro, quindi non si tratta di un passo inaspettato, come qualche giornale lo ha qualificato, bensì di una mossa perfettamente studiata e voluta. Dopo ben 4 anni di lavoro, l’assemblea sinodale delle Chiese italiane (questo è il nome ufficiale) ha pubblicato il documento Lievito di pace e di speranza.

“La Chiesa italiana apre al mondo gay,” titola il noto vaticanista Gianguido Vecchi sul Corriere della Sera. “La chiesa italiana finisce sul carro del Gay Pride,” scrive da parte sua Giorgio Gandola su La Verità. Ecco un brano del documento affinché possiate prendere il polso del suo tono: “le chiese locali, superando l’atteggiamento discriminatorio a volte diffuso negli ambienti ecclesiali [e] nella società, si impegnino a promuovere il riconoscimento e l’accompagnamento delle persone omoaffettive e transgender“.

Non contenti di promuovere il riconoscimento di pratiche morali chiaramente contrarie al diritto naturale e soprattutto contrarie al diritto divino, i vescovi italiani nel percorso sinodale invitano i fedeli a (virgolette): “sostenere le manifestazioni della società civile contro la discriminazione di genere, l’omofobia e la transfobia“. Queste sono parole interpretate come un sostegno ai cosiddetti pride omosessuali, anche se almeno un vescovo ha cercato di negarlo.

Il documento del cammino sinodale della Chiesa italiana propone anche altri punti molto controversi, come per esempio la questione del diaconato delle donne. Dice che va studiato meglio, come chi dice: “Beh, in un futuro magari non tanto lontano, studiandolo un po’ meglio, se ne potrà parlare e forse anche approvare”.

Il documento ha suscitato non poco stupore, prima di tutto perché non si fonda sulla dottrina morale della Chiesa, chiaramente spiegata per esempio nel Catechismo della Chiesa Cattolica e in numerosissimi documenti del magistero. Si fonda bensì sulle pericolose innovazioni e rivoluzionarie proposte dai settori ultra-progressisti, soprattutto negli ultimi anni del pontificato di Papa Francesco, e già allora fortemente contestate da cardinali, da vescovi, da teologi, da gruppi di fedeli, eccetera. Infatti, la parola “morale,” che dovrebbe essere l’asse attorno al quale gira un documento che tratta di morale, ebbene, la parola “morale” non risulta nemmeno una sola volta in tutto il documento. I vescovi italiani si pongono così, almeno in questo punto, all’estremità dei più radicali documenti dei vescovi tedeschi: il famigerato Synodaler Weg.

Stupisce anche la quasi unanimità della votazione: infatti il documento è stato approvato col 96,5% dei voti dei vescovi italiani.

Cosa pensare del documento del cammino sinodale proposto dai vescovi italiani? Senza entrare nell’analisi del documento propriamente detto, mi preme sollevare un punto… strategico, direi pastorale. Qualche mese fa commentavo che ci sono vescovi senza antenne, cioè vescovi che, ciechi ai segni dei tempi, portano avanti un’agenda sessantottina, indifferenti al fatto che ciò ha svuotato le chiese, ha allontanato i fedeli e ha gettato la Chiesa nella più grave crisi della sua storia.

Ecco che, lungi dal ravvedersi nemmeno davanti a questa evidente catastrofe, lungi dal ravvedersi, adesso raddoppiano la posta in gioco. Non hanno antenne o fingono di non averle. Non si rendono conto che il vento della storia ormai soffia da tutt’altra parte. Ne è prova l’imponente pellegrinaggio Summorum Pontificum a Roma questo ultimo weekend.

Si tratta dei fedeli che abbracciano la liturgia tradizionale, quindi il magistero della Chiesa, e prende il nome dal celebre motu proprio di Papa Benedetto XVI. Dopo affolatissime cerimonie in varie basiliche romane, il pellegrinaggio è culminato con la solenne Messa pontificale celebrata dal cardinale Raymond Burke nella Basilica di San Pietro, sull’altare della cattedra (quello dietro l’altare della Confessione). Non meno di 3000 fedeli riempivano tutta quell’area dell’immensa basilica vaticana.

L’evento è stato ritenuto così importante che è stato ripreso da importanti organi di stampa a livello mondiale: il New York TimesAssociated PressReuters, eccetera eccetera. Un primo punto che richiamava subito l’attenzione era la giovane età dei partecipanti.

Secondo un servizio dell’Associated Press firmato da Nicole Winfield, e cito: “Diverse migliaia di pellegrini, molte dei quali erano giovani famiglie con bambini e giovani donne che si coprivano il capo con veli di pizzo, riempivano fino all’inverosimile l’area della basilica“. Infatti, bastava dare uno sguardo alla folla per rendersi conto che predominavano i giovani.

“Ormai è un dato acquisito, e sottolineo scientificamente acquisito: il tradizionalismo è in grande misura un fenomeno della gioventù,” commenta Nico Spuntoni sulla Nuova Bussola Quotidiana: “La fotografia migliore della messa pontificale celebrata dal cardinale Raymond Burke a San Pietro l’ha fatta in una battuta di Damian Thompson, brillante firma del britannico Spectator. E lui cita, allora, Thompson: “Sai che un rito è antico quando i sacerdoti non sono antichi“. È molto spiritoso, è molto vero: “Sai che è un rito antico quando i sacerdoti non sono antichi”.

E continua Nico Spuntoni: in effetti ciò che colpiva di più nella cerimonia di sabato pomeriggio era la giovanissima età non solo dei sacerdoti, ma anche di tutti i fedeli presenti.

Ora dico io: come giudicare questo evento nella vita della Chiesa oggi, nella situazione della Chiesa nei nostri giorni? Secondo Nicole Winfield, nell’articolo sopra citato dell’Associated Press, e cito: “Per molti tradizionalisti quel momento è stato un segno tangibile che Papa Leone forse è più comprensivo nei confronti della loro situazione dopo essersi sentiti respinti da Francesco e dalle sue restrizioni del 2021“. Lei si riferisce chiaramente al motu proprio Traditionis Custodes che, nonostante il suo nome, vietava questo tipo di messa, invece adesso autorizzata da Papa Leone nel Vaticano.

L’autorizzazione di Papa Leone è avvenuta dopo che, nell’udienza privata concessa al cardinale Burke lo scorso 22 agosto, questi gli ha consegnato una lettera firmata da più di 70 realtà cattoliche che chiedevano di poter celebrare la messa antica a San Pietro.

Nella sua omelia, fra tante bellissime cose, il cardinale Burke ha evocato, e cito, “la Madonna di Fatima che desidera proteggerci dal male del comunismo ateo che allontana i cuori dal cuore di Gesù e li conduce alla ribellione contro Dio e contro l’ordine che egli ha posto nella creazione e scritto nel cuore di ogni uomo” (chiudo citazione).

Più di un vaticanista ha mostrato la simbolica coincidenza temporale di questi due eventi contrastanti: da una parte il pellegrinaggio tradizionalista a Roma, soprattutto a San Pietro; d’altra parte il documento pro-LGBT del cammino sinodale dei vescovi italiani. Secondo Andrea Zambrano, sulla Nuova Bussola Quotidiana, cito: “Questo non svela due chiese, ma semmai due frutti nella Chiesa da due alberi diversi, con una differenza fondamentale“. Continua Zambrano: “il documento, per quanto presentato pomposamente come frutto della riflessione del cammino delle istanze della Chiesa italiana, non è rappresentativo di nulla salvo di una piccola, rumorosa ridotta di addetti ai lavori che non possono pretendere di parlare a nome dei cattolici italiani“. Fin qui Andrea Zambrano.

Quindi, da una parte, minoranze chiuse nelle stanze del potere ecclesiastico, cieche e sorde ai segni dei tempi; dall’altra parte, il dinamismo di un tradizionalismo portato avanti da schiere di giovani piene di speranza e soprattutto di progetti per il futuro. Il “Quiet Revival” (la rinascita silenziosa) di cui parlano ormai tutti gli analisti, e che abbiamo trattato più di una volta in questo canale, ha dato mostra di un grande potenziale proprio nel cuore della cristianità.

Si chiuderanno i vescovi in un bieco progressismo ormai superato, o si apriranno a queste forze di vero rinnovamento della Chiesa? Quale atteggiamento assumeranno le alte autorità della Chiesa di fronte a queste divergenze che si vedono? È la grande domanda che si pongono gli analisti in questi giorni.











lunedì 27 ottobre 2025

La povertà ha soluzione economica, morale o religiosa?







Una questione falsata dalla demagogia



Di Guido Vignelli, 27 ott 2025

Negli ultimi tempi, molte analisi e proposte – anche provenienti dal mondo cattolico – avanzate per risolvere il problema della indigenza sono risultate talmente demagogiche da arrivare a fraintendere e travisare il concetto stesso di povertà.

Ad esempio, oggi spesso si confonde la povertà materiale con quella spirituale, quella di possesso con quella di uso, quella colpevole con quella meritevole, quella imposta con quella volontaria, quella stoica con quella cristiana, quella di consiglio con quella di precetto.

Inoltre, da una parte si pretende che la povertà materiale sia il massimo male da eliminare e si condanna la ricchezza come sua responsabile; dall’altra parte s’identifica il povero col vero cristiano, si esalta la classe povera come il nuovo “popolo eletto”, si riduce la carità cristiana alla filantropia e alla lotta contro l’indigenza.

Per di più, da una parte, alcuni ricchi “filantropi” e potenti “movimenti popolari” elogiano la povertà ma, invece che praticarla, pretendono d’imporla alla società in chiave ecologista; dall’altra parte, alcuni poveri lamentano miseria ma, invece che sanarla col lavoro e col risparmio, pretendono di riempirla con beni altrui sequestrati in chiave comunista.

Secondo alcuni, questa filantropia umanitaria presuppone un nuovo fariseismo che pretende di rendersi “giusti e puri” non professando e vivendo l’ortodossia ma ostentando una ortoprassi moralistica e demagogica che riduce la carità all’ “impegno sociale” in favore di poveri, emarginati e migranti.

Ci pare quindi necessario ribadire alcune basilari verità, tanto semplici quanto dimenticate, che ci permettono di dissipare alcuni equivoci e d’impostare una possibile soluzione cristiana del problema della povertà. Per brevità, ci asterremo dal citare le autorevoli fonti religiose, morali ed economiche implicite nella nostra esposizione.

La povertà materiale e quella spirituale

La dottrina cristiana insegna che la vera povertà da commiserare e sanare non è tanto quella materiale, consistente nella mancanza di beni e di salute, quanto quella spirituale, consistente nella ignoranza della verità religiosa e nella mancanza della virtù morale; gli altri tipi di povertà (culturale, sociale, economica) ne sono inevitabile conseguenza. Questa povertà spirituale, se volontaria, è colpevole perché causata dal rifiuto di quella Grazia divina che purifica l’uomo dall’errore e dal vizio e lo rende capace di riconoscere la verità e di praticare la virtù, conformandosi ai Comandamenti divini e agli ammonimenti evangelici.

Il peccato è sempre individuale e la sua responsabilità è sempre personale, non collettiva. Anche i cosiddetti “peccati sociali” derivano da colpe commesse da concreti individui, non da astratte masse o classi sociali o istituzioni politiche. Le “strutture di peccato” – ossia quelle che favoriscono varie forme di errore, vizio, ingiustizia e povertà – sono prodotte dai peccati commessi da individui, famiglie, stirpi, parlamenti e governi che corrompono la società politica e talvolta anche quella religiosa.

Riempire la pancia di cibo o la tasca di soldi o la casa di oggetti non equivale ad arricchire o risanare o santificare il povero; anzi, il ricevere troppi e inadatti beni materiali rischia d’impoverirgli l’anima rendendolo avido, sensuale, prepotente, superbo e ingrato, facilitandogli così non la salvezza ma la dannazione.

Invece, le umane vicende dimostrano che molte persone inclini all’errore e al vizio è meglio che diventino o rimangano materialmente povere, perché questa indigenza non solo le preserva da tentazioni e pericoli morali ma anche le arricchisce spiritualmente, permettendo a loro di aprirsi alla verità, praticare le virtù e meritare la salvezza.

La povertà evangelica e quella cristiana

Il Vangelo ci racconta che Gesù Cristo almeno fino a quando lavorò come carpentiere nel negozio di san Giuseppe, non visse nella povertà. Quando poi iniziò a viaggiare per predicare, Egli visse austeramente delle offerte e delle ospitalità ricevute dai primi seguaci; tuttavia, ebbe cura di provvedere a Sé stesso e ai suoi Apostoli risparmiando e raccogliendo i beni e denari ricevuti nella “bisaccia” della comunità.

Il nostro divin Redentore s’incarnò per salvarci non dalla povertà materiale e terrena ma da quella spirituale ed eterna, che deriva da quell’unico male radicale e assoluto che è il Peccato Originale con i conseguenti peccati attuali commessi dagli uomini nel corso della loro storia.

Il Vangelo mira a riconciliare gli uomini innanzitutto con Dio e poi tra di loro. Pertanto, esso non oppone faziosamente la santità dei poveri e deboli alla malvagità dei ricchi e potenti, ma anzi esorta tutti a soccorrersi vicendevolmente, affinché il possesso e l’uso dei beni terreni sia regolato secondo giustizia e carità, subordinato al bene comune della società e finalizzato alla santificazione dell’umanità.

Di conseguenza, Gesù Cristo ha fondato la Chiesa cattolica non per risanare le misere condizioni degl’indigenti, ma per santificare l’umanità liberandola dalla schiavitù del peccato con le sue drammatiche conseguenze spirituali, morali, sociali ed economiche. Questo risultato può essere ottenuto solo insegnando la verità, esortando alle virtù e togliendo quegli ostacoli (l’errore, il vizio e l’ingiustizia) che impediscono l’azione della Grazia salvifica.

Fin dalle sue origini, la Chiesa s’impegnò a soccorrere innanzitutto la povertà spirituale, nella convinzione che solo così facendo poteva confortare e ridurre quella materiale. Distinguendo la povertà vera da quella falsa, i diaconi della Chiesa soccorrevano i poveri reali ma respingevano quei fannulloni parassiti che pretendevano di usufruire dei beni ecclesiastici rifiutandosi di praticare quelle virtù che li avrebbero sottratti alla miseria.

Inoltre, bisogna bene intendere la differenza tra la povertà materiale stoicamente accettata e sopportata per fini spirituali (culturali o morali o politici), e quella cristianamente subìta o scelta per fini soprannaturali e vissuta con fedeltà, fiducia, pazienza e rassegnazione.

La pratica della povertà cristiana consiste nel preferire i beni spirituali a quelli materiali e nel porre questi al servizio di quelli, usando con distacco e con temperanza le ricchezze possedute, fino al punto di essere pronti a rinunciarvi del tutto pur di ottenere o conservare o accrescere i beni celesti ed eterni.

Le Sacre Scrittute insegnano che, se un ricco usa i propri beni materiali come mero strumento per vivere, fare il bene della società e soccorrere le necessità della Chiesa, egli è un anawìm, ossia un “povero in spirito” che merita la vita eterna. Invece, se un povero invidia e brama le ricchezze altrui per trarne piacere o potere o fama, egli è spiritualmente avido e rischia la morte eterna.

Il voto religioso di povertà mette in pratica quel consiglio evangelico che esorta il cristiano a rinunciare del tutto ai beni materiali passati, presenti e futuri, con le sicurezze e gli onori ch’esse procurano, al fine di dedicarsi alla santificazione propria e del prossimo con la massima libertà e fiducia nella divina Provvidenza. Si noti che questo voto è un obbligo religioso ma non sociale o morale, e che è meno importante degli altri due voti, ossia quelli della castità e dell’obbedienza.

Perché e come soccorrere i poveri

Tuttavia, sia il Vangelo che la conseguente dottrina sociale della Chiesa hanno caldamente raccomandato ai fedeli di essere fattivamente caritatevoli non solo con i peccatori e gl’ignoranti ma anche con gl’indigenti, siano essi poveri o malati, sanando le piaghe della miseria anche a costo di grandi sforzi e gravi sacrifici.

Si badi però che questa carità è mossa da ragioni e tende a fini non tanto materiali e naturali quanto spirituali e soprannaturali. Infatti, la mancanza di beni necessari per vivere dignitosamente, ma anche solo la loro insicurezza e precarietà, spesso causano nei poveri gravi conseguenze non solo materiali ma anche e soprattutto spirituali che ridondano a danno non solo degl’individui ma anche della società.

Infatti, quando qualcuno è oppresso da una situazione di grave povertà o malattia, i casi possono essere due. Se è confortato da retta fede e sostenuto da solida virtù, egli non perde la fiducia, riesce a superare la dura prova e si santifica più facilmente dei ricchi. Se invece manca di questi soccorsi spirituali, allora, se ha carattere mite, egli si avvilisce ed è tentato dal fatalismo e dalla disperazione; se ha carattere collerico, si abbandona all’invidia e all’odio e inclina alla ribellione e alla violenza.

Tali situazioni di miseria malvissuta spingono la povertà materiale a scivolare in quella spirituale, causando gravi danni alla vita civile. Infatti, da una parte, l’abbandonarsi al fatalismo produce situazioni di stagnazione economica e di degrado sociale che impedisce il progresso civile; dall’altra, il cedere all’odio suscita non solo rivolte sociali ma anche rivoluzioni politiche.

Se poi la bramosia, l’invidia e l’odio, che avviliscono poveri e deboli, si combinano con l’avarizia, la superbia e la protervia che induriscono ricchi e potenti, allora si rischia la rottura di quella solidarietà tra famiglie, comunità e classi che costituisce la concordia e la pace di un popolo, avviando così un conflitto sociale che può diventare guerra civile.

Questa rottura mette in grave pericolo non solo il benessere e il progresso economici, ma anche la sopravvivenza stessa della società. La storia dimostra che gli agenti del liberalismo e del socialismo hanno saputo sfruttare cinicamente il malcontento sociale e la rivalità tra le classi al fine di dominare un popolo diviso da bramosia, invidia e odio.

Pertanto, è dovere non solo dei singoli ma anche delle comunità e soprattutto delle autorità civili e religiose l’impedire che situazioni economiche o sociali troppo ingiuste e scandalose alimentino nei poveri ed emarginati sentimenti di disperazione o di vendetta che li spingono alla rapina, alla rivolta e alla rivoluzione.

Vale la pena di ricordare che i pensatori cattolici hanno spesso ammonito i potentati economici e politici a fare in modo che il popolo ottenga pacificamente quel giusto e prudente accesso a beni, diritti e poteri che lo distoglie dall’impadronirsene violentemente, perdendone così i benefici e dissolvendo la solidarietà sociale.

L’esempio della “torta condivisa”

La proposta cristiana per risolvere il problema della povertà deve evitare ogni forma di demagogia, la più pericolosa delle quali è quella clericale; prostituendo la carità cristiana, essa elabora argomentazioni sofistiche, sentimenti viscerali e passioni incendiarie facilmente strumentalizzabili dalla sovversione.

Basti considerare quel filone pauperista che, partendo dal liberalismo di Lamennais, attraverso il modernismo di Murri e il democratismo di Dossetti, è giunto alla “teologia della liberazione”, oggi purtroppo divulgata da recenti documenti pontifici come l’enciclica Fratelli tutti e l’esortazione apostolica Dilexi te.

Il problema della povertà non può essere risolto esaltando una “solidarietà” che compromette il bene comune e la pace della società, né riducendo il diritto di proprietà privata alla sua mera “funzione sociale”, né imponendo il sequestro di beni da distribuire secondo un criterio egualitario (ossia senza retto criterio). Tutto ciò finisce col favorire fazioni invidiose, avide e ribelli a danno della gente umile, modesta, paziente e laboriosa.

Facciamo un esempio molto comune. Spesso i demagoghi dicono che il problema economico è facile da risolvere: basta che un potere superiore sequestri ai ricchi la “torta” dei beni in loro possesso, la divida in tante fette tutte uguali e la distribuisca ai poveri, affinché ciascuno ne riceva una (misera) porzione.

Tuttavia, quando la “torta condivisa” è stata consumata, i poveri, rimasti tali e nuovamente affamati, ne chiedono un’altra da mangiare. Pertanto, quel potere superiore si trova a un bivio: o costringerà i nuovi ricchi – se ci sono! – a produrre altre “torte” da sequestrare e dividere; oppure le produrrà da solo impadronendosi dell’economia.

Così facendo, la mentalità consumista ed egualitaria favorisce quel potere tirannico nell’imporre un regime che conduce al comunismo, ossia al furto legalizzato dei beni, poco importa se compiuto Stati, ONG, fondazioni, organismi multinazionali. Ancor oggi, certi intellettuali, sociologi e teologi non capiscono che questo processo conduce allo strapotere cosmopolita nella miseria generale.

Per contro, la soluzione del problema consiste non nel dividere quella “torta” ma nell’accrescerla o meglio nel moltiplicarla, affinché gl’indigenti possano produrre molte torte di loro proprietà con le quali sfamarsi. Se poi accade che quelle “torte” siano divise e distribuite in fette diseguali, corrispondenti non tanto ai bisogni dei richiedenti quanto alle capacità dei produttori, allora la larghezza della carità cristiana dovrà rimediare alla grettezza della rigorosa giustizia.

Non si tratta quindi di “togliere ai ricchi per dare ai poveri”; piuttosto, bisogna favorire gl’indigenti facendo in modo ch’essi abbiano il massimo accesso possibile alla cultural alla salute, al lavoro, al risparmio e alla proprietà privata, fino al punto che nella società non esista più gente eccessivamente povera o eccessivamente ricca.

Questa soluzione presuppone che le autorità politiche e sociali, ma anche quelle religiose, facilitino l’intervento di quei fattori spirituali e virtù morali che sono necessari per realizzare la moltiplicazione delle “torte”; alludo alle virtù di laboriosità, ingegnosità, sobrietà, previdenza, risparmio, investimento e generosità. Ciò conferma che solo la ricchezza spirituale può risanare radicalmente quella materiale. «Cercate il Regno di Dio e la sua giustizia, e il resto vi sarà dato in soprappiù», anche il benessere terreno, nella misura in cui è compatibile con la salvezza eterna