martedì 21 ottobre 2025

Il pericolo di una formazione ecclesiale delegata




Il riferimento è al Documento di sintesi del Cammino sinodale delle Chiese in Italia, pubblicato nell'ottobre 2025, che sarà votato dalla terza Assemblea sinodale in programma a Roma il 25 ottobre... 




don Mario Proietti, 20 ottobre 2025

Ho letto attentamente il documento che sarà sottoposto all’approvazione dei vescovi. E nella libertà della parresia che il Vangelo chiede a ogni fedele, dico con cuore sincero: è bene rifletterci prima di approvare.

L’impostazione di diverse istanze presenti nel testo risente di un linguaggio e di un impianto culturale che il mondo stesso ha già superato o sta superando. Questo rende il documento vecchio prima ancora di nascere. È la sorte che tocca a chi perde la dimensione profetica per inseguire il mondo: il mondo passa, cambia idea rapidamente, e chi lo insegue finisce per restare sempre indietro.

Lo abbiamo già visto nel revival di concetti e parole d’ordine degli anni Settanta, riesumati e proiettati nel nuovo millennio: non hanno generato né unità né rinnovamento, ma solo ambiguità, disorientamento e divisione.

Non è questo il mandato che Cristo ha affidato alla sua Chiesa, né è lo spirito del Concilio Vaticano II.
Trovare un linguaggio moderno per facilitare l’inculturazione cattolica in una società smarrita è necessario; aderire ai linguaggi del mondo, invece, è un errore. Il Vangelo non si adatta, non si mescola, non si travasa nei codici della cultura dominante. Nel mondo il messaggio di Gesù Cristo resterà sempre incompatibile, come olio e acqua: possono toccarsi, ma non confondersi.

Oggi il Vangelo ci ammonisce con una domanda che taglia come spada: «Quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?» (Lc 18,8). È una domanda che non possiamo eludere, perché non riguarda soltanto il futuro, ma il presente della Chiesa.

Il documento sinodale presenta ambiguità ecclesiologiche, dottrinali e morali. Confusione tra peccato e peccatore. Fa slittare il discorso missionario da un piano teologico a uno dialogico, attenuando il mandato di evangelizzare consegnato da Cristo. Sostituisce la missione con la conversazione, la testimonianza con l’ascolto, l’annuncio con la mediazione. E apre a una visione antropologica e sociale della Chiesa che assume toni quasi politici, riducendo la salvezza a orizzonte terreno.

Ma il punto più critico, a mio avviso, riguarda i processi formativi. Si introduce una nuova idea di formazione ecclesiale che prevede percorsi “tenendo conto dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere”. Espressioni simili non appartengono alla teologia cattolica, bensì a un sistema concettuale sviluppato in ambiti estranei alla visione cristiana dell’uomo.

L’effetto è grave: la Chiesa si vincola a un linguaggio che non le appartiene, e in tal modo si obbliga a cercare competenze fuori di sé, in esperti che non condividono la sua antropologia. È l’inizio di una dipendenza culturale che finirà per modellare la formazione pastorale secondo criteri esterni al Vangelo.

Una Chiesa che parla di affettività e sessualità con categorie nate dal relativismo contemporaneo non forma più secondo Cristo, ma secondo il mondo. In questo modo perde la sua voce materna e magisteriale, la stessa che san Giovanni XXIII prefigurava in quella Chiesa “Madre e Maestra” capace di istruire, consolare e guidare.

Il problema reale si pone nel momento in cui si chiede il soccorso di competenza. Chi dovrebbe formare i nostri operatori pastorali? A chi bisogna rivolgersi? E qui diventa chiaro il riferimento alla prassi già nota nelle scuole statali e ai programmi di formazione supportati da associazioni di riferimento. Il rischio è che l’educazione ecclesiale venga delegata a esperti senza visione cristiana, trasformando la pastorale in un laboratorio psicologico e la formazione in un processo di adattamento culturale. Permettendo questo, si smarrisce la certezza che solo la grazia, non la teoria, rinnova il cuore dell’uomo.
Allora la domanda che sorge è chiara: perché? Cui prodest?

Chi ha pensato tutto questo e lo sta proponendo ai vescovi ha forse qualche conflitto d’interesse in corso?
Tutto va bene quando si parla di accogliere, ascoltare, accompagnare.
Ma formare significa orientare al vero, non negoziare la verità.

Siamo prudenti e accorti.

Se la Chiesa rinuncia a essere maestra dell’uomo, smette anche di esserne la madre.
Fermarsi, in questo momento, non significa arrestare un cammino, ma salvarlo dal precipizio.
E torna alla mente il detto popolare più saggio: la via per l’inferno è lastricata di tanta, ma tanta, buona volontà.
Nel documento la buona volontà non manca, anzi abbonda, nel desiderio di pacificare tutti, tutti e tutto.

Non so se vi sia anche la buona fede: lo spero sinceramente.

Il dubbio nasce quando la ragione si trova davanti all’evidenza che chi scrive conosce, chi conosce sa, e chi sa non può fingere che ciò che propone sia privo di conseguenze.

Il monito di Paolo oggi ci sia di insegnamento: «Rimani saldo in tutto quello che hai imparato e che credi fermamente» (2Tm 3,14). Mi chiedo, con amarezza e con fede: che cosa abbiamo imparato davvero dalla Parola di Dio, dal Catechismo e dal Magistero? Crediamo fermamente in ciò che vi è scritto? Se qualcuno non lo ha chiaro, allora forse è tempo di tornare a impararlo di nuovo.





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