Di Silvio Brachetta, 20 GIU 2024
A proposito del primo capitolo dell’ottimo libro di Ureta e Loredo – La diga rotta. La resa di Fiducia Supplicans alla lobby omosessuale (Tradizione Famiglia Proprietà, 2024 – vedi QUI una nostra presentazione) – intendo sviluppare la questione teologica sulla benedizione in senso generale, cioè commentare il testo (pp. 18-24) con integrazioni aggiuntive. Il libro è interamente dedicato alla Fiducia Supplicans, la Dichiarazione del Dicastero per la Dottrina della Fede sul senso pastorale delle benedizioni. La Fiducia Supplicans apre di fatto alla possibilità di benedire due omosessuali che convivono o due adulteri – il libro di Ureta e Loredo è una critica alla Dichiarazione condotta in modo molto argomentato.
Maledizioni lecite
Benedizione e maledizione hanno un’unica fonte in Dio, nella sua attribuzione di Logos, di Parola eterna. L’attenzione va posta nella Parola di verità e nel suo risuonare perenne. Il giudizio relativo al benedicere e al maledicere è di Dio, prima che la creatura vi partecipi. E la creatura vi partecipa secondo verità o contro verità: «Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano» (At 10, 15). E allora sacro e profano, puro e impuro, comunicato e scomunicato? Dipende dalla verità morale. È impossibile separare l’etica dalla verità, che in Dio sono un’unica sostanza.
La volontà di Dio è la pura benedizione, anche se, con il sorgere del male, Dio maledice. Ma Dio maledice per via della giustizia, quando invece benedice sempre per amore o per misericordia. Anche l’uomo maledice, in tre forme, come spiega san Tommaso d’Aquino (S.Th. II-II, 76, 1). C’è la maledizione del «maldicente», in cui il male è semplicemente «enunciato»: è il caso del «detrattore» che dice male di qualcuno. C’è poi la maledizione comandata (da Dio o dall’uomo), nella quale al dire segue a ruota il fare. Infine, c’è la maledizione potenziale, dove si desidera il male per qualcuno.
La prima forma è sempre illecita e meschina – è una mormorazione. Le altre due, se provengono dall’uomo, possono essere lecite o illecite. Sono illecite quelle maledizioni in cui qualcuno «comanda o desidera il male altrui in quanto male, avendo di mira quasi il male stesso». Ma sono, al contrario, lecite se «uno comanda o desidera il male altrui sotto l’aspetto di bene», ovvero se l’intenzione principale è il bene. Tommaso fa vari esempi: «E in tal senso il giudice lecitamente maledice colui al quale comanda d’infliggere la giusta pena. E così la Chiesa maledice coloro che meritano l’anatema; e i Profeti talora imprecano il male ai peccatori, quasi conformando la loro volontà alla divina giustizia». Può anche succedere che qualcuno possa lecitamente desiderare «una malattia o una contrarietà a un peccatore, o perché si ravveda, o almeno perché cessi di nuocere».
Veritatis Splendor
L’uomo però è tenuto sempre a benedire, per la facilità con cui una giusta maledizione possa trasformarsi in peccato veniale o mortale (S.Th. II-II, 76, 3): è semplice desiderare il male altrui. È anche molto semplice passare dal giudizio oggettivo (lecito e doveroso) al giudizio sulla persona (che compete solo a Dio). L’uomo deve quindi fuggire la maledizione e la maldicenza, perché – ad eccezione del giudizio dell’inquisitore sul delinquente o del genitore sui figli, che sono imposti dalla Provvidenza – non ha la sapienza necessaria per discernere i cuori e le intenzioni.
Il discrimine delle questioni etiche e morali è proprio la sapienza e la conoscenza, che sono questioni di verità. Lo stesso ethos non viene a noi se non per conoscenza (anche per via illuminativa): «Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male» (Gen 3, 22). Prima del bene e del male c’è la conoscenza di una verità. Questo non è strano, perché la volontà non si muove alla cieca, ma si orienta sempre a favore o contro una qualche conoscenza.
Non a caso Giovanni Paolo II ha titolato Veritatis Splendor (Lo splendore della verità, 1993) una delle sue encicliche più riuscite su questioni morali. Non sarebbe stato più azzeccato, per un’enciclica sulla morale, il titolo Lo splendore del bene, oppure La meschinità del male? No e lo spiega il Papa al n. 2: «Che cosa devo fare? Come discernere il bene dal male? La risposta è possibile solo grazie allo splendore della verità che rifulge nell’intimo dello spirito umano […]».
Tutta l’enciclica è orientata ad esporre una dottrina della «verità sull’agire morale» (n. 8). Più che chiamato a compiere il bene, l’uomo ha la vocazione primordiale di «fare la verità» (n. 24), cioè fare il bene significa fare la verità, così come fare il male significa mentire. Al cuore, dunque, della benedizione e della maledizione c’è il fondamento sulla verità.
Contra sextum
L’abominio (ebr. toevah) è ab (allontanamento) e omen (augurio), cioè «respingere da sé», nel senso di «maledire». Nell’abominio risuona il «via da me, maledetti» di Mt 25, 41. L’idolo è toevah. L’omoerotismo è toevah. E così l’adulterio, la falsa testimonianza, la truffa, l’oppressione dei poveri: sono abominazioni.
Non è lo stesso nemmeno il puro e l’impuro, il sacro e il profano. Dovremmo forse perderci anche noi su cosa è kosher e cosa no? Dovremmo aggiungere ai dieci comandamenti anche le 613 mitzvot ebraiche? E cos’è puro o impuro, se «tutto è puro per i puri» (Tt 1, 15)?
Il puro, allora, o il penitente benedice sempre, ma in ogni circostanza discerne il bene e il male. In alcuni casi prega, in altri benedice; in alcuni casi profetizza, in altri giacula; in alcuni casi supplica, in altri esorcizza. Anche nell’esorcismo ci sono benedizioni e oggetti benedetti. Tutto è preghiera, tutto è Logos – ma il Logos è discorso variegato e ordinato, non confusione.
Oppure tutto dev’essere benedetto, o tutto esorcizzato, o tutto consacrato? Nella Fiducia Supplicans – come scrivono Ureta e Loredo – ci sono «quattro fallacie» che vanno a «giustificare la benedizione di una relazione peccaminosa»: l’errore d’introdurre la nuova categoria della «benedizione pastorale», l’errore di distinguere la «coppia» dall’«unione», l’errore di voler concedere la benedizione (in una relazione) ai soli elementi buoni e l’errore di «separare l’azione pastorale della Chiesa dalla sua dottrina».
Aggiungerei, però, un quinto errore. È sì giusto benedire sempre e, soprattutto, i peccatori – anche nei peccati che possono sembrare più radicati. Il beato Padre Marco d’Aviano, ad esempio, prima della battaglia di Vienna, benedisse anche i protestanti, che di lì’ a poco avrebbero combattuto a fianco delle forze cattoliche. Perché dunque benedire persino l’eretico e lo scismatico, ma non l’adultero o l’omosessuale? Lo spiega san Paolo: «Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà alla fornicazione, pecca contro il proprio corpo» (1Cor 6, 18). Il sesto comandamento, cioè, è in qualche modo diverso dagli altri nove, perché è strettamente collegato alla verità sul corpo mistico di Cristo, che è la Chiesa: «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta? Non sia mai!» (ivi, v. 15).
È dunque un abominio confezionare una benedizione ad hoc per tutto ciò che è contra sextum, proprio perché «chi si unisce alla prostituta forma con essa un corpo solo» (ivi, v. 16). A questo genere di casi san Paolo applica il noto comando: «Fuggite la fornicazione!» (ivi, v. 18). È questa forse una maledizione? No, è una preghiera.
Silvio Brachetta
Cristo benedicente, Bellini- wikipedia Di PHGCOM – Opera propria
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