Il prof De Marco ha fatto, a nostro parere, un'analisi colta, precisa e approfondita.
Pietro De Marco, nato a Genova nel 1941, ha insegnato Sociologia della religione nella Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Firenze. Ha insegnato Sistemi religiosi comparati nella Facoltà di Scienze Politiche di Firenze. Filosofo di formazione, sotto la guida di Eugenio Garin, si è occupato di storia del campo intellettuale europeo (rinascimentale e otto-novecentesco) e del pensiero ebraico e cristiano antico, e islamico medievale. Ha condotto poi studi di storia della Chiesa e della teologia presso l’Istituto per le Scienze Religiose di Bologna. È stato redattore dell’Enciclopedia delle Religioni (Vallecchi) dal 1969 al 1974 e collaboratore della cattedra di Storia della Chiesa presso la Facoltà di Lettere di Firenze. Ambito di ricerca prevalente, per anni, è stata l’opera di Max Weber e il suo contesto tedesco: scienze giuridiche ed economiche, filosofiche e storico-religiose.
Luigi C.
Pietro De Marco, 21-6-24
Mi si chiede di comunicare la mia opinione sugli argomenti con cui Andrea Grillo ha risposto al suo interlocutore, e un po’ maltrattato i lettori, di Messa in latino. Con Andrea abbiamo avuto un paio di confronti, nel tempo, e questo mi facilita, anche nella scelta del tono giusto. Ma rende anche chiara la mia posizione, che ricordo per chi non mi abbia mai letto: non intervengo come “tradizionalista fedele a Roma”, come si esprime MiL legittimamente. Da quando scrivo, e particolarmente, da quando ho ritenuto doveroso mostrarmi in disaccordo con gli atti comunicativi e di governo del pontefice regnante (io, che sono sempre stato filoromano), ho parlato come comune christifidelis, dotato di qualche capacità di giudizio, ma anzitutto colmo di preoccupazione per la Chiesa, che fino dall’infanzia, per dono di Dio, ho veramente sentito come Madre.
Ho conosciuto e condiviso, negli anni Sessanta e Settanta, il “punto di vista” conciliare-riformatore e le sue radicalità. Ma, salvo che per un brevissimo periodo, forse, nessuno è riuscito a convincermi che molto, se non tutto, il passato della vivente storia umano-divina della Chiesa cattolica fosse stato errore o relativa cecità o deviazione. Non ci si accorgeva, come neppure ora ci si accorge, che la possibilità di pensare questo si era già data, con tutte le sue conseguenze: era stata al cuore della grande crisi protestante. L’ermeneutica della rottura e della ripartenza da presunte origini pure, propria dei Riformatori, non è, non può essere, quella Cattolica. Nonostante certa grandezza teologica delle chiese riformate, che conosco e riconosco, la Riforma costituisce un paradigma di errore, di un già compiuto nella storia cristiana, tanto più gravemente nelle sue versioni ‘liberali’ di Otto e Novecento. Trovo incredibilmente ingenuo ripercorrere, col cieco tatonnement di chi cerca rigenerazioni o rinascite, le strade senza sbocco già immaginate o percorse da altri.
Non mi si caccerà a ‘destra’, dunque, né la mia insignificante persona né i teologi, i cleri, gli intellettuali e le chiese, che nel mondo stanno saldamente al centro nell’opporsi alle élites distruttive, cui purtroppo anche Grillo appartiene, che si avvalgono di un pontificato contraddittorio e disorientante, dotato di idee fisse personali quanto può esserlo un singolo cristiano, in decenni difficili, ma non un Papa.
Questa premessa era opportuna, in ordine a tutte le osservazioni e boutades che Grillo riserva ai “tradizionalisti fedeli” ma che vogliono colpire obbiettivi molto lontani e alti, raggruppati sotto una comune connotazione deteriore.
Valga subito quanto sostiene nella prima risposta. Detto che il “parallelismo rituale” istituito dalla Summorum pontificum di Benedetto XVI non aveva fondamento teologico, G. afferma, con la drasticità dei riformatori che rinunciano ad ogni maschera dialogica, che per essere “fedeli” bisogna acquisire la lingua rituale comunitariamente stabilita da Roma, si intende col recente Traditionis custodes. La Tradizione incorpora infatti “un legittimo e insuperabile progresso, che è irreversibile”; questo sarebbe anche il senso del titolo del motu proprio che è sembrato a molti irridente. Ma la Tradizione di Grillo assomiglia troppo al Progresso della retorica marxiano-pragmatista di un tempo (il suo moto è insuperabile, irreversibile) per avere a che fare con le traditiones cristiane, e in genere con le tradizioni religiose. Non vi è, a rigore, nessun progresso nel traditum cristiano (cosa sia “progresso dogmatico” non starò a ricordarlo a Andrea), nessun Nuovo irreversibile.
Ed è curioso che debba ricordarlo a lui, che in altra sede mi negherebbe che Trento (e forse anche Calcedonia) siano stati progressi insuperabili e irreversibili. Ma quello che non regge, e che dispiace vedere proposto invece come ovvio, è che insuperabile e irreversibile sia il Traditionis custodes e non lo sia stato Summorum Pontificum. Nessun dei due documenti ha più che il valore di un atto di governo voluto dalla prudentia del capo della Chiesa. Sarà invece oggetto di discussione quale delle due prudentiae sia da riconoscere più sollecita del bene dei cristiani. Di Summorum pontificum ragionammo nel lontano 2007, nella cattedrale di Parma, Grillo ed io, pubblicamente. Moderava Luise. Sostenevo allora questa prospettiva sulla SP, e ne resto pienamente convinto:
“La nuova “legittimazione” del Missale romanum [del 1962] decretata dalla SP riconduce la vita cattolica alla sua essenziale natura di complexio. La storia cattolica “precedente” il Concilio Vaticano II viene proposta come vitale orizzonte dello “spirito” del Concilio stesso e della sua realizzazione – “realizzazione” che molti estremismi hanno vissuto invece come incompatibile col passato. Così l’obiettivo della “riconciliazione interna nel seno della Chiesa” diviene parte di un ampio intervento medicinalis per la chiesa universale (…). Il recupero del rito latino potrà, al contrario di quanto si obietta, agire come paradigma stabilizzatore delle fluttuanti e impoverite liturgie in lingua corrente. Come ha notato lo stesso Card. Lehmann -proseguivo- il motu proprio è buon motivo per promuovere con nuova attenzione una celebrazione degna dell’Eucaristia e delle altre messe”.
Contro questo paradigma stabilizzatore si è mossa politicamente la liturgistica e l’incomprensione di molti vescovi. Non posso non aggiungere che le sensibilità e/o teorie che Grillo sottintende si schierano contro il valore in certo modo perenne, sempre in actu, della ontologia misterico-sacramentaria nella vita millenaria della Chiesa. Penso fermamente, contro ciò che Grillo irride nella risposta alla quinta domanda, che “ciò che è stato sacro per le generazioni passate non può non essere sacro anche per noi”; rompere col Sacro cristiano (con la sacramentaria) fu l’atto illusorio e drammatico della Entzauberung calviniana. Non è la sede per argomentarlo, ma avendo insegnato e lavorato in sociologia della religione per decenni, distinguo tra la variabilità sensoriale (ma non volatilità) del sacro e il suo statuto ontologico. Ammiriamo ambedue Odo Casel, ma forse non leggiamo lo stesso autore.
Ma non ci si lasci dunque ingannare: la difesa delle riforme post-conciliari è nei liturgisti di punta solo politica. Ostili alla correzione ratzingeriana del 2007, miravano e mirano da decenni a procedere (non appena possibile) molto oltre eversivamente e autoritariamente, verso un’opposta polarità a-teologica: abolizione dei libri liturgici, situazioni di soglia, effervescenze, teatralizzazioni e primitivismi rituali. Grillo sa di cosa parlo. È la disperata speranza della Negazione generativa del nuovo o dell’autentico.
La comune vita ecclesiale, anche perché non priva di differenze, e il (prevalentemente) saggio governo dei vescovi hanno impedito questo esito, ma le celebrazioni si sono fermate su terreni di buon senso, senza paradigmi forti, e con slittamenti frequenti verso una de-significazione. Slittamenti che hanno, per di più, una preoccupante rilevanza de fide – un vuoto cristologico percepibile da chiunque - che la catechesi è incapace di correggere.
In questa povertà recente di significati vissuti, di fides quae e di fides qua, la forma e la lingua ‘non-ordinaria’ riportano la certezza di una antiquitas del rito cristiano, della sua originarietà in Cristo - su cui il presente profondamente e necessariamente si impianta, secondo continuità. Niente di nostalgico, dunque – dico a Grillo; tutt’altro, è questione di fondamenti.
Passo alle domande e risposte successive. Grillo oppone alle sottolineature di MiL (peso del ‘carisma tradizionale’ nella chiesa, vitalità delle famiglie dell’area tradizionalista nel mondo, loro risposta “una cum Papa” alla carestia di seminaristi) una sorta di squalifica, o condanna delle strade teologiche, formative, pastorali del ‘tradizionalismo’. Sono soluzioni ‘facili’, sono la normatività del passato, infine in “contrasto con la tradizione” (nel senso di Grillo, come ho detto) più che in conformità. Lascio ad Andrea la responsabilità e le conseguenze di questa sicurezza sulla inconsistenza altrui; specialmente se nella sua testa fa veramente di ogni erba un fascio. Ricordo che ridicolizzare l’avversario crea scenari illusori, tranquillizzanti ma incapaci di diagnosi e prognosi. Il mondo che egli banalizza, anche solo quello che si autodefinisce e autolimita come ‘tradizionale’, ha molte più ragioni e molta più sostanza; è Chiesa; d’altronde occupa spazi cattolici abbandonati dai ‘riformatori’ e poco frequentati dal christifidelis medio.
Mi fermo sulla risposta alla quinta domanda, che compendierei così: ‘è possibile che una forma rituale per lunghi secoli normativa non possa più avere spazio, nel quadro in effetti pluralistico della Chiesa universale? E perché avere paura della varietà dei carismi?’. In effetti questa formulazione ha le debolezze di una tattica difensiva, oltre che imitativa (credo di saperlo bene) delle opposte tattiche riformistiche di decenni fa: argomento del pluralismo già esistente, argomento (in via subordinata) dei carismi ecc.
Può funzionare con un interlocutore benevolo, ma solo per sentirsi rispondere: ‘Certo, è giusto, ma …’. Personalmente sconsiglio le diverse costellazioni critiche ‘di destra’ dall’usare argomenti già ‘di sinistra’. Anzitutto gli argomenti rivolti ad indebolire il Primato del vescovo di Roma.
Infatti, gli argomenti ‘progressisti’ non sono neutri, sono intrinsecamente strumentali (non interessa il merito, sono tecnicamente rivoluzionari), sono insomma cattolicamente inutilizzabili. Così, quando Grillo usa l’indignazione retorica, l’exclamatio, o forse qui proprio l’apostrophé (“E non si possono usare da destra le grandi idee paoline in modo così spudorato… per alimentare una ‘anarchia dall’alto’ …”), evoca alla perfezione quei decenni trascorsi, neppure troppo lontani, quando si chiedeva ‘da sinistra’ ai pontefici questa anarchia dall’alto, un “liberi tutti” ai teologi e alle chiese locali. I pontefici si opposero. ‘Da destra’ non bisogna fare niente che porti a ripercorrere à rébours quella strategia diffusa e infausta.
Un cenno al depositum fidei e ai suoi ‘rivestimenti’; è solo un ennesimo argomento deterrente nella tattica (molto abile) di Andrea, perché la storia delle dottrine cristiane, fino agli storicismi liberali, mostra quanto insidioso sia il criterio di individuazione del rivestimento e, di conseguenza, del corpo autentico, o del nucleo. Teoreticamente inconsistente, lo considero, di conseguenza, un concetto inutilizzabile in una discussione seria. Che Grillo pensi poi che sia la ‘nostalgia’ a farci proteggere il corpo autentico della fides quae per non liquidarlo come abito ‘variabile’, mostra che ci si è gettati alle spalle il grande e decisivo dibattito dogmatico che accompagna la Cristianità dall’età tridentina, fino alle discussioni del Vaticano II incluse. La retorica del rivestimento restò appannaggio dello pseudo-concilio esterno, dei giornalisti e dei teologi da battaglia. Dell’intelligencija di ieri e di oggi.
Resta da commentare quanto Grillo attribuisce, un po’ alla cieca (come quando si fa a pugni), a papa Benedetto XVI. Ho già detto dell’anarchia dall’alto. Essa è piuttosto la condizione che l’intelligencija eversiva detta al sovrano per concedergli di sopravvivere. Altro l’intento di Benedetto XVI, considerando quanto quella soluzione binaria Vo/No fosse destinata a ridurre lo strutturale disequilibrio delle pratiche recenziori. Che si sia trattato di strategia e teologia inadeguate è un giudizio empirico; dovremmo metterci d’accordo sui parametri da usare, anche quello temporale. E tenere conto della variazione di pontificato: quando lavorammo insieme, ognuno nella sua trincea, a Ecclesia universa o introversa? la questione liturgica era nel cuore di molti, e nel cuore del pontefice. Quando la San Paolo pubblicò il volume (2013) non interessava più a nessuno, anzitutto a Roma. Sic transit.
Ma la sussistenza, la mera sussistenza direi (quella che Andrea e altri amici liturgisti radicali vedono come insopportabile pietra d’inciampo per la vita della Chiesa, non solo liturgica, e che io vedo come pietra d’angolo, ormai), di un paradigma antiquior realizzato e vissuto, posto là come icona della Chiesa irrinunciabile, vale come dialettica concreta. Vale cioè come negazione dialettica della fragile comunità ecclesiale tipo cui sembra ridotta la Chiesa cattolica (e del cui dono ringraziamo comunque il Signore). Una negazione che realizza un ideale e una realtà di Chiesa inattuali e perenni. Tutto nella sintesi del Corpo mistico.
Minuzie sulle ultime risposte di Andrea Grillo. Riguardo alla questione del “fallimento” della riforma liturgica concordo con lui che l’argomento dei numeri è debole. Anzitutto perché le correlazioni tra pratiche ecclesiali e numerosità dei praticanti sono difficilissime da ottenere e da interpretare (l’interpretazione presuppone degli enunciati lawful del tipo se-allora di cui manchiamo). E poi, alle solite, l’argomento del declino della pratica è da decenni in preda alle più diverse, anzi opposte, argomentazioni. Negli anni ho formato il mio giudizio piuttosto nella pratica (mista V e NO) di messalizzante, nell’ascolto delle omelie, nella valutazione di ciò che si dice come di quanto non si riesce/vuole più dire, nell’osservazione dei comportamenti (entro e fuori del rito) di clero e popolo.
Osservo, per chiudere, che la stoccata finale, “la tradizione non è passato ma è futuro”, caratterizza bene (non so quanto volontariamente e coerentemente) una filosofia di fondo dell’amico liturgista, ovvero l’utopismo ontologico e nihilistico di matrice Nietzsche-Bloch, coltivato da molti, ancora oggi dai giovani laureandi in filosofia. Certamente incompatibile con la teologia della storia salvifica, con la Cristologia dunque. Ed anche con il common sense.
Mi si chiede di comunicare la mia opinione sugli argomenti con cui Andrea Grillo ha risposto al suo interlocutore, e un po’ maltrattato i lettori, di Messa in latino. Con Andrea abbiamo avuto un paio di confronti, nel tempo, e questo mi facilita, anche nella scelta del tono giusto. Ma rende anche chiara la mia posizione, che ricordo per chi non mi abbia mai letto: non intervengo come “tradizionalista fedele a Roma”, come si esprime MiL legittimamente. Da quando scrivo, e particolarmente, da quando ho ritenuto doveroso mostrarmi in disaccordo con gli atti comunicativi e di governo del pontefice regnante (io, che sono sempre stato filoromano), ho parlato come comune christifidelis, dotato di qualche capacità di giudizio, ma anzitutto colmo di preoccupazione per la Chiesa, che fino dall’infanzia, per dono di Dio, ho veramente sentito come Madre.
Ho conosciuto e condiviso, negli anni Sessanta e Settanta, il “punto di vista” conciliare-riformatore e le sue radicalità. Ma, salvo che per un brevissimo periodo, forse, nessuno è riuscito a convincermi che molto, se non tutto, il passato della vivente storia umano-divina della Chiesa cattolica fosse stato errore o relativa cecità o deviazione. Non ci si accorgeva, come neppure ora ci si accorge, che la possibilità di pensare questo si era già data, con tutte le sue conseguenze: era stata al cuore della grande crisi protestante. L’ermeneutica della rottura e della ripartenza da presunte origini pure, propria dei Riformatori, non è, non può essere, quella Cattolica. Nonostante certa grandezza teologica delle chiese riformate, che conosco e riconosco, la Riforma costituisce un paradigma di errore, di un già compiuto nella storia cristiana, tanto più gravemente nelle sue versioni ‘liberali’ di Otto e Novecento. Trovo incredibilmente ingenuo ripercorrere, col cieco tatonnement di chi cerca rigenerazioni o rinascite, le strade senza sbocco già immaginate o percorse da altri.
Non mi si caccerà a ‘destra’, dunque, né la mia insignificante persona né i teologi, i cleri, gli intellettuali e le chiese, che nel mondo stanno saldamente al centro nell’opporsi alle élites distruttive, cui purtroppo anche Grillo appartiene, che si avvalgono di un pontificato contraddittorio e disorientante, dotato di idee fisse personali quanto può esserlo un singolo cristiano, in decenni difficili, ma non un Papa.
Questa premessa era opportuna, in ordine a tutte le osservazioni e boutades che Grillo riserva ai “tradizionalisti fedeli” ma che vogliono colpire obbiettivi molto lontani e alti, raggruppati sotto una comune connotazione deteriore.
Valga subito quanto sostiene nella prima risposta. Detto che il “parallelismo rituale” istituito dalla Summorum pontificum di Benedetto XVI non aveva fondamento teologico, G. afferma, con la drasticità dei riformatori che rinunciano ad ogni maschera dialogica, che per essere “fedeli” bisogna acquisire la lingua rituale comunitariamente stabilita da Roma, si intende col recente Traditionis custodes. La Tradizione incorpora infatti “un legittimo e insuperabile progresso, che è irreversibile”; questo sarebbe anche il senso del titolo del motu proprio che è sembrato a molti irridente. Ma la Tradizione di Grillo assomiglia troppo al Progresso della retorica marxiano-pragmatista di un tempo (il suo moto è insuperabile, irreversibile) per avere a che fare con le traditiones cristiane, e in genere con le tradizioni religiose. Non vi è, a rigore, nessun progresso nel traditum cristiano (cosa sia “progresso dogmatico” non starò a ricordarlo a Andrea), nessun Nuovo irreversibile.
Ed è curioso che debba ricordarlo a lui, che in altra sede mi negherebbe che Trento (e forse anche Calcedonia) siano stati progressi insuperabili e irreversibili. Ma quello che non regge, e che dispiace vedere proposto invece come ovvio, è che insuperabile e irreversibile sia il Traditionis custodes e non lo sia stato Summorum Pontificum. Nessun dei due documenti ha più che il valore di un atto di governo voluto dalla prudentia del capo della Chiesa. Sarà invece oggetto di discussione quale delle due prudentiae sia da riconoscere più sollecita del bene dei cristiani. Di Summorum pontificum ragionammo nel lontano 2007, nella cattedrale di Parma, Grillo ed io, pubblicamente. Moderava Luise. Sostenevo allora questa prospettiva sulla SP, e ne resto pienamente convinto:
“La nuova “legittimazione” del Missale romanum [del 1962] decretata dalla SP riconduce la vita cattolica alla sua essenziale natura di complexio. La storia cattolica “precedente” il Concilio Vaticano II viene proposta come vitale orizzonte dello “spirito” del Concilio stesso e della sua realizzazione – “realizzazione” che molti estremismi hanno vissuto invece come incompatibile col passato. Così l’obiettivo della “riconciliazione interna nel seno della Chiesa” diviene parte di un ampio intervento medicinalis per la chiesa universale (…). Il recupero del rito latino potrà, al contrario di quanto si obietta, agire come paradigma stabilizzatore delle fluttuanti e impoverite liturgie in lingua corrente. Come ha notato lo stesso Card. Lehmann -proseguivo- il motu proprio è buon motivo per promuovere con nuova attenzione una celebrazione degna dell’Eucaristia e delle altre messe”.
Contro questo paradigma stabilizzatore si è mossa politicamente la liturgistica e l’incomprensione di molti vescovi. Non posso non aggiungere che le sensibilità e/o teorie che Grillo sottintende si schierano contro il valore in certo modo perenne, sempre in actu, della ontologia misterico-sacramentaria nella vita millenaria della Chiesa. Penso fermamente, contro ciò che Grillo irride nella risposta alla quinta domanda, che “ciò che è stato sacro per le generazioni passate non può non essere sacro anche per noi”; rompere col Sacro cristiano (con la sacramentaria) fu l’atto illusorio e drammatico della Entzauberung calviniana. Non è la sede per argomentarlo, ma avendo insegnato e lavorato in sociologia della religione per decenni, distinguo tra la variabilità sensoriale (ma non volatilità) del sacro e il suo statuto ontologico. Ammiriamo ambedue Odo Casel, ma forse non leggiamo lo stesso autore.
Ma non ci si lasci dunque ingannare: la difesa delle riforme post-conciliari è nei liturgisti di punta solo politica. Ostili alla correzione ratzingeriana del 2007, miravano e mirano da decenni a procedere (non appena possibile) molto oltre eversivamente e autoritariamente, verso un’opposta polarità a-teologica: abolizione dei libri liturgici, situazioni di soglia, effervescenze, teatralizzazioni e primitivismi rituali. Grillo sa di cosa parlo. È la disperata speranza della Negazione generativa del nuovo o dell’autentico.
La comune vita ecclesiale, anche perché non priva di differenze, e il (prevalentemente) saggio governo dei vescovi hanno impedito questo esito, ma le celebrazioni si sono fermate su terreni di buon senso, senza paradigmi forti, e con slittamenti frequenti verso una de-significazione. Slittamenti che hanno, per di più, una preoccupante rilevanza de fide – un vuoto cristologico percepibile da chiunque - che la catechesi è incapace di correggere.
In questa povertà recente di significati vissuti, di fides quae e di fides qua, la forma e la lingua ‘non-ordinaria’ riportano la certezza di una antiquitas del rito cristiano, della sua originarietà in Cristo - su cui il presente profondamente e necessariamente si impianta, secondo continuità. Niente di nostalgico, dunque – dico a Grillo; tutt’altro, è questione di fondamenti.
Passo alle domande e risposte successive. Grillo oppone alle sottolineature di MiL (peso del ‘carisma tradizionale’ nella chiesa, vitalità delle famiglie dell’area tradizionalista nel mondo, loro risposta “una cum Papa” alla carestia di seminaristi) una sorta di squalifica, o condanna delle strade teologiche, formative, pastorali del ‘tradizionalismo’. Sono soluzioni ‘facili’, sono la normatività del passato, infine in “contrasto con la tradizione” (nel senso di Grillo, come ho detto) più che in conformità. Lascio ad Andrea la responsabilità e le conseguenze di questa sicurezza sulla inconsistenza altrui; specialmente se nella sua testa fa veramente di ogni erba un fascio. Ricordo che ridicolizzare l’avversario crea scenari illusori, tranquillizzanti ma incapaci di diagnosi e prognosi. Il mondo che egli banalizza, anche solo quello che si autodefinisce e autolimita come ‘tradizionale’, ha molte più ragioni e molta più sostanza; è Chiesa; d’altronde occupa spazi cattolici abbandonati dai ‘riformatori’ e poco frequentati dal christifidelis medio.
Mi fermo sulla risposta alla quinta domanda, che compendierei così: ‘è possibile che una forma rituale per lunghi secoli normativa non possa più avere spazio, nel quadro in effetti pluralistico della Chiesa universale? E perché avere paura della varietà dei carismi?’. In effetti questa formulazione ha le debolezze di una tattica difensiva, oltre che imitativa (credo di saperlo bene) delle opposte tattiche riformistiche di decenni fa: argomento del pluralismo già esistente, argomento (in via subordinata) dei carismi ecc.
Può funzionare con un interlocutore benevolo, ma solo per sentirsi rispondere: ‘Certo, è giusto, ma …’. Personalmente sconsiglio le diverse costellazioni critiche ‘di destra’ dall’usare argomenti già ‘di sinistra’. Anzitutto gli argomenti rivolti ad indebolire il Primato del vescovo di Roma.
Infatti, gli argomenti ‘progressisti’ non sono neutri, sono intrinsecamente strumentali (non interessa il merito, sono tecnicamente rivoluzionari), sono insomma cattolicamente inutilizzabili. Così, quando Grillo usa l’indignazione retorica, l’exclamatio, o forse qui proprio l’apostrophé (“E non si possono usare da destra le grandi idee paoline in modo così spudorato… per alimentare una ‘anarchia dall’alto’ …”), evoca alla perfezione quei decenni trascorsi, neppure troppo lontani, quando si chiedeva ‘da sinistra’ ai pontefici questa anarchia dall’alto, un “liberi tutti” ai teologi e alle chiese locali. I pontefici si opposero. ‘Da destra’ non bisogna fare niente che porti a ripercorrere à rébours quella strategia diffusa e infausta.
Un cenno al depositum fidei e ai suoi ‘rivestimenti’; è solo un ennesimo argomento deterrente nella tattica (molto abile) di Andrea, perché la storia delle dottrine cristiane, fino agli storicismi liberali, mostra quanto insidioso sia il criterio di individuazione del rivestimento e, di conseguenza, del corpo autentico, o del nucleo. Teoreticamente inconsistente, lo considero, di conseguenza, un concetto inutilizzabile in una discussione seria. Che Grillo pensi poi che sia la ‘nostalgia’ a farci proteggere il corpo autentico della fides quae per non liquidarlo come abito ‘variabile’, mostra che ci si è gettati alle spalle il grande e decisivo dibattito dogmatico che accompagna la Cristianità dall’età tridentina, fino alle discussioni del Vaticano II incluse. La retorica del rivestimento restò appannaggio dello pseudo-concilio esterno, dei giornalisti e dei teologi da battaglia. Dell’intelligencija di ieri e di oggi.
Resta da commentare quanto Grillo attribuisce, un po’ alla cieca (come quando si fa a pugni), a papa Benedetto XVI. Ho già detto dell’anarchia dall’alto. Essa è piuttosto la condizione che l’intelligencija eversiva detta al sovrano per concedergli di sopravvivere. Altro l’intento di Benedetto XVI, considerando quanto quella soluzione binaria Vo/No fosse destinata a ridurre lo strutturale disequilibrio delle pratiche recenziori. Che si sia trattato di strategia e teologia inadeguate è un giudizio empirico; dovremmo metterci d’accordo sui parametri da usare, anche quello temporale. E tenere conto della variazione di pontificato: quando lavorammo insieme, ognuno nella sua trincea, a Ecclesia universa o introversa? la questione liturgica era nel cuore di molti, e nel cuore del pontefice. Quando la San Paolo pubblicò il volume (2013) non interessava più a nessuno, anzitutto a Roma. Sic transit.
Ma la sussistenza, la mera sussistenza direi (quella che Andrea e altri amici liturgisti radicali vedono come insopportabile pietra d’inciampo per la vita della Chiesa, non solo liturgica, e che io vedo come pietra d’angolo, ormai), di un paradigma antiquior realizzato e vissuto, posto là come icona della Chiesa irrinunciabile, vale come dialettica concreta. Vale cioè come negazione dialettica della fragile comunità ecclesiale tipo cui sembra ridotta la Chiesa cattolica (e del cui dono ringraziamo comunque il Signore). Una negazione che realizza un ideale e una realtà di Chiesa inattuali e perenni. Tutto nella sintesi del Corpo mistico.
Minuzie sulle ultime risposte di Andrea Grillo. Riguardo alla questione del “fallimento” della riforma liturgica concordo con lui che l’argomento dei numeri è debole. Anzitutto perché le correlazioni tra pratiche ecclesiali e numerosità dei praticanti sono difficilissime da ottenere e da interpretare (l’interpretazione presuppone degli enunciati lawful del tipo se-allora di cui manchiamo). E poi, alle solite, l’argomento del declino della pratica è da decenni in preda alle più diverse, anzi opposte, argomentazioni. Negli anni ho formato il mio giudizio piuttosto nella pratica (mista V e NO) di messalizzante, nell’ascolto delle omelie, nella valutazione di ciò che si dice come di quanto non si riesce/vuole più dire, nell’osservazione dei comportamenti (entro e fuori del rito) di clero e popolo.
Osservo, per chiudere, che la stoccata finale, “la tradizione non è passato ma è futuro”, caratterizza bene (non so quanto volontariamente e coerentemente) una filosofia di fondo dell’amico liturgista, ovvero l’utopismo ontologico e nihilistico di matrice Nietzsche-Bloch, coltivato da molti, ancora oggi dai giovani laureandi in filosofia. Certamente incompatibile con la teologia della storia salvifica, con la Cristologia dunque. Ed anche con il common sense.
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