Tensioni sempre più frequenti oltralpe per le pretese di studenti o dipendenti islamici di imporre i dettami del Corano a scuola o sul posto di lavoro. Con il supporto di sindacati di estrema sinistra e l'anomala convergenza con la lobby arcobaleno.
Lorenza Formicola, 27-06-2024
Gli analisti registrano come i giovani immigrati di seconda e terza generazione ostentino un esacerbato ossequio nei confronti del loro credo, certamente maggiore dei loro genitori o nonni. E così accade che nelle scuola sia sempre più difficile far rispettare le regole ordinarie, quelle che valgono per tutti. A Mayotte, dipartimento d’oltremare della Francia, e dove la popolazione musulmana è già al 95%, la nuova università aperta per volontà dell’ex primo ministro Élisabeth Borne lo scorso gennaio è stata inaugurata da un rappresentante musulmano con tanto di preghiera islamica. Tempo tre mesi, è stata anche allestita una sala di preghiera, arrivata persino prima degli uffici per i professori.
In tutta la Francia gli studenti polemizzano per i programmi scolastici e per ogni sorta di regola che non risponda all’islam. Dimostrano di voler rimanere sostanzialmente “diversi” in attesa di plasmare ogni cosa secondo i dettami islamici. Non vogliono studiare storia dell’arte, scienze e storia, mentre l’ora di educazione fisica vede le ragazze presentare costantemente un certificato medico per non indossare la divisa sportiva. Durante il Ramadan, a mensa c’è una tensione costante.
Bernard – nome fittizio di un professore di Hauts-de-Seine – descrive a Le Figaro l’ingerenza dei sindacati di estrema sinistra che difendono e sponsorizzano il “comunitarismo” islamico. Risultato? «Gli insegnanti sono terrorizzati all’idea di parlare apertamente. Vi racconto il mio caso: nella mia classe avevo studenti segnalati come “Fiche S” – quanti sono considerati potenzialmente una minaccia per la sicurezza dello Stato –, ma nessuno mi ha mai detto chi fossero e perché erano stati segnalati. Una volta uno studente salafita mi ha minacciato di morte perché secondo lui avevo detto inesattezze sul re del Marocco. Ogni volta che c’è da affrontare il tema della Shoah è una tragedia. Apertamente, durante la lezione, c’è chi si rammarica che i nazisti “non abbiano portato a termine il lavoro” sostenendo che “gli ebrei si siano meritati ogni cosa”. Guai a denunciare l’antisemitismo. Sai di essere solo di fronte a questo problema e che nessuno ti difenderà nel mondo della scuola».
Ma l’islamizzazione avanza anche in gran parte del mondo del lavoro. RATP, EDF, La Poste, Orange, Stellantis (ex PSA Peugeot), BNP Paribas: non si contano le aziende, pubbliche o private, che hanno adottato una guida per aiutare il loro dirigenti a gestire le “richieste religiose”. Secondo il report condotto dall’Institut Montaigne sulle tensioni sul posto di lavoro, nel 2022 il 22% erano legate all’islam. Nel 2013 erano il 6%. «In molte aziende si improvvisano cartelli esplicativi su cosa possono e non possono fare i dipendenti proprio per far fronte all’entrismo islamico. Nel 20% delle aziende (grande distribuzione, logistica, subfornitura aeroportuale, pulizia, sicurezza, etc.), si riscontrano situazioni di grande tensione, con opposizione alla dirigenza e misoginia di “ispirazione religiosa”», commenta l’autore di uno studio a riguardo, l’accademico Lionel Honoré.
Le aziende hanno difficoltà, per esempio, ad imporre un capo donna a uomini islamici. E durante il Ramadan c’è la pretesa di fare un orario ridotto. Lo scorso aprile, il direttore di un negozio Geox di Strasburgo ha ricevuto minacce di morte – che qualcuno ha definito, per entità ed eco, una specie di fatwa –, corredate da un video denuncia che ha superato in poche ore il milione di visualizzazioni, per aver rifiutato di accettare che la donna che stava per assumere indossasse il velo nelle ore di lavoro.
Le grandi aziende, invece, onde evitare problemi simili, da H&M a Uniqlo, accettano di buona lena che le commesse siano velate, anche dalla testa ai piedi.
Dal 2010 le aziende, soprattutto nella regione parigina, si sono rese conto, forse per la prima volta, che l’espressione religiosa di alcuni dei loro dipendenti si stava trasformando in separatismo. Mense trasformate in sale di preghiera, autisti che rifiutano di mettersi al volante dell’autobus se nel turno precedente c’è stata una donna, bagni riservati alle abluzioni, scale d’improvviso privatizzate il venerdì a mezzogiorno per la preghiera.
L’islamizzazione non solo sta cambiando irrimediabilmente il volto del Paese – vedi la difficoltà di trovare un taxi all’aeroporto, la sera, nelle settimane del Ramadan – ma si registra anche un’anomala convergenza di lotta tra la lobby Lgbtq e quella islamica: la religione è diventata una rivendicazione identitaria come tutte le altre di moda in tempi recenti. Basti pensare al successo di una sorprendente campagna pubblicitaria della Planned Parenthood francese con tanto di donna velata che rivendica per sé il nuovo pronome “eil”, che nella lingua francese è utilizzato dalle persone che si definiscono non-binarie e dunque non si riconoscono né nel genere maschile né in quello femminile.
Secondo l’ultimo studio Havas, realizzato da Arielle Schwab e Benoît Loz, lo scorso marzo, nelle aziende francesi il 34% dei dipendenti approva l’uso del velo, rispetto al 29% nel 2021. E la percentuale sale al 53% tra gli under 35, contro il 41% nel 2023. In nome di una certa inclusività, alcune aziende si giocano allora l’asso vincente: Ikea offre direttamente ai propri dipendenti un velo con il logo dell’azienda. Visti i problemi con il Ramadan, invece, l’azienda olandese di passeggini Bugaboo ha deciso di offrire ai dipendenti la possibilità di scegliere i giorni festivi in base alla loro religione.
L’islam cambia la Francia, ma per Parigi non è un problema.
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