giovedì 25 gennaio 2024

Sul latino nella liturgia. Ecco perché è una ricchezza. E non è solo questione di linguaggio verbale






25 GEN 2024

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by Aldo Maria Valli



Caro Valli,

le scrivo perché vorrei spezzare una lancia a favore dell’utilizzo dell’italiano, e delle lingue locali in generale, nella liturgia.

Inizierò da un piccolo aneddoto. Una signora del mio paese venne chiamata Perogna in onore di quella che, secondo la sua mamma, doveva essere una grande santa. “Santa Perogna” era ciò che a quella pia donna era arrivato delle parole latine per omnia saecula saeculorum. Per omnia diventò Perogna, e doveva essere una santa davvero molto importante se era nominata in tutte le messe!

La mamma di Perogna aveva fede e pregava, ma non comprendeva le parole con le quali lo faceva.

Nel corso dell’ultima messa a cui ho partecipato mi trovavo nel transetto e sollevando lo sguardo potevo vedere i visi di chi si trovava nella navata centrale. Durante il Kyrie ho avuto l’impressione di cogliere un po’ di smarrimento.

Gesù parlava ai pastori e ai pescatori in tempi in cui la scuola era per pochissimi. Il Vangelo ci dice che Gesù insegnò ai suoi discepoli a pregare il Padre utilizzando la loro lingua.

Nel corso dell’ultima cena, quando venne istituita l’Eucaristia, le parole di Gesù furono dette nella lingua degli Apostoli.

La discesa dello Spirito Santo diede agli Apostoli il dono di parlare tutte le lingue per rivelare il Vangelo a tutti i popoli.

Penso che utilizzando una lingua diversa da quella dei fedeli ci sia il rischio di metterci nelle condizioni di chi ascolta e pronuncia misteriose formule magiche piuttosto che preghiere e lodi. Porre una distanza linguistica tra chi celebra la messa e chi vi partecipa toglie potere di ammaestramento e intensità di partecipazione.

Mi sembra che il nodo vero non sia la perdita del latino, ma la perdita del senso della sacralità della liturgia. Il nostro parroco questo senso lo ha mantenuto.

Grazie sempre per il suo blog

Alba

*


Risponde don Mauro Tranquillo, FSSPX

Gentile Alba,

parto dall’aneddoto sulla signora Perogna. Non lo voglio mettere in dubbio, anche se trovo molto strano che il parroco, al momento del Battesimo, non sia intervenuto per imporre un nome cristiano sensato, come prescrivono il rituale e la legge canonica. Sappiamo che i vecchi parroci non avevano alcuna remora nell’intervenire in questi casi (come era loro preciso dovere), quindi trovo curioso che abbia accettato un nome del genere.

Sull’argomento della percezione del latino da parte del popolo, ci sono ormai studi importanti e di ampio respiro, come quello di Gian Luigi Beccaria (Sicuterat). Ne emerge (al di là di qualche elemento buffo, ma non si può ragionare sull’aneddotica) una conoscenza popolare profondissima della liturgia, delle feste, dell’anno liturgico, vissuti e fatti propri profondamente dalla popolazione. L’influenza dei riti e del calendario sulla vita del popolo era senza paragoni con quello che il nuovo rito in volgare può lasciare anche al suo più assiduo frequentatore. Evidentemente la formazione di cui quel rito era parte funzionava, e ha segnato profondamente la vita sociale in moltissimi paesi per secoli.

Uscendo da queste considerazioni, occorre ricordare le gravissime ragioni che spinsero la Chiesa Romana a conservare sempre l’uso del latino nella liturgia, contro ogni obiezione (generalmente di marca protestante). Di fatto semplicemente la Chiesa continuò a esprimersi nei riti nella lingua stessa in cui erano nati, dando così il senso della continuità con la Tradizione dei santi Padri. Il latino è la lingua in cui i testi del rito romano sono semplicemente stati composti all’origine. Il messaggio che ogni fedele riceve dall’uso di tale lingua è il concetto della continuità della fede e della Tradizione, non inventata o reinventata a nostro uso, ma ricevuta. I concetti infatti (torneremo poi su questo) non si comunicano solo con discorsi, ma con un linguaggio molto più ampio di quello verbale. I Papi hanno poi insistito sull’uso del latino come garanzia di stabilità dottrinale e segno di universalità e sovranazionalità, caratteristiche della Chiesa cattolica che in qualche modo anche la liturgia deve esprimere.

Vengo quindi alla risposta alla più comune delle obiezioni, quella della lettrice che ritiene che senza il volgare si perda la comprensione dei testi. Premetto che tale obiezione di per sé non riguarda il nuovo rito, visto che esso non è una traduzione del vecchio: chi ha istituito la liturgia in volgare ha anche pesantemente cambiato tutti i testi, introducendo concetti molto diversi e opposti. Quando poi hanno detto di averlo fatto per facilitare la comprensione, avrebbero dovuto dire che volevano far comprendere tutt’altre cose che quelle espresse nella vecchia Messa, visto che non ne hanno conservato né i testi né i riti.

Soprattutto però l’obiezione si basa su una visione impoverita della comunicazione: si pensa che l’uomo comunichi solo con il linguaggio verbale. Il linguaggio rituale invece è un insieme di elementi, verbali, sensoriali, musicali, gestuali eccetera: in questo quadro, come accennato sopra, l’uso di una lingua non quotidiana è uno degli elementi che permettono di trasmettere dei concetti. La liturgia non è una sorta di grande predica, o conferenza, o catechesi, secondo l’idea luterana e poi montiniana: è un’azione sacra, che comunica innanzitutto la grazia, e come azione sacra e sacerdotale deve apparire al fedele. Così gli saranno trasmessi i giusti concetti che riguardano ciò che avviene sull’altare, e circa la perennità della fede cattolica e della Chiesa, e circa il carattere eterno della Tradizione.

Il fedele che assiste alla liturgia in una lingua che non comprende in poco tempo è in grado (a maggior ragione se vi è abituato da sempre) di sapere e cogliere tutto quello che deve sapere dei misteri e dell’azione santificatrice cui assiste, e questo proprio anche tramite il fatto che non si prega nella lingua corrente. Dire che ciò ha qualcosa di “magico”, da parte di un cattolico, sarebbe violentemente irrispettoso di una prassi più che millenaria della Chiesa, cui si opposero storicamente solo gli eretici (i protestanti in particolare). Essi infatti sapevano che il latino impediva loro di rovesciare i concetti cattolici di Tradizione e sacerdozio, e perciò lo rinnegarono tutti immediatamente; negli stessi anni, il concilio di Trento ne conservò l’uso, a tutela della fede cattolica e come segno della continuità della Chiesa Romana con quella delle origini. Solo chi pensava che l’azione della Messa fosse comunitaria e assembleare (e non del Cristo tramite il sacerdote) poteva immaginare che fosse indispensabile una liturgia nella lingua dell’assemblea, diventata attore del rito. 

Nel concetto cattolico, i fedeli presenti non compiono un’azione, ma ne ricevono gli effetti: l’azione è del Cristo (con il sacerdote come strumento). L’indispensabilità del volgare deriva dal concetto di assemblea celebrante, introdotto dai protestanti e fatto proprio dal nuovo rito. Per questo il nuovo rito deve essere in volgare, non certo per una preoccupazione di comprensione (anche perché sennò sarebbe stata una traduzione, non una nuova costruzione).

Questi concetti della Tradizione e del sacerdozio e del ruolo “ricettivo” e non “attivo” del fedele li assorbe chi assiste alla “Messa in latino” senza che gli debbano essere spiegati: il fedele capisce cose importantissime non perché spiegate in lunghi discorsi, ma perché vissute nel modo in cui si svolge l’azione (non il discorso) rituale. Così il mantenimento di gesti e segni e abiti dell’antichità dà il senso della stabilità storica della Chiesa, che trasmette e non inventa: è linguaggio anche questo, più ricco del ripetere un qualche discorso in volgare, più profondo, più universale.

Quanto al voler comunque capire i testi della Messa, non c’è nulla di male, e molto prima del Concilio esistevano messalini bilingui che con l’alfabetizzazione erano nelle mani di tutti. Non sono né essenziali né necessari, ma se si vuole ottenere quanto la lettrice desidera, sono più che sufficienti, e non richiedono la rinuncia a un elemento così espressivo della fede cattolica quale è il latino (tra l’altro, la liturgia tradizionale, per come è concepita, tradotta in volgare sarebbe ridicola, irrilevante). Ma posso assicurare che i messalini bilingue, magari utili a chi assiste le prime volte alla Messa tradizionale, sono rapidamente superati da un atteggiamento interiore che coglie tutto l’insieme del rito e non solo le parole (che poi in gran parte si ripetono). Alla fine a parte leggerci magari le letture o qualche testo variabile, questi messalini non servono più a “seguire la Messa”: essa si segue, come facevano i nostri vecchi, riempiendo il calice dei nostri atti di fede, speranza e carità, atti interiori, che presuppongono la conoscenza dei misteri, che soli possono associare al sacrificio del Calvario (che non è un discorso ma è azione d’amore, che è più eloquente di qualsiasi discorso).

La Messa non è catechesi, non è conferenza, non è lezione, è molto di più sul piano soprannaturale e su quello naturale del linguaggio: è azione del Cristo sulle anime. Se si sa questo, come lo sapevano i nostri vecchi, si scoprirà che il latino non è una barriera, ma una parte del modo che la Chiesa ci dà di comprendere questi misteri. Non dobbiamo reinventare, ma piamente e amorosamente ricevere: da Cristo, dal sacerdozio, dai Padri che istituirono i riti, dalla Chiesa Romana che li conservò e definì.

Se uno ha vissuto un po’ in un paese protestante, saprà che i cattolici di una certa età erano abituati a difendere l’uso del latino contro le obiezioni dei loro compatrioti protestanti, e con fierezza ne difendevano le ragioni, imparando fin dal catechismo perché noi cattolici abbiamo una liturgia in una lingua unica, antica e romana. Quando dopo il Concilio i preti stessi che avevano insegnato loro perché si pregava in latino vennero a ripetere loro le obiezioni dei protestanti, molti rimasero sconvolti dal fatto che si potesse cambiare così idea su cose che erano state chiara parte dell’essere cattolici, in regioni dominate dall’odio antipapale.

Rimaniamo cattolici. Teniamo ciò che abbiamo ricevuto dai Padri, la Tradizione. Il latino ce lo fa capire. Questo è più importante di capire ogni singola formula pronunciata nella Messa (cosa che, con un po’ di formazione e un libro, si può fare lo stesso).

Un caro saluto

don Mauro Tranquillo, FSSPX








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