Ha preso il via a Roma l’annuale pellegrinaggio Summorum Pontificum, che comprende il convegno organizzato da Paix liturgique, con ospiti da tutto il mondo.
Nella sala convegni dell’Augustinianum, a due passi da piazza San Pietro, ha aperto i lavori il professor Rubén Peretó Rivas.
Alla presenza del cardinale Robert Sarah, l’abbé Claude Barthe ha sottolineato il valore della testimonianza. È stata poi la volta di monsignor Athanasius Schneider, il quale ha ricordato che la liturgia non può essere rivoluzionata se non al prezzo di rivoluzionare, e quindi perdere, anche la fede stessa.
L’autorità del papa – ha detto il vescovo Schneider – non è illimitata: è al servizio della Tradizione della Chiesa.
È seguita la testimonianza della storica Michela Di Mieri, collaboratrice di Duc in altum e autrice del libro Mi sono innamorata dell’eterno. Storia di un ritorno a casa (con prefazione di Aldo Maria Valli).
Propongo qui il testo della relazione della professoressa Di Mieri.
***
Dal “no pasaran” al “non praevalebunt”. La mia rivoluzione copernicana
di Michela Di Mieri
Buongiorno a tutti.
Innanzitutto, ringrazio il professor Peretó Rivas per avermi invitata e tutti voi, qui presenti, per la pazienza che esercitate nell’ascoltare una perfetta sconosciuta.
Come se non bastasse, vi chiedo ulteriore pazienza, se vi dovessi sembrare un po’ impacciata, ma in questo intervento non dovrò argomentare di questioni geopolitiche o di didattica del latino, bensì, metterò, come si suol dire, in piazza i miei affari personali; e parlare di sé in una dimensione pubblica, quando si è timidi, per giunta, o non ci si è lasciati ubriacare dal costume odierno di sciorinare le proprie faccende intime urbi et orbi, è ben faticoso. E allora, voi potreste obiettarmi che non me l’ha ordinato il dottore di salire quassù, né di scrivere il libello di cui sto per parlarvi. Verissimo. E infatti, quando sottoposi il testo incriminato al dottor Valli, nelle mie intenzioni c’era di lasciarlo anonimo. Della serie: ecco, io il mio dovere di testimonianza nei confronti del Creatore l’ho compiuto, la mia fatica è partorita, ora lascio lei a vivere di vita propria ad imperitura memoria per la posterità, e lascio me a tornare quieta e silente nel mio angolo di Bassa ad occuparmi dei miei amati cani abbandonati in un canile che sembra uscito da un girone infernale e del mio altrettanto amato latinorum. Ebbene, bonariamente ma fermamente, sono stata riportata all’ordine: le testimonianze devono portare un nome e un volto, il corpo dei quali si deve mettere in moto, affinché raggiungano il maggior numero possibile di persone, specie in tempi come i nostri, in cui se ne avverte un particolare bisogno. Altro che dottore. Parole sacrosante, che hanno colpito dritte nella coscienza; per cui, quando il professor Peretó Rivas mi ha contattata per venire qui a raccontarvi della mia rivoluzione copernicana, non ho potuto dire altro che “eccomi”, nonostante il brivido lungo la schiena generato dalla mia parte selvatica e la vertigine del non sentirmi degna. Me, proprio me, la Michela della Bassa e dei cani straccioni? Ma era sicuro? Sì, lo era. E a quanto pare lo era anche il Padreterno, quando mi ha presa per un orecchio e mi ha scaraventata giù dal pero di illusioni e miti in cui erravo e annaspavo, come un cieco nella via centrale di una megalopoli. Non sarò degna, ma obbedisco. Perché, di fatto, non è la mia persona la protagonista di questa storia: essa è solo un onoratissimo strumento della vera protagonista, ovvero la Divina Provvidenza, che si è presa la briga di palesarsi attraverso il mio incespicare qua e là alla ricerca di un senso compiuto capace di rendere ragione del dolore, dell’ingiustizia e della morte; e io voglio fortissimamente poterLa servire al di là della mia riottosa umanità, ovunque questo mio passaggio sulla terra possa renderle testimonianza. “Non nobis, Domine, sed nomini tuo da gloriam”. Ed è verissimo, quanto il fatto che il pino è verde, che Lui prevede e provvede ad ogni capello del nostro capo, perché ha tramato a mia totale insaputa, sin da quando ho emesso il primo vagito in questo mondo, perché il mio ritorno a casa è l’epilogo di un percorso che, a guardarlo con il senno di poi, segue un suo filo logico, in cui tutti gli avvenimenti, anche quelli più apparentemente banali, hanno concorso a farmi varcare la soglia di quella casa non dico perduta, ma del tutto sconosciuta; e lo ha fatto non solo esattamente nel momento giusto, non un attimo prima, né uno dopo, con una sapienza incredibile, ma anche in un modo tale da farmi scegliere se entrarvi in piena libertà e con convinta adesione.
È il milieu che fa la persona? In parte sicuramente. Questi i fatti e la mia terra emiliana.
Avevo dieci anni quando piansi sinceramente la morte del compagno Enrico Berlinguer (segretario del Partito comunista italiano dal 1972 al 1984). La mia nonna, il cui padre era stato partigiano nella brigata Stella Rossa, in quel di Marzabotto (tristemente famosa per via della strage compiuta dai nazisti tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre del 1944), mi ricordava sempre, ogni volta che compariva in tv, che lui era il suo amico, perché se lei aveva finalmente una casa, lo doveva a lui.
Ero poco più che una ragazzina quando iniziarono a morire amici e conoscenti per l’epidemia di eroina (cui seguì quella di Aids), o quando qualcuno spariva perché, causa rapina, spaccio, furto, estorsione o affini, era momentaneamente custodito alla Dozza, la prigione cittadina che porta il nome del più amato e compianto sindaco del dopoguerra. Perché il mio quartiere, alla periferia di Bologna, un postaccio malfamato, cresciuto come un fungo per ammassare gli sfollati dalle campagne e gli immigrati meridionali, come mio nonno paterno, era un ghetto in cui questa era la normalità.
Avevo quattordici anni quando mi sono iscritta al Liceo Classico e ventinove quando mi sono laureata in Storia. Un po’ molto fuori corso, ma avevo la rivoluzione sociale da fare, faccenda molto più urgente che portare a casa uno stupido, inutile e borghesissimo pezzo di carta. Anche perché, dalla quarta ginnasio all’ultimo esame dell’università, ho ininterrottamente approfondito, mia sponte, la mia formazione di compagna, i cui elementi sostanziali erano comunque già forniti dall’impostazione stessa della cultura per come ci veniva gramscianamente propinata. Noi, specie quelli come me, che da sempre sopportavamo a fatica l’immane ingiustizia che opprime il mondo e che avevamo un’indole militante, avremmo dovuto fungere da guida delle masse, nel processo rivoluzionario. Non sono comunista. Sono un’anarchica, innamorata di Bakunin, Malatesta, Proudhon, Emma Goldman, Stirner. Leggo “Umanità Nova”, il giornale della Fai (Federazione anarchica italiana), organizzo manifestazioni e cortei, scrivo volantini, mi becco qualche denuncia e qualche manganellata negli scontri di piazza con la polizia, partecipo alle occupazioni di immobili sfitti e semi abbandonati del Comune, alle assemblee del movimento anarchico, tengo un programma in una radio antagonista, attraverso i Centri Sociali giro l’Italia e anche un po’ d’Europa. Il mio modello sociale sono la Comune di Parigi o i villaggi liberati dai franchisti dai compagni del Poum (Partido obrero de unificacion marxista, partito marxista e dichiaratamente antistalinista) e della Cnt (Confederacion nacional del trabajo, un sindacato anarchico), durante la guerra civile spagnola. Poi, dopo il mio ritorno nel quartiere, divento responsabile culturale del Locale, un circolo aperto da un amico, entrato in galera come criminale comune per rapina e uscito compagno ortodosso marxista leninista. In quegli anni scrivo un libro su una partigiana che abitava nel mio quartiere, una specie di eroina per tutti noi, e questo mi apre le porte del mondo delle istituzioni locali, perché nella nostra terra la parola partigiano evoca tutto ciò che è buono e giusto e, se una neolaureata si prende la briga di scrivere la storia di una dirigente locale dell’Udi (Unione donne italiane; di fatto, la sezione femminista del Partito comunista italiano), si aprono le porte che contano; che io, però, decido di non varcare, perché sono un soldataccio di periferia, mi ripugna il gioco politico, il potere e la sua stessa costituzione. Insomma: socialismo o barbarie. “Né Dio, né stato, né servi, né padroni”. “Nostra patria è il mondo intero, nostra legge la libertà”, come recitano gli “Stornelli d’esilio” di Pietro Gori (avvocato e letterato anarchico dell’Ottocento).
Poi, ecco una serie di concomitanze che iniziano a riavvolgere il filo verso il ritorno a casa.
Succede che il mio amato fidanzato, alla soglia dei miei trent’anni, nel giro di poche ore, muore. E Marx non mi aiuta per niente a farmi una ragione di questa tragedia, a farmi capacitare che un uomo di neppure quarant’anni, appena riconquistato alla vita, finalmente vinto il drago dell’eroina, debba andarsene così, nel bel mezzo del suo riscatto. E non so dove sbattere la testa. La psicoterapia, come ovvio, ma oltre a qualche pastiglina e goccina, oltre a benedire il mio inveterato ed ovattante costume di concludere le mie giornate con il rito dello spinello serale, non può fare. Mi spingo a guardare a Oriente. Tante mie amiche trovano la serenità recitando i mantra tibetani o praticando lo yoga, ma io sono troppo occidentale per acquietarmi nella posizione del Loto. E succede che inizio a insegnare italiano a stranieri, business alquanto redditizio, della cui enorme torta beneficio io pure di qualche briciola (devo pur campare), e mi trovo circondata da islamici orgogliosissimi dei loro costumi, fedeli alle loro tradizioni, attaccatissimi al loro Maometto. Tutta roba che per me è semplicemente fantascienza, perché per me e quelli come me il mondo diventa realtà solo dal secolo dei Lumi in poi: tutto quel che viene prima è buono solo per vecchie teche impolverate. Però non posso non notare che tutto ciò stride tantissimo con noi, proprio noi che ci facciamo paladini di queste masse umane sbarcate in Europa, noi che, invece, sottoponiamo il nostro passato collettivo ad una critica impietosa, fustigandoci in mea culpa e abiure degne della peggiore tanto esecrata Inquisizione. E, ultimo colpo al mio castello di certezze, succede che, a forza di studiare la Storia, capisco con mio sommo sconforto, ma con onestà intellettuale, che non c’è struttura economica che tenga, che la giustizia e la felicità, l’uguaglianza e la libertà non si realizzeranno mai, perché il problema non è tanto il feudalesimo o il capitalismo, o che per lo meno, non si esaurisce in questi, ma sono costretta a concludere desolatamente che è proprio homo sapiens, per una sorta di caratteristica strutturale, genetica forse, ma ineludibile. Non mi rimane che soffiare sulla polvere della teca, più per disperazione che per altro: se dopo mille milia anni ci propinano ancora gli antichi, ci sarà pure un motivo. E ritrovo Omero, Tacito, Seneca, Dante, di cui non avevo mai veramente capito l’insegnamento, al di là delle figure retoriche e della lotta tra guelfi e ghibellini, e, inevitabilmente, il latino, quella lingua da me terribilmente odiata e temuta, inutile e vagamente fascista. Ed ecco che, un pomeriggio d’estate di dieci anni fa, mi imbatto, mentre giravo oziosamente per il mondo di internet, nella notizia che esiste una Messa in latino, e non solo in lingua latina, ma vecchio stile, uguale a quella che avevo intravisto sui film di don Camillo (il personaggio nato dalla penna di Giovannino Guareschi, da cui sono stati tratti dei film), con il prete rivolto di spalle alla gente. Nei giorni seguenti, guardo le foto, scopro siti, blog, video, leggo articoli, e rimango stupita dell’esistenza di un mondo tanto complesso, strutturato, ma, soprattutto, bello: tutte le immagini che vedo mi attraggono per una bellezza a me sconosciuta, che mi rimanda ad un’atemporalità e ad una ieraticità che non immaginavo potessero ancora esistere in Occidente. E dunque, incuriosita, una calda domenica di luglio vado a una celebrazione nella mia città. Ebbene, da quel giorno non ho più smesso, e, a tutt’oggi, mi è necessaria come l’aria che respiro. È avvenuto tutto molto semplicemente, senza che io dovessi fare null’altro che lasciarmi guidare dalla Messa e da quello che, domenica dopo domenica, mi insegnava e mi lasciava scoprire. Ero tornata a casa. Non sapevo quando ci fossi mai stata o quando me ne fossi allontanata, ma sapevo di esserci arrivata. Perché lì, ad incantarmi osservando don Tiziano sollevare il calice al suono di un campanello in un silenzio tombale, in ginocchio, in una chiesa in cui tutto richiamava alterità dal profano e immergeva nella bellezza, io stavo bene e mi cibavo di sicurezza, di meraviglia, di luce e stabilità. Nulla è stato più come prima, perché davvero la mia anima e la mia mente sono state dissodate, arate, seminate di un Verbo nuovo e vero, non facile, anzi, la cui aderenza mi è costato, mi costa e mi costerà a tratti sacrifici che non saprei sorreggere con le mie sole forze, e la metanoia, la rivoluzione copernicana, domenica dopo domenica, ha compiuto il suo giro. Da donna occidentale, femminista, fieramente autodeterminata, sono lietamente una creatura femminile eterodeterminata da un Creatore infinitamente più saggio di me. Ma allora, mi si potrebbe dire che ciò sarebbe potuto benissimo accadere anche con la Messa novus ordo. Ecco, lungi da me l’idea di rubare il mestiere agli illustri personaggi che sono seduti a questo tavolo e che sono senz’altro molto più competenti di me in teologia, liturgia, dottrina, storia ecclesiastica eccetera, però, mi sento di poter affermare una cosa con sicurezza, perché sperimentata, quindi è un fatto. Il filosofo, il benemerito Aristotele, tra le tante, diceva che la realtà consta di forma e di sostanza. Ora, noi umani non siamo intelligenze angeliche, ma, imprigionati nella dimensione della materia, quanto a percezione sensibile della realtà, abbiamo bisogno di avvalerci della forma, per riuscire a carpire la sostanza. La Bellezza, quella con la B maiuscola, quella che l’immenso Dostoevskij diceva che avrebbe salvato il mondo, è il mezzo principe, affinché la forma ci rimandi alla sostanza. Uno potrebbe ribattere, allora: “Va be’, ma tu hai fatto determinati studi, hai una certa propensione e sensibilità dell’animo, ed è perciò che riesci a codificare questo nesso”. Innanzitutto, non è vero, Perché io, all’inizio, non capivo proprio un bel nulla: ci ho messo una buona manciata di mesi per riuscire ad intellettualizzare, a rendermi consapevole dei segni e dei simboli. Ma nondimeno, quel che mi ha fatta rimanere, e che dunque ha permesso questo lento processo di comprensione, è stata la Bellezza, che placava in primis una fame viscerale. Poi, rispondo con un caso concreto, un fatto. Mio marito è un gommista. Non ha mai studiato latino in vita sua, non sa nulla di arte o di estetica, né mastica cognizioni filosofiche o teologiche. Tutto questo sapere è lontano anni luce dalla sua forma mentis, eminentemente pratica e concretissima. Quando gli chiedo perché lui, dalla mia conversione in poi, venga alla Messa di sempre, scomoda per orari e luoghi, lui risponde semplicemente che è più bella. E questo dovrebbe bastare a redimere le arzigogolature, in quanto dimostra che la bellezza è una categoria inerente a qualsiasi essere umano, la cui percettibilità ci differenzia da tutti gli altri animali. E a tutto ciò, contribuisce anche l’uso del latino, la nostra lingua sacra, atemporale, veramente cattolica.
Non è cambiata la mia abitudine ad essere in guerra, è cambiata la guerra. Che ha tre fronti, uno più insidioso dell’altro. Il primo è interno. È la guerra dello spirito contro le possenti forze ctonie, imbizzarrite per la tema di lasciarsi sfuggire un’anima. Il secondo è esterno, tra una mens christiana del concepire la vita e il mondo e il nostro Occidente contemporaneo, che poggia su presupposti radicalmente antitetici e, a mio umilissimo avviso ed esperienza, non conciliabili. E fin qui, tutto sommato, nulla di nuovo o di strano per un cristiano. Ma è il terzo fronte quello maggiormente cruento, tanto da lasciarmi esterrefatta nel momento in cui ne ho scoperto l’esistenza. Perché mai mi sarei immaginata, da soldato semplicissimo quale sono, che i vertici della Chiesa latina muovessero una guerra alla venerabile Tradizione che l’ha traghettata dal crepuscolo dell’Impero romano fino agli anni Sessanta dello scorso secolo. Senza voler entrare in un ginepraio spinosissimo, è però innegabile che, eliminando de facto la liturgia tradizionale dall’orizzonte delle possibilità, si sia arbitrariamente e proditoriamente sottratto alle genti un loro diritto di battezzati, ma anche di uomini, perché la Messa di sempre è anche un’opera della cultura e dell’arte, come ben avevano capito i firmatari, non necessariamente cattolici, del cosiddetto indulto di Agatha Christie. Nel mio piccolissimo, racconto della Messa antica, della nostra Tradizione, ogni volta che me ne si presenta l’occasione, e invito a venire e a vedere, e a conoscere il tesoro, tutte le persone che mi stanno intorno: dai volontari del canile, per lo più atei o antispecisti, al massimo filo buddisti o cattolici sbiaditi, agli studenti, mediamente indifferenti al trascendente, magari cattolici per tradizione o persino frequentanti la parrocchia, ma completamente all’oscuro di cosa sia, ad esempio, un canto gregoriano. Perché, come la mia vicenda personale dimostra, la nostra Liturgia, da sé stessa, può essere il grimaldello per aprire la breccia nell’animo tutto immanente e centrato sul proprio ombelico tipico dei nostri tempi, così da permettere alla Grazia di educare un’anima cristiana, purché si abbia la pazienza e l’umiltà di lasciarsi plasmare dalla pedagogia divina.
In conclusione, desidero salutarvi con una riflessione. I guerriglieri del Poum, durante la guerra civile di Spagna, usavano darsi coraggio dicendo “No pasaran”. Bene, io declino ora per tutti noi in linguaggio cattolico questo sprone, che è promessa del Salvatore: “Non praevalebunt”, nonostante tutto. Forse a noi è richiesto di tenere la posizione, di salvare il seme in attesa che l’ubriacatura modernista passi, perché la Verità prima o poi trionfa su tutte le carabattole umane; e questo è un fatto, oltre che di Fede, di evidenza storica. Grazie ancora, che l’Onnipotente ci benedica e buon proseguimento.
Buongiorno a tutti.
Innanzitutto, ringrazio il professor Peretó Rivas per avermi invitata e tutti voi, qui presenti, per la pazienza che esercitate nell’ascoltare una perfetta sconosciuta.
Come se non bastasse, vi chiedo ulteriore pazienza, se vi dovessi sembrare un po’ impacciata, ma in questo intervento non dovrò argomentare di questioni geopolitiche o di didattica del latino, bensì, metterò, come si suol dire, in piazza i miei affari personali; e parlare di sé in una dimensione pubblica, quando si è timidi, per giunta, o non ci si è lasciati ubriacare dal costume odierno di sciorinare le proprie faccende intime urbi et orbi, è ben faticoso. E allora, voi potreste obiettarmi che non me l’ha ordinato il dottore di salire quassù, né di scrivere il libello di cui sto per parlarvi. Verissimo. E infatti, quando sottoposi il testo incriminato al dottor Valli, nelle mie intenzioni c’era di lasciarlo anonimo. Della serie: ecco, io il mio dovere di testimonianza nei confronti del Creatore l’ho compiuto, la mia fatica è partorita, ora lascio lei a vivere di vita propria ad imperitura memoria per la posterità, e lascio me a tornare quieta e silente nel mio angolo di Bassa ad occuparmi dei miei amati cani abbandonati in un canile che sembra uscito da un girone infernale e del mio altrettanto amato latinorum. Ebbene, bonariamente ma fermamente, sono stata riportata all’ordine: le testimonianze devono portare un nome e un volto, il corpo dei quali si deve mettere in moto, affinché raggiungano il maggior numero possibile di persone, specie in tempi come i nostri, in cui se ne avverte un particolare bisogno. Altro che dottore. Parole sacrosante, che hanno colpito dritte nella coscienza; per cui, quando il professor Peretó Rivas mi ha contattata per venire qui a raccontarvi della mia rivoluzione copernicana, non ho potuto dire altro che “eccomi”, nonostante il brivido lungo la schiena generato dalla mia parte selvatica e la vertigine del non sentirmi degna. Me, proprio me, la Michela della Bassa e dei cani straccioni? Ma era sicuro? Sì, lo era. E a quanto pare lo era anche il Padreterno, quando mi ha presa per un orecchio e mi ha scaraventata giù dal pero di illusioni e miti in cui erravo e annaspavo, come un cieco nella via centrale di una megalopoli. Non sarò degna, ma obbedisco. Perché, di fatto, non è la mia persona la protagonista di questa storia: essa è solo un onoratissimo strumento della vera protagonista, ovvero la Divina Provvidenza, che si è presa la briga di palesarsi attraverso il mio incespicare qua e là alla ricerca di un senso compiuto capace di rendere ragione del dolore, dell’ingiustizia e della morte; e io voglio fortissimamente poterLa servire al di là della mia riottosa umanità, ovunque questo mio passaggio sulla terra possa renderle testimonianza. “Non nobis, Domine, sed nomini tuo da gloriam”. Ed è verissimo, quanto il fatto che il pino è verde, che Lui prevede e provvede ad ogni capello del nostro capo, perché ha tramato a mia totale insaputa, sin da quando ho emesso il primo vagito in questo mondo, perché il mio ritorno a casa è l’epilogo di un percorso che, a guardarlo con il senno di poi, segue un suo filo logico, in cui tutti gli avvenimenti, anche quelli più apparentemente banali, hanno concorso a farmi varcare la soglia di quella casa non dico perduta, ma del tutto sconosciuta; e lo ha fatto non solo esattamente nel momento giusto, non un attimo prima, né uno dopo, con una sapienza incredibile, ma anche in un modo tale da farmi scegliere se entrarvi in piena libertà e con convinta adesione.
È il milieu che fa la persona? In parte sicuramente. Questi i fatti e la mia terra emiliana.
Avevo dieci anni quando piansi sinceramente la morte del compagno Enrico Berlinguer (segretario del Partito comunista italiano dal 1972 al 1984). La mia nonna, il cui padre era stato partigiano nella brigata Stella Rossa, in quel di Marzabotto (tristemente famosa per via della strage compiuta dai nazisti tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre del 1944), mi ricordava sempre, ogni volta che compariva in tv, che lui era il suo amico, perché se lei aveva finalmente una casa, lo doveva a lui.
Ero poco più che una ragazzina quando iniziarono a morire amici e conoscenti per l’epidemia di eroina (cui seguì quella di Aids), o quando qualcuno spariva perché, causa rapina, spaccio, furto, estorsione o affini, era momentaneamente custodito alla Dozza, la prigione cittadina che porta il nome del più amato e compianto sindaco del dopoguerra. Perché il mio quartiere, alla periferia di Bologna, un postaccio malfamato, cresciuto come un fungo per ammassare gli sfollati dalle campagne e gli immigrati meridionali, come mio nonno paterno, era un ghetto in cui questa era la normalità.
Avevo quattordici anni quando mi sono iscritta al Liceo Classico e ventinove quando mi sono laureata in Storia. Un po’ molto fuori corso, ma avevo la rivoluzione sociale da fare, faccenda molto più urgente che portare a casa uno stupido, inutile e borghesissimo pezzo di carta. Anche perché, dalla quarta ginnasio all’ultimo esame dell’università, ho ininterrottamente approfondito, mia sponte, la mia formazione di compagna, i cui elementi sostanziali erano comunque già forniti dall’impostazione stessa della cultura per come ci veniva gramscianamente propinata. Noi, specie quelli come me, che da sempre sopportavamo a fatica l’immane ingiustizia che opprime il mondo e che avevamo un’indole militante, avremmo dovuto fungere da guida delle masse, nel processo rivoluzionario. Non sono comunista. Sono un’anarchica, innamorata di Bakunin, Malatesta, Proudhon, Emma Goldman, Stirner. Leggo “Umanità Nova”, il giornale della Fai (Federazione anarchica italiana), organizzo manifestazioni e cortei, scrivo volantini, mi becco qualche denuncia e qualche manganellata negli scontri di piazza con la polizia, partecipo alle occupazioni di immobili sfitti e semi abbandonati del Comune, alle assemblee del movimento anarchico, tengo un programma in una radio antagonista, attraverso i Centri Sociali giro l’Italia e anche un po’ d’Europa. Il mio modello sociale sono la Comune di Parigi o i villaggi liberati dai franchisti dai compagni del Poum (Partido obrero de unificacion marxista, partito marxista e dichiaratamente antistalinista) e della Cnt (Confederacion nacional del trabajo, un sindacato anarchico), durante la guerra civile spagnola. Poi, dopo il mio ritorno nel quartiere, divento responsabile culturale del Locale, un circolo aperto da un amico, entrato in galera come criminale comune per rapina e uscito compagno ortodosso marxista leninista. In quegli anni scrivo un libro su una partigiana che abitava nel mio quartiere, una specie di eroina per tutti noi, e questo mi apre le porte del mondo delle istituzioni locali, perché nella nostra terra la parola partigiano evoca tutto ciò che è buono e giusto e, se una neolaureata si prende la briga di scrivere la storia di una dirigente locale dell’Udi (Unione donne italiane; di fatto, la sezione femminista del Partito comunista italiano), si aprono le porte che contano; che io, però, decido di non varcare, perché sono un soldataccio di periferia, mi ripugna il gioco politico, il potere e la sua stessa costituzione. Insomma: socialismo o barbarie. “Né Dio, né stato, né servi, né padroni”. “Nostra patria è il mondo intero, nostra legge la libertà”, come recitano gli “Stornelli d’esilio” di Pietro Gori (avvocato e letterato anarchico dell’Ottocento).
Poi, ecco una serie di concomitanze che iniziano a riavvolgere il filo verso il ritorno a casa.
Succede che il mio amato fidanzato, alla soglia dei miei trent’anni, nel giro di poche ore, muore. E Marx non mi aiuta per niente a farmi una ragione di questa tragedia, a farmi capacitare che un uomo di neppure quarant’anni, appena riconquistato alla vita, finalmente vinto il drago dell’eroina, debba andarsene così, nel bel mezzo del suo riscatto. E non so dove sbattere la testa. La psicoterapia, come ovvio, ma oltre a qualche pastiglina e goccina, oltre a benedire il mio inveterato ed ovattante costume di concludere le mie giornate con il rito dello spinello serale, non può fare. Mi spingo a guardare a Oriente. Tante mie amiche trovano la serenità recitando i mantra tibetani o praticando lo yoga, ma io sono troppo occidentale per acquietarmi nella posizione del Loto. E succede che inizio a insegnare italiano a stranieri, business alquanto redditizio, della cui enorme torta beneficio io pure di qualche briciola (devo pur campare), e mi trovo circondata da islamici orgogliosissimi dei loro costumi, fedeli alle loro tradizioni, attaccatissimi al loro Maometto. Tutta roba che per me è semplicemente fantascienza, perché per me e quelli come me il mondo diventa realtà solo dal secolo dei Lumi in poi: tutto quel che viene prima è buono solo per vecchie teche impolverate. Però non posso non notare che tutto ciò stride tantissimo con noi, proprio noi che ci facciamo paladini di queste masse umane sbarcate in Europa, noi che, invece, sottoponiamo il nostro passato collettivo ad una critica impietosa, fustigandoci in mea culpa e abiure degne della peggiore tanto esecrata Inquisizione. E, ultimo colpo al mio castello di certezze, succede che, a forza di studiare la Storia, capisco con mio sommo sconforto, ma con onestà intellettuale, che non c’è struttura economica che tenga, che la giustizia e la felicità, l’uguaglianza e la libertà non si realizzeranno mai, perché il problema non è tanto il feudalesimo o il capitalismo, o che per lo meno, non si esaurisce in questi, ma sono costretta a concludere desolatamente che è proprio homo sapiens, per una sorta di caratteristica strutturale, genetica forse, ma ineludibile. Non mi rimane che soffiare sulla polvere della teca, più per disperazione che per altro: se dopo mille milia anni ci propinano ancora gli antichi, ci sarà pure un motivo. E ritrovo Omero, Tacito, Seneca, Dante, di cui non avevo mai veramente capito l’insegnamento, al di là delle figure retoriche e della lotta tra guelfi e ghibellini, e, inevitabilmente, il latino, quella lingua da me terribilmente odiata e temuta, inutile e vagamente fascista. Ed ecco che, un pomeriggio d’estate di dieci anni fa, mi imbatto, mentre giravo oziosamente per il mondo di internet, nella notizia che esiste una Messa in latino, e non solo in lingua latina, ma vecchio stile, uguale a quella che avevo intravisto sui film di don Camillo (il personaggio nato dalla penna di Giovannino Guareschi, da cui sono stati tratti dei film), con il prete rivolto di spalle alla gente. Nei giorni seguenti, guardo le foto, scopro siti, blog, video, leggo articoli, e rimango stupita dell’esistenza di un mondo tanto complesso, strutturato, ma, soprattutto, bello: tutte le immagini che vedo mi attraggono per una bellezza a me sconosciuta, che mi rimanda ad un’atemporalità e ad una ieraticità che non immaginavo potessero ancora esistere in Occidente. E dunque, incuriosita, una calda domenica di luglio vado a una celebrazione nella mia città. Ebbene, da quel giorno non ho più smesso, e, a tutt’oggi, mi è necessaria come l’aria che respiro. È avvenuto tutto molto semplicemente, senza che io dovessi fare null’altro che lasciarmi guidare dalla Messa e da quello che, domenica dopo domenica, mi insegnava e mi lasciava scoprire. Ero tornata a casa. Non sapevo quando ci fossi mai stata o quando me ne fossi allontanata, ma sapevo di esserci arrivata. Perché lì, ad incantarmi osservando don Tiziano sollevare il calice al suono di un campanello in un silenzio tombale, in ginocchio, in una chiesa in cui tutto richiamava alterità dal profano e immergeva nella bellezza, io stavo bene e mi cibavo di sicurezza, di meraviglia, di luce e stabilità. Nulla è stato più come prima, perché davvero la mia anima e la mia mente sono state dissodate, arate, seminate di un Verbo nuovo e vero, non facile, anzi, la cui aderenza mi è costato, mi costa e mi costerà a tratti sacrifici che non saprei sorreggere con le mie sole forze, e la metanoia, la rivoluzione copernicana, domenica dopo domenica, ha compiuto il suo giro. Da donna occidentale, femminista, fieramente autodeterminata, sono lietamente una creatura femminile eterodeterminata da un Creatore infinitamente più saggio di me. Ma allora, mi si potrebbe dire che ciò sarebbe potuto benissimo accadere anche con la Messa novus ordo. Ecco, lungi da me l’idea di rubare il mestiere agli illustri personaggi che sono seduti a questo tavolo e che sono senz’altro molto più competenti di me in teologia, liturgia, dottrina, storia ecclesiastica eccetera, però, mi sento di poter affermare una cosa con sicurezza, perché sperimentata, quindi è un fatto. Il filosofo, il benemerito Aristotele, tra le tante, diceva che la realtà consta di forma e di sostanza. Ora, noi umani non siamo intelligenze angeliche, ma, imprigionati nella dimensione della materia, quanto a percezione sensibile della realtà, abbiamo bisogno di avvalerci della forma, per riuscire a carpire la sostanza. La Bellezza, quella con la B maiuscola, quella che l’immenso Dostoevskij diceva che avrebbe salvato il mondo, è il mezzo principe, affinché la forma ci rimandi alla sostanza. Uno potrebbe ribattere, allora: “Va be’, ma tu hai fatto determinati studi, hai una certa propensione e sensibilità dell’animo, ed è perciò che riesci a codificare questo nesso”. Innanzitutto, non è vero, Perché io, all’inizio, non capivo proprio un bel nulla: ci ho messo una buona manciata di mesi per riuscire ad intellettualizzare, a rendermi consapevole dei segni e dei simboli. Ma nondimeno, quel che mi ha fatta rimanere, e che dunque ha permesso questo lento processo di comprensione, è stata la Bellezza, che placava in primis una fame viscerale. Poi, rispondo con un caso concreto, un fatto. Mio marito è un gommista. Non ha mai studiato latino in vita sua, non sa nulla di arte o di estetica, né mastica cognizioni filosofiche o teologiche. Tutto questo sapere è lontano anni luce dalla sua forma mentis, eminentemente pratica e concretissima. Quando gli chiedo perché lui, dalla mia conversione in poi, venga alla Messa di sempre, scomoda per orari e luoghi, lui risponde semplicemente che è più bella. E questo dovrebbe bastare a redimere le arzigogolature, in quanto dimostra che la bellezza è una categoria inerente a qualsiasi essere umano, la cui percettibilità ci differenzia da tutti gli altri animali. E a tutto ciò, contribuisce anche l’uso del latino, la nostra lingua sacra, atemporale, veramente cattolica.
Non è cambiata la mia abitudine ad essere in guerra, è cambiata la guerra. Che ha tre fronti, uno più insidioso dell’altro. Il primo è interno. È la guerra dello spirito contro le possenti forze ctonie, imbizzarrite per la tema di lasciarsi sfuggire un’anima. Il secondo è esterno, tra una mens christiana del concepire la vita e il mondo e il nostro Occidente contemporaneo, che poggia su presupposti radicalmente antitetici e, a mio umilissimo avviso ed esperienza, non conciliabili. E fin qui, tutto sommato, nulla di nuovo o di strano per un cristiano. Ma è il terzo fronte quello maggiormente cruento, tanto da lasciarmi esterrefatta nel momento in cui ne ho scoperto l’esistenza. Perché mai mi sarei immaginata, da soldato semplicissimo quale sono, che i vertici della Chiesa latina muovessero una guerra alla venerabile Tradizione che l’ha traghettata dal crepuscolo dell’Impero romano fino agli anni Sessanta dello scorso secolo. Senza voler entrare in un ginepraio spinosissimo, è però innegabile che, eliminando de facto la liturgia tradizionale dall’orizzonte delle possibilità, si sia arbitrariamente e proditoriamente sottratto alle genti un loro diritto di battezzati, ma anche di uomini, perché la Messa di sempre è anche un’opera della cultura e dell’arte, come ben avevano capito i firmatari, non necessariamente cattolici, del cosiddetto indulto di Agatha Christie. Nel mio piccolissimo, racconto della Messa antica, della nostra Tradizione, ogni volta che me ne si presenta l’occasione, e invito a venire e a vedere, e a conoscere il tesoro, tutte le persone che mi stanno intorno: dai volontari del canile, per lo più atei o antispecisti, al massimo filo buddisti o cattolici sbiaditi, agli studenti, mediamente indifferenti al trascendente, magari cattolici per tradizione o persino frequentanti la parrocchia, ma completamente all’oscuro di cosa sia, ad esempio, un canto gregoriano. Perché, come la mia vicenda personale dimostra, la nostra Liturgia, da sé stessa, può essere il grimaldello per aprire la breccia nell’animo tutto immanente e centrato sul proprio ombelico tipico dei nostri tempi, così da permettere alla Grazia di educare un’anima cristiana, purché si abbia la pazienza e l’umiltà di lasciarsi plasmare dalla pedagogia divina.
In conclusione, desidero salutarvi con una riflessione. I guerriglieri del Poum, durante la guerra civile di Spagna, usavano darsi coraggio dicendo “No pasaran”. Bene, io declino ora per tutti noi in linguaggio cattolico questo sprone, che è promessa del Salvatore: “Non praevalebunt”, nonostante tutto. Forse a noi è richiesto di tenere la posizione, di salvare il seme in attesa che l’ubriacatura modernista passi, perché la Verità prima o poi trionfa su tutte le carabattole umane; e questo è un fatto, oltre che di Fede, di evidenza storica. Grazie ancora, che l’Onnipotente ci benedica e buon proseguimento.
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