Stefano Fontana, 30-10-2023
Sabato scorso è stata resa nota la Relazione finale della sessione del Sinodo sulla sinodalità svoltosi durante il mese di ottobre. Il cardinale Hollerich, relatore generale del Sinodo, e il cardinale Grech, segretario generale, hanno presentato il testo in conferenza stampa, ove si sono sentiti in dovere di precisare che «non era stato preparato prima». Come è noto, questo Sinodo si svolge in due fasi, quella appena celebrata e ora conclusa e quella in programma nell’ottobre 2024. La prima, dopo la fase di ascolto del biennio precedente, doveva trovare una convergenza dei sinodali sui principali aspetti della vita della Chiesa, indicare le questioni ancora aperte e da approfondire e, infine, fare delle proposte. Da qui, e da quanto maturerà durante l’anno prossimo, prenderà le mosse la seconda sessione.
Il testo della Relazione è molto lungo e ogni punto viene esposto nei tre momenti delle “convergenze”, delle “questioni da affrontare” e delle “proposte”. Sono stati anche resi noti i risultati delle votazioni per ognuno di questi punti. Nonostante questa sua ampiezza è possibile darne una prima valutazione sintetica.
Innanzitutto, c’è stata la conferma che trattare della Chiesa come sinodalità comporta riconsiderare tutti gli aspetti della natura e della vita della Chiesa. I temi trattati hanno la stessa estensione e profondità di quelli all’ordine del giorno di un Concilio come il Vaticano II. La lettura della Relazione giustifica le preoccupazioni di quanti temevano che la logica di questo Sinodo conducesse a cambiamenti radicali non solo pastorali ma anche dottrinali.
Ora, questi cambiamenti ci sono stati? Certamente qualcuno se li aspettava. Se li aspettavano i progressisti radicali, secondo i quali il Sinodo aveva già fallito in partenza in quando troppo indeciso e timoroso. Dal fronte opposto anche alcuni oppositori del Sinodo si aspettavano dichiarazioni dirompenti. Hanno avuto invece ragione quanti, come noi, avevano previsto che questa sessione sinodale sarebbe stata un processo nel processo, guidata per non chiudere il percorso e porre i presupposti per farlo maturare. Con ciò non si vuol dire che sia stato abbandonato il processo rivoluzionario, ma solo che questo viene inteso, appunto, come un processo dialettico, lungo e articolato che va pazientemente gestito per tappe.
Leggendo la Relazione, si vede benissimo che essa tiene aperte tutte le porte e non solo perché il compito di questa fase transitoria non era di chiuderle, ma perché ci sono nuove acquisizioni su cui far crescere la “condivisione” sia dentro i partecipanti al Sinodo sia fuori e poi, solo poi, eventualmente si chiuderà qualche porta.
A proposito del diaconato femminile, per esempio, la Relazione non dice né che non si può concedere né che si può fare. Dice che «occorre adattare il diritto canonico» per «garantire che le donne possano partecipare ai processi decisionali e assumere ruoli di responsabilità nella pastorale e nei ministeri». Poi afferma che è auspicabile una maggiore creatività nella istituzione dei ministeri, per esempio si potrebbe istituire il «ministero della Parola di Dio» con la possibilità della predicazione anche per le donne. Quindi chiede una nuova riflessione sul diaconato «in sé» e non solo come prima fase del sacerdozio, sostenendo che «una più approfondita riflessione a riguardo consentirà di illuminare anche la questione dell’accesso delle donne al diaconato». Infine, chiede espressamente che «si prosegua la ricerca teologica e pastorale sull’accesso delle donne al diaconato». Non si dice, ma si mettono le basi per cui si possa dire in futuro, spingendo in questo modo la prassi a preparare il terreno.
La necessità di esaminare le implicazioni canonistiche dei cambiamenti proposti, necessità che viene ripetutamente segnalata dalla Relazione, ci dice che l’intento è di dare alla Chiesa una nuova struttura e non solo di suggerire qualche nuovo atteggiamento pastorale. Un tema che la Relazione ritiene necessario approfondire è lo statuto teologico e canonico delle Conferenze episcopali: «Consideriamo necessario un ulteriore approfondimento della natura dottrinale e giuridica delle Conferenze Episcopali, riconoscendo la possibilità di un’azione collegiale anche rispetto a questioni di dottrina che emergono in ambito locale, riaprendo così la riflessione sul motu proprio Apostolos suos». La Relazione, infatti, ritiene che la nuova sinodalità debba promuovere forme di decentramento e istanze intermedie. Anche qui si prepara il terreno a fondamentai cambiamenti strutturali.
Con il loro voto i sinodali hanno a grande maggioranza approvato tutti i punti della Relazione. Qualche contrario solo in ambiti delicati come il diaconato femminile. La cosa si può spiegare ricordando che i lavori del Sinodo sono stati “guidati” direttamente e indirettamente a partire dalle nomine fino ad arrivare al ruolo dei “facilitatori”, e che i testi da approvare preparavano sì un terreno ma non lo dichiaravano espressamente. Inoltre, non è mai emersa in tutta la discussione sinodale qualche osservazione critica rispetto alla Chiesa conciliare e postconciliare sicché tutti si sono sentiti rassicurati di essere sulla buona strada e in continuità con la tradizione.
Non bisogna con ciò credere che la funzione di questo sinodo consistesse solo nel dire o non dire alcune cose. Esso è servito a gettare sassi nello stagno, come più volte Francesco si è espresso, smuovere le acque, sparigliare le carte, acuire i contrasti senza farli esplodere per poi esercitare su questi un potere di moderazione e di indirizzo. Approfittando della fase sinodale, Francesco ha incontrato suor Jannine Gramik e Marianne Duddy-Burke, direttrice pro-transgender di DignityUSA. Ha anche detto no al diaconato femminile, ma senza bloccare una possibile nuova configurazione del diaconato in futuro. Anche il cardinale Schönborn ha approfittato del clima sinodale per affermare la possibilità di cambiare il Catechismo sull’omosessualità così come è stato fatto per la pena di morte. Sul fronte opposto, altri vescovi oltre a Schneider e Strikland hanno colto l’occasione per far sentire la propria voce, come l’olandese Rob Mutsaerts («lo Spirito Santo non ha niente a che fare con tutto ciò») o l’australiano Anthony Fisher («Se una proposta è radicalmente in contrasto con il Vangelo, allora non viene dallo Spirito Santo»). Senza Sinodo queste posizioni non sarebbero emerse. La nuova sinodalità è un processo dialettico, il Sinodo serve anche a far emergere tensioni e contraddizioni e per un pontefice hegeliano è in questa prassi che si deve lavorare per far nascere una sintesi, anche se sempre aperta.
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