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by Aldo Maria Valli
Per gentile concessione dell’editore, proponiamo l’articolo di Paolo Gulisano pubblicato nel nuovo fascicolo (n. 6) della rivista Visione dedicato al tema Tempo di rivoluzione.
***
di Paolo Gulisano
La storia dell’Europa è stata dolorosamente percorsa da tante immani tragedie, specie nel secolo appena trascorso, risultato non solo dei diversi totalitarismi, ma soprattutto del clima ideologico determinato dai sogni (sarebbe meglio dire incubi) della ragione, che ha voluto violentare la natura e l’uomo in forza delle pretese dell’utopia e delle sue realizzazioni pratiche. Reiterati tentativi di costruire, oltre che nuove società, “uomini nuovi”.
Questi tentativi hanno tutti lasciato una spaventosa scia di sangue. L’origine può essere individuata nella Rivoluzione francese, madre di tutte le rivoluzioni.
La Revolutiòn ha sempre goduto di ottima (e immeritata) fama, di vasta pubblicistica e di una stampa favorevole. Da est a ovest, è stata presentata come il riscatto degli oppressi contro una società ancora pressoché feudale, come l’avanzare della modernità e del progresso. In realtà rappresentò l’affermarsi di un tentativo oligarchico di conquistare e reggere il potere ai danni degli stessi poveri.
La Rivoluzione francese fa parte, a buon diritto, della schiera degli “esperimenti” palingenetici, già iniziati nel corso dell’Umanesimo e dell’epoca delle Riforme, e analogamente agli altri scatenò la furia rabbiosa della persecuzione contro la religione, contro ciò che costituiva l’anima del popolo, il tessuto connettivo e il fondamento stesso dell’ordine civile e umano.
Uno dei giudizi più lucidi e appropriati sulla Rivoluzione francese fu espresso nel 1993 dal grande intellettuale russo Aleksandr Solženicyn, protagonista dell’eroica stagione del Dissenso, ossia il movimento culturale, civile e religioso che nell’ex Unione Sovietica si era opposto – pagando col campo di concentramento, con la tortura e la morte – alla dittatura comunista. Commemorando le migliaia di vittime della Rivoluzione francese, che sarebbe stata poi il modello per altre rivoluzioni ancor più sanguinarie che avrebbero in seguito funestato il mondo, compresa quella che aveva annientato il suo Paese, Solženicyn disse:
Gli accadimenti storici non sono mai compresi pienamente nell’incandescenza delle passioni che li accompagnano, ma a una discreta distanza, quando vengono raffreddate dal tempo.
Per molto tempo si è rifiutato di ascoltare e di accettare quanto era stato gridato dalla bocca di coloro che morivano, che venivano bruciati vivi: i contadini di una terra laboriosa, per i quali sembrava fosse stata fatta la Rivoluzione, ma che la stessa Rivoluzione oppresse e umiliò fino all’estremo limite, ebbene, proprio questi contadini si ribellarono contro di essa!
I contemporanei avevano ben colto che ogni rivoluzione scatena fra gli uomini gl’istinti della barbarie più elementare, le forze opache dell’invidia, della rapacità e dell’odio. Essi pagarono un tributo decisamente pesante alla psicosi generale, quando il fatto di comportarsi da uomini politicamente moderati, o anche soltanto di sembrarlo, veniva già considerato un crimine.
Il secolo ventesimo ha notevolmente offuscato agli occhi dell’umanità l’aureola romantica che circondava la rivoluzione nel secolo diciottesimo. Di mezzo secolo in mezzo secolo gli uomini hanno finito per convincersi, partendo dalle loro stesse disgrazie, del fatto che le rivoluzioni distruggono il carattere organico della società; che danneggiano il corso naturale della vita; che annientano i migliori elementi della popolazione dando campo libero ai peggiori; che nessuna rivoluzione può arricchire un paese, ma solamente quanti si sanno trarre d’impiccio senza scrupoli; che generalmente nel proprio paese produce innumerevoli morti, un vasto impoverimento, e, nei casi più gravi, un degrado duraturo della popolazione.
Per il grande intellettuale russo, la Rivoluzione francese si fece strada nel nome di uno slogan intrinsecamente contraddittorio e perciò irrealizzabile: libertà, uguaglianza, fraternità. Nella vita sociale, infatti, libertà e uguaglianza tendono a escludersi reciprocamente, sono antagoniste: la libertà non prevede l’uguaglianza sociale, mentre l’uguaglianza limita la libertà, perché diversamente non vi si potrebbe giungere. Quanto alla fraternità, quella autentica non può essere costruita da disposizioni sociali, ma è di ordine spirituale, fondata sul riconoscersi figli di un unico Padre. Inoltre questo slogan ternario terminava in tono minaccioso con l’aggiunta “o la morte”, il che ne distruggeva ogni significato.
Dall’esperienza della Rivoluzione francese gli organizzatori razionalisti della “felicità del popolo” avrebbero dovuto trarre lezioni, invece i procedimenti crudeli della Rivoluzione francese divennero un modello, così da essere in seguito applicati nuovamente sul corpo di altri popoli e nazioni.
La Rivoluzione francese fu dunque il velenoso albero della violenza da cui uscirono i frutti dei totalitarismi del XX secolo.
Una delle principali caratteristiche della Rivoluzione fu l’odio contro la religione. In una rivoluzione, in ogni tentativo di esercizio arbitrario e totalitario del potere, è necessario colpire anzitutto la libertà religiosa. Al dramma che per secoli ha afflitto la società europea, quello delle guerre tra religioni, si aggiunse la guerra contro la religione, oggi è tuttora in corso.
Ogni progetto di nuovo ordine e di uomo nuovo è stato impegnato in primo luogo nello sbarazzarsi, ideologicamente e materialmente, della ingombrante presenza di chi ha avuto la pretesa di definirsi Via, Verità e Vita.
I cristiani perseguitati dalla Rivoluzione francese erano molto più che avversari politici, membri di una fazione avversa al potere di turno: erano i testimoni di questa Verità e di questa Via, testimoni per mezzo di una vita intensa, credibile, affascinante, e per questo insopportabili per il nemico.
Pertanto, a tali avversari andava tolta anche la dignità di nemico che combatteva su un fronte opposto: ai vandeani, ai bretoni, e in seguito a tutte le popolazioni europee invase dai napoleonici, nel tentativo di esportare con la forza la Rivoluzione toccò l’infamante qualifica di “briganti”.
Ben lungi dall’essere – come voleva dare a intendere la libellistica giacobina – l’espressione di una contro-rivoluzione borghese, reazionaria e clericale in difesa di privilegi economici e della restaurazione di uno stato feudale, le rivolte popolari che presero il nome di Insorgenze ebbero come protagonisti soprattutto i contadini, che intravvidero in quella ideologia una minaccia terribile per la loro stessa esistenza.
Tra gli insorgenti militò inoltre quella classe media, laboriosa e misconosciuta, che sempre costituisce la spina dorsale di una nazione: piccoli commercianti, padri e madri di famiglia, artigiani che, lasciate le case o le botteghe, presero le armi perché fossero restituite loro le libertà concrete.
La Rivoluzione, impregnata delle filosofie illuministe del diciottesimo secolo ma anche di antiche suggestioni eretiche come la gnosi, si era proposta di combattere innanzitutto la Chiesa. Si scatenò un movimento di cristianofobia che, di fatto, perdura ancora oggi, mutatis mutandis, all’inizio del Ventunesimo secolo.
La prima fase del processo rivoluzionario di guerra alla Chiesa non si limitò a una offensiva sul piano delle idee, ma fu cruenta, violenta, omicida, perseguitando i cristiani – sacerdoti e laici – come non era accaduto da secoli in Europa. Chi non apostatava davanti alle baionette dei soldati o ai proclami dei funzionari dello Stato veniva deportato o ucciso.
La Rivoluzione rivelò presto il suo volto violento e anticristiano: il 27 maggio 1792 fu promulgata una legge che esiliava dalla Francia i sacerdoti che rifiutavano il giuramento di fedeltà allo Stato. Veniva colpita al cuore la libertà religiosa. Nell’agosto si verificarono i primi moti di massa in Vandea, una regione dell’ovest della Francia.
L’opposizione alla tirannia rivoluzionaria ebbe i suoi più importanti centri principalmente nelle zone occidentali del paese, in Vandea e poi nel Maine e in Bretagna. Una zona geografica che per quanto riguardava la Bretagna coincideva con una terra, rimasta a lungo indipendente da Parigi, che ancora rivendicava la propria autonomia e possedeva una propria specificità etnica, dal punto di vista sia della lingua, di origine celtica, sia degli usi, dei costumi, delle tradizioni. Vi furono uomini che, nonostante non avessero avuto occasione di compiere gesta importanti come quelle della Vandea, si distinsero in modo straordinario per il loro coraggio e dedizione: furono i primi a innalzare lo stendardo della fedeltà e gli ultimi a sottomettersi. Le loro azioni non ebbero, almeno all’inizio, grande rilevanza militare, ma lo spirito con cui combattevano li elevò a tal punto, che non avevano nulla da invidiare ai grandi capi vandeani: furono gli chouans del Basso Maine. La loro azione restò nota col nome di chouannerie, indicando tutta la reazione cattolica nel Maine e in Bretagna.
Il Basso Maine è una regione cosparsa di colline e ben irrorata da fiumi. I contadini erano soliti trattare gli alberi in modo tale che questi crescevano con lunghi rami e tronchi vuoti, usati come nascondigli; numerosi fossi e palizzate ostacolavano l’attraversamento dei campi. Tutte queste caratteristiche rendevano la regione adatta alla guerriglia.
I contadini erano legati ai loro costumi e profondamente pii, caritatevoli e ospitali. Un proverbio locale dice che Dio fa pagare il triplo l’elemosina rifiutata. Veneravano i loro sacerdoti, che consideravano come rappresentanti del buon Dio.
L’insurrezione scoppiò, in occasione di una nuova massiccia coscrizione obbligatoria, urgente per la pressione esterna di austriaci e prussiani. In un brevissimo spazio di tempo e in modo spontaneo la Vandea insorta fu in grado di schierare un’armata efficace in azioni di guerriglia, ma anche di inquadrarsi in campo aperto; un esercito che per lungo tempo ebbe il sopravvento sull’armata rivoluzionaria dell’ovest, suscitando l’ammirazione di Napoleone. Alla fine tuttavia la sproporzione delle forze in campo prevalse.
Il regime, non pago della vittoria, diede luogo a una spaventosa repressione. Il 17 gennaio 1794 il generale Tureau ordinò la distruzione totale della regione all’insegna delle parole “libertà, fraternità, uguaglianza, o morte”. Percorsa dalle “colonne infernali”, la Vandea conobbe così un terribile genocidio. Per sapere cosa fosse avvenuto in quella remota regione dell’ovest della Francia, per conoscere i risultati e gli effetti del passaggio delle “colonne infernali” del generale Westermann sulla popolazione, si è dovuto attendere che le opere di valenti e documentatissimi scrittori riuscissero a forzare il cordone sanitario posto, nell’editoria, a salvaguardia del mito intoccabile della Rivoluzione francese e della sua imperitura grandezza, e venissero tradotte e diffuse.
Dalla tragedia della Vandea emerge anzitutto l’odio antireligioso, spietato, cieco, che vide in ogni credente, non importa se inerme, donna o bambino o religioso, un avversario da distruggere.
La Vandea rimane nella storia come il paradigma dei genocidi, preso a modello da differenti regimi totalitari.
C’è qualcosa di drammaticamente preoccupante in questo fenomeno di accanimento ideologicamente determinato contro la terra e gli uomini che la lavorano e che ne hanno cura. Non è esagerato vedere in questa perversa politica della terra bruciata e resa desolata un’antichissima, terribile tentazione, la pretesa gnostica e diabolica di ergersi a dei, a demiurghi in grado di distruggere un mondo che si odia e non si accetta così com’è, in quanto fatto da un altro, per poi ricostruirlo secondo i propri schemi mentali e le proprie sfrenate fantasie. Per gli intellettuali illuministi le parole “fanatico” e “fanatismo” erano spesso abbinate a “contadini”, e il sedicente “fanatismo delle campagne” è sempre stato presentato come uno tra i fattori essenziali della rivolta. Per Voltaire il contadino non è altro che “un selvaggio”: rozzo, insensibile, abbrutito dal lavoro, solerte solo alle indicazioni e ai consigli dei preti, tenacemente avvinghiato alle proprie superstizioni religiose. Tutto diverso dall’ideale del “buon selvaggio” di Rousseau, pulito, adamiticamente innocente, non dedito a spiacevoli e degradanti lavori quali vangare, mungere, falciare; risultato di un immaginario utopico in grado di suscitare nel borghese annoiato (di ieri come di oggi) pruriginose attrattive verso evasioni esotiche non meno che erotiche.
Uno degli aspetti più inquietanti delle ideologie rivoluzionarie artefici delle varie vandee è, dopo l’odio contro Dio, quello contro l’uomo e la terra, il luogo in cui Dio si è incarnato e ha vissuto per salvare l’uomo e custodisce e manifesta le opere di questi. Poi viene l’odio per la memoria.
Non solo doveva scomparire ciò che esisteva prima della rivoluzione, ma non ne doveva restare neppure il ricordo.
La stessa rivoluzione doveva apparire un evento storico fatale, indispensabile, prima del quale esisteva solo l’oscurità, e tutto ciò che si era opposto alla sua marcia doveva essere relegato nei confini vaghi e approssimativi di una “leggenda nera”. Per il volgo e per gli scolari sono sufficienti poche parole d’ordine: “le forze della reazione”, “i secoli bui”, “l’oscurantistica opposizione al progresso”. Tutto il resto è dimenticato, o peggio: non è mai avvenuto.
Uno dei capi della Vandea, Charette, aveva detto un giorno ai suoi uomini: “La nostra patria per noi sono i nostri villaggi, i nostri altari, le nostre tombe, tutto ciò che i nostri padri hanno amato prima di noi. La nostra patria è la nostra fede, la nostra terra, il nostro re… Ma la loro patria cos’è per loro? Voi lo capite?… Loro l’hanno nel cervello, noi la sentiamo sotto i nostri piedi…”.
Un’espressione che dice dell’amore alla propria comunità, alla propria storia, a una concretezza molto lontana dagli ideologismi. Gli insorgenti, pur combattendo per la causa delle singole comunità che in quel momento vedevano minacciate, per la loro fede e le loro libertà concrete, compresero che la posta in gioco oltrepassava di molto i confini della parrocchia e assurgeva a valori universali. Il carattere di questo amore di patria, del tutto estraneo al nazionalismo dei due secoli successivi, rendeva difficile sopportare in silenzio gli oltraggi arrecati alla propria storia, alle proprie tradizioni, ai propri usi e costumi, alla propria fede.
Era lo scontro tra due diverse concezioni del mondo: quella rappresentata da una rivoluzione che voleva imporre con la forza a tutta l’Europa le proprie idee, e quella “prerivoluzionaria” di chi era disposto a combattere e a morire per assicurare ai propri figli il diritto di continuare a vivere secondo le regole che ne derivavano.
Era l’inizio di un conflitto che continua ancora oggi, in forme e modalità diverse, ma non meno pericolosamente dispotiche.
by Aldo Maria Valli
Per gentile concessione dell’editore, proponiamo l’articolo di Paolo Gulisano pubblicato nel nuovo fascicolo (n. 6) della rivista Visione dedicato al tema Tempo di rivoluzione.
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di Paolo Gulisano
La storia dell’Europa è stata dolorosamente percorsa da tante immani tragedie, specie nel secolo appena trascorso, risultato non solo dei diversi totalitarismi, ma soprattutto del clima ideologico determinato dai sogni (sarebbe meglio dire incubi) della ragione, che ha voluto violentare la natura e l’uomo in forza delle pretese dell’utopia e delle sue realizzazioni pratiche. Reiterati tentativi di costruire, oltre che nuove società, “uomini nuovi”.
Questi tentativi hanno tutti lasciato una spaventosa scia di sangue. L’origine può essere individuata nella Rivoluzione francese, madre di tutte le rivoluzioni.
La Revolutiòn ha sempre goduto di ottima (e immeritata) fama, di vasta pubblicistica e di una stampa favorevole. Da est a ovest, è stata presentata come il riscatto degli oppressi contro una società ancora pressoché feudale, come l’avanzare della modernità e del progresso. In realtà rappresentò l’affermarsi di un tentativo oligarchico di conquistare e reggere il potere ai danni degli stessi poveri.
La Rivoluzione francese fa parte, a buon diritto, della schiera degli “esperimenti” palingenetici, già iniziati nel corso dell’Umanesimo e dell’epoca delle Riforme, e analogamente agli altri scatenò la furia rabbiosa della persecuzione contro la religione, contro ciò che costituiva l’anima del popolo, il tessuto connettivo e il fondamento stesso dell’ordine civile e umano.
Uno dei giudizi più lucidi e appropriati sulla Rivoluzione francese fu espresso nel 1993 dal grande intellettuale russo Aleksandr Solženicyn, protagonista dell’eroica stagione del Dissenso, ossia il movimento culturale, civile e religioso che nell’ex Unione Sovietica si era opposto – pagando col campo di concentramento, con la tortura e la morte – alla dittatura comunista. Commemorando le migliaia di vittime della Rivoluzione francese, che sarebbe stata poi il modello per altre rivoluzioni ancor più sanguinarie che avrebbero in seguito funestato il mondo, compresa quella che aveva annientato il suo Paese, Solženicyn disse:
Gli accadimenti storici non sono mai compresi pienamente nell’incandescenza delle passioni che li accompagnano, ma a una discreta distanza, quando vengono raffreddate dal tempo.
Per molto tempo si è rifiutato di ascoltare e di accettare quanto era stato gridato dalla bocca di coloro che morivano, che venivano bruciati vivi: i contadini di una terra laboriosa, per i quali sembrava fosse stata fatta la Rivoluzione, ma che la stessa Rivoluzione oppresse e umiliò fino all’estremo limite, ebbene, proprio questi contadini si ribellarono contro di essa!
I contemporanei avevano ben colto che ogni rivoluzione scatena fra gli uomini gl’istinti della barbarie più elementare, le forze opache dell’invidia, della rapacità e dell’odio. Essi pagarono un tributo decisamente pesante alla psicosi generale, quando il fatto di comportarsi da uomini politicamente moderati, o anche soltanto di sembrarlo, veniva già considerato un crimine.
Il secolo ventesimo ha notevolmente offuscato agli occhi dell’umanità l’aureola romantica che circondava la rivoluzione nel secolo diciottesimo. Di mezzo secolo in mezzo secolo gli uomini hanno finito per convincersi, partendo dalle loro stesse disgrazie, del fatto che le rivoluzioni distruggono il carattere organico della società; che danneggiano il corso naturale della vita; che annientano i migliori elementi della popolazione dando campo libero ai peggiori; che nessuna rivoluzione può arricchire un paese, ma solamente quanti si sanno trarre d’impiccio senza scrupoli; che generalmente nel proprio paese produce innumerevoli morti, un vasto impoverimento, e, nei casi più gravi, un degrado duraturo della popolazione.
Per il grande intellettuale russo, la Rivoluzione francese si fece strada nel nome di uno slogan intrinsecamente contraddittorio e perciò irrealizzabile: libertà, uguaglianza, fraternità. Nella vita sociale, infatti, libertà e uguaglianza tendono a escludersi reciprocamente, sono antagoniste: la libertà non prevede l’uguaglianza sociale, mentre l’uguaglianza limita la libertà, perché diversamente non vi si potrebbe giungere. Quanto alla fraternità, quella autentica non può essere costruita da disposizioni sociali, ma è di ordine spirituale, fondata sul riconoscersi figli di un unico Padre. Inoltre questo slogan ternario terminava in tono minaccioso con l’aggiunta “o la morte”, il che ne distruggeva ogni significato.
Dall’esperienza della Rivoluzione francese gli organizzatori razionalisti della “felicità del popolo” avrebbero dovuto trarre lezioni, invece i procedimenti crudeli della Rivoluzione francese divennero un modello, così da essere in seguito applicati nuovamente sul corpo di altri popoli e nazioni.
La Rivoluzione francese fu dunque il velenoso albero della violenza da cui uscirono i frutti dei totalitarismi del XX secolo.
Una delle principali caratteristiche della Rivoluzione fu l’odio contro la religione. In una rivoluzione, in ogni tentativo di esercizio arbitrario e totalitario del potere, è necessario colpire anzitutto la libertà religiosa. Al dramma che per secoli ha afflitto la società europea, quello delle guerre tra religioni, si aggiunse la guerra contro la religione, oggi è tuttora in corso.
Ogni progetto di nuovo ordine e di uomo nuovo è stato impegnato in primo luogo nello sbarazzarsi, ideologicamente e materialmente, della ingombrante presenza di chi ha avuto la pretesa di definirsi Via, Verità e Vita.
I cristiani perseguitati dalla Rivoluzione francese erano molto più che avversari politici, membri di una fazione avversa al potere di turno: erano i testimoni di questa Verità e di questa Via, testimoni per mezzo di una vita intensa, credibile, affascinante, e per questo insopportabili per il nemico.
Pertanto, a tali avversari andava tolta anche la dignità di nemico che combatteva su un fronte opposto: ai vandeani, ai bretoni, e in seguito a tutte le popolazioni europee invase dai napoleonici, nel tentativo di esportare con la forza la Rivoluzione toccò l’infamante qualifica di “briganti”.
Ben lungi dall’essere – come voleva dare a intendere la libellistica giacobina – l’espressione di una contro-rivoluzione borghese, reazionaria e clericale in difesa di privilegi economici e della restaurazione di uno stato feudale, le rivolte popolari che presero il nome di Insorgenze ebbero come protagonisti soprattutto i contadini, che intravvidero in quella ideologia una minaccia terribile per la loro stessa esistenza.
Tra gli insorgenti militò inoltre quella classe media, laboriosa e misconosciuta, che sempre costituisce la spina dorsale di una nazione: piccoli commercianti, padri e madri di famiglia, artigiani che, lasciate le case o le botteghe, presero le armi perché fossero restituite loro le libertà concrete.
La Rivoluzione, impregnata delle filosofie illuministe del diciottesimo secolo ma anche di antiche suggestioni eretiche come la gnosi, si era proposta di combattere innanzitutto la Chiesa. Si scatenò un movimento di cristianofobia che, di fatto, perdura ancora oggi, mutatis mutandis, all’inizio del Ventunesimo secolo.
La prima fase del processo rivoluzionario di guerra alla Chiesa non si limitò a una offensiva sul piano delle idee, ma fu cruenta, violenta, omicida, perseguitando i cristiani – sacerdoti e laici – come non era accaduto da secoli in Europa. Chi non apostatava davanti alle baionette dei soldati o ai proclami dei funzionari dello Stato veniva deportato o ucciso.
La Rivoluzione rivelò presto il suo volto violento e anticristiano: il 27 maggio 1792 fu promulgata una legge che esiliava dalla Francia i sacerdoti che rifiutavano il giuramento di fedeltà allo Stato. Veniva colpita al cuore la libertà religiosa. Nell’agosto si verificarono i primi moti di massa in Vandea, una regione dell’ovest della Francia.
L’opposizione alla tirannia rivoluzionaria ebbe i suoi più importanti centri principalmente nelle zone occidentali del paese, in Vandea e poi nel Maine e in Bretagna. Una zona geografica che per quanto riguardava la Bretagna coincideva con una terra, rimasta a lungo indipendente da Parigi, che ancora rivendicava la propria autonomia e possedeva una propria specificità etnica, dal punto di vista sia della lingua, di origine celtica, sia degli usi, dei costumi, delle tradizioni. Vi furono uomini che, nonostante non avessero avuto occasione di compiere gesta importanti come quelle della Vandea, si distinsero in modo straordinario per il loro coraggio e dedizione: furono i primi a innalzare lo stendardo della fedeltà e gli ultimi a sottomettersi. Le loro azioni non ebbero, almeno all’inizio, grande rilevanza militare, ma lo spirito con cui combattevano li elevò a tal punto, che non avevano nulla da invidiare ai grandi capi vandeani: furono gli chouans del Basso Maine. La loro azione restò nota col nome di chouannerie, indicando tutta la reazione cattolica nel Maine e in Bretagna.
Il Basso Maine è una regione cosparsa di colline e ben irrorata da fiumi. I contadini erano soliti trattare gli alberi in modo tale che questi crescevano con lunghi rami e tronchi vuoti, usati come nascondigli; numerosi fossi e palizzate ostacolavano l’attraversamento dei campi. Tutte queste caratteristiche rendevano la regione adatta alla guerriglia.
I contadini erano legati ai loro costumi e profondamente pii, caritatevoli e ospitali. Un proverbio locale dice che Dio fa pagare il triplo l’elemosina rifiutata. Veneravano i loro sacerdoti, che consideravano come rappresentanti del buon Dio.
L’insurrezione scoppiò, in occasione di una nuova massiccia coscrizione obbligatoria, urgente per la pressione esterna di austriaci e prussiani. In un brevissimo spazio di tempo e in modo spontaneo la Vandea insorta fu in grado di schierare un’armata efficace in azioni di guerriglia, ma anche di inquadrarsi in campo aperto; un esercito che per lungo tempo ebbe il sopravvento sull’armata rivoluzionaria dell’ovest, suscitando l’ammirazione di Napoleone. Alla fine tuttavia la sproporzione delle forze in campo prevalse.
Il regime, non pago della vittoria, diede luogo a una spaventosa repressione. Il 17 gennaio 1794 il generale Tureau ordinò la distruzione totale della regione all’insegna delle parole “libertà, fraternità, uguaglianza, o morte”. Percorsa dalle “colonne infernali”, la Vandea conobbe così un terribile genocidio. Per sapere cosa fosse avvenuto in quella remota regione dell’ovest della Francia, per conoscere i risultati e gli effetti del passaggio delle “colonne infernali” del generale Westermann sulla popolazione, si è dovuto attendere che le opere di valenti e documentatissimi scrittori riuscissero a forzare il cordone sanitario posto, nell’editoria, a salvaguardia del mito intoccabile della Rivoluzione francese e della sua imperitura grandezza, e venissero tradotte e diffuse.
Dalla tragedia della Vandea emerge anzitutto l’odio antireligioso, spietato, cieco, che vide in ogni credente, non importa se inerme, donna o bambino o religioso, un avversario da distruggere.
La Vandea rimane nella storia come il paradigma dei genocidi, preso a modello da differenti regimi totalitari.
C’è qualcosa di drammaticamente preoccupante in questo fenomeno di accanimento ideologicamente determinato contro la terra e gli uomini che la lavorano e che ne hanno cura. Non è esagerato vedere in questa perversa politica della terra bruciata e resa desolata un’antichissima, terribile tentazione, la pretesa gnostica e diabolica di ergersi a dei, a demiurghi in grado di distruggere un mondo che si odia e non si accetta così com’è, in quanto fatto da un altro, per poi ricostruirlo secondo i propri schemi mentali e le proprie sfrenate fantasie. Per gli intellettuali illuministi le parole “fanatico” e “fanatismo” erano spesso abbinate a “contadini”, e il sedicente “fanatismo delle campagne” è sempre stato presentato come uno tra i fattori essenziali della rivolta. Per Voltaire il contadino non è altro che “un selvaggio”: rozzo, insensibile, abbrutito dal lavoro, solerte solo alle indicazioni e ai consigli dei preti, tenacemente avvinghiato alle proprie superstizioni religiose. Tutto diverso dall’ideale del “buon selvaggio” di Rousseau, pulito, adamiticamente innocente, non dedito a spiacevoli e degradanti lavori quali vangare, mungere, falciare; risultato di un immaginario utopico in grado di suscitare nel borghese annoiato (di ieri come di oggi) pruriginose attrattive verso evasioni esotiche non meno che erotiche.
Uno degli aspetti più inquietanti delle ideologie rivoluzionarie artefici delle varie vandee è, dopo l’odio contro Dio, quello contro l’uomo e la terra, il luogo in cui Dio si è incarnato e ha vissuto per salvare l’uomo e custodisce e manifesta le opere di questi. Poi viene l’odio per la memoria.
Non solo doveva scomparire ciò che esisteva prima della rivoluzione, ma non ne doveva restare neppure il ricordo.
La stessa rivoluzione doveva apparire un evento storico fatale, indispensabile, prima del quale esisteva solo l’oscurità, e tutto ciò che si era opposto alla sua marcia doveva essere relegato nei confini vaghi e approssimativi di una “leggenda nera”. Per il volgo e per gli scolari sono sufficienti poche parole d’ordine: “le forze della reazione”, “i secoli bui”, “l’oscurantistica opposizione al progresso”. Tutto il resto è dimenticato, o peggio: non è mai avvenuto.
Uno dei capi della Vandea, Charette, aveva detto un giorno ai suoi uomini: “La nostra patria per noi sono i nostri villaggi, i nostri altari, le nostre tombe, tutto ciò che i nostri padri hanno amato prima di noi. La nostra patria è la nostra fede, la nostra terra, il nostro re… Ma la loro patria cos’è per loro? Voi lo capite?… Loro l’hanno nel cervello, noi la sentiamo sotto i nostri piedi…”.
Un’espressione che dice dell’amore alla propria comunità, alla propria storia, a una concretezza molto lontana dagli ideologismi. Gli insorgenti, pur combattendo per la causa delle singole comunità che in quel momento vedevano minacciate, per la loro fede e le loro libertà concrete, compresero che la posta in gioco oltrepassava di molto i confini della parrocchia e assurgeva a valori universali. Il carattere di questo amore di patria, del tutto estraneo al nazionalismo dei due secoli successivi, rendeva difficile sopportare in silenzio gli oltraggi arrecati alla propria storia, alle proprie tradizioni, ai propri usi e costumi, alla propria fede.
Era lo scontro tra due diverse concezioni del mondo: quella rappresentata da una rivoluzione che voleva imporre con la forza a tutta l’Europa le proprie idee, e quella “prerivoluzionaria” di chi era disposto a combattere e a morire per assicurare ai propri figli il diritto di continuare a vivere secondo le regole che ne derivavano.
Era l’inizio di un conflitto che continua ancora oggi, in forme e modalità diverse, ma non meno pericolosamente dispotiche.
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