Questo articolo è tratto dal numero di Tempi in edicola a partire dal 31 dicembre (vai alla pagina degli abbonamenti), che è l’ultimo numero del 2015 e secondo tradizione è dedicato ai “Te Deum”, i ringraziamenti per l’anno appena trascorso. Nel “Te Deum” 2015 Tempi ospita, tra gli altri, i contributi di Antonia Arslan, Sinisa Mihajlovic, Luigi Brugnaro, Marina Terragni, Totò Cuffaro, Gilberto Cavallini, Luigi Negri, Costanza Miriano, Mario Adinolfi, Marina Corradi, Roberto Perrone, Renato Farina.
Luigi Negri è arcivescovo di Ferrara-Comacchio.
Come tutti gli uomini che cercano di vivere la vita nella fede, per sperimentarne la novità che solo Cristo porta, sono lieto in questo ultimo giorno dell’anno e in questo primo giorno dell’anno nuovo perché, come dice la grande tradizione cattolica, Dio vive. Siamo grati a Dio di averci dato la fede, di averci coinvolto nell’evento straordinario e concretissimo dell’incarnazione del Verbo di Dio nella vita e nella fede di Sua madre. Siamo lieti perché quello che è impossibile all’uomo Dio lo ha fatto (Cf Lc 18,16).
Era impossibile all’uomo comprendere l’enigma di sé, dominare con la ragione le tensioni, le negatività che nascono dalla parte più profonda del proprio cuore e più compromessa dal peccato originale. Sarebbe stato impossibile anche riscoprire la bellezza della vita, il fascino della ragione che conosce, del cuore che ama e coinvolge in questo amore tutta la realtà, cominciando da quella con cui l’uomo stringe un rapporto stabile e definitivo per la vita facendo nascere la famiglia ovvero un flusso di creatività fisica e morale, in cui l’uomo e la donna si incontrano e si promettono fedeltà per sempre.
Sono lieto perché, come tutti i cristiani, riconosco che la mia vita è stata indelebilmente segnata dalla presenza di Cristo. Non l’autore di un messaggio a una esegesi più profonda del quale destinare le nostre energie intellettuali; non l’insegnante di una vita morale al cui centro stia la capacità dell’uomo di fare il bene per sé o per gli altri. Non questo, ma la presenza di un amico, dell’unico amico che è sceso fin nella profondità del nostro cuore e l’ha cambiato assimilandolo in modo definitivo al suo. Il cuore del Figlio di Dio che, come ha umanamente pulsato nel cuore di Gesù di Nazaret, pulsa allo stesso modo, dopo il battesimo, nel cuore di chi si affida a Cristo.
Siamo lieti perché Dio è con noi, perché la vita, come mi ricordava Robert Spaemann – il più grande filosofo vivente – non è correre o scivolare sul sentiero polveroso del nulla, ma affrontare il cammino con Cristo, quel cammino che porta alla pienezza della vita, della verità e della gioia. Conviene ricordare che, di fronte al tempo che passa e alle circostanze della vita, di fronte ai tremendi orrori della società, a cui molti cattolici si ostinano a non dare il giusto peso, l’unica ragione che fa aprire lietamente gli occhi al mattino e li fa chiudere la sera in pace è che il Signore è con noi. Non in modo astratto, pietistico, sentimentale, buonistico; non come un ideale ma come una presenza carnale e storica che noi incontriamo e possiamo seguire nel mistero della Chiesa. Seguendolo possiamo riceverne concretamente il cambiamento dell’intelligenza e del cuore.
Come si farebbe a parlare, come cristiano e come pastore di una Chiesa, senza aprire immediatamente al fondo di questa letizia che viene da Dio? Come si fa a non aprire al problema del peccato che condiziona così gravemente la nostra persona, le strutture della vita sociale, dalla famiglia fino alle grandi strutture nazionali, internazionali e mondiali, secondo la penetrante e definitiva analisi fatta da Benedetto XVI in Caritas in veritate? Come si fa a non sentire l’umiliazione di una società in cui l’unico criterio di comportamento è quello dell’affermazione della propria soggettività individuale e la realizzazione dei propri istinti? Come si fa a non avere orrore di queste violenze familiari che insanguinano il nostro paese con una serie di omicidi-suicidi, questa violenza sui bambini, sui vecchi, questa terribile volontà di manipolazione della vita che comincia prima della nascita per affrettare poi la fine con l’orrenda immagine di una morte dolce o dignitosa? Come non provare orrore di fronte alla disgregazione della famiglia, contro la sacralità della sua vocazione sostituita da pseudo convivenze ritenute famiglie? Come non provare orrore di fronte alla volontà di procreare attraverso procedimenti disumani ed inaccettabili?
Questo peso rischia di schiacciarci. Di fronte a questa realtà c’è l’ipocrisia di chi non vede il peccato, non lo riconosce o lo nega scaricandolo sulle strutture psicologiche, affettive e sociali. In questa società ciò che conta è il benessere e un’insaziabile volontà di denaro e di possesso. Se non guardassimo in faccia al nostro male e al male del mondo non avremmo neanche la capacità di riconoscere la grandezza della fede. La fede è ciò che ha permesso che, da rovine e macerie o da ossa inaridite, rinascessero l’uomo e il mondo. È rinato un popolo nuovo che ha Dio come Padre, Cristo come fratello e insieme a Cristo tutti gli uomini come fratelli e sorelle. La consapevolezza della certezza della fede che incontra il peccato non lo fa diventare spunto per un giudizio negativo permanente ma lo riconosce come oggetto di perdono: su questo male cala la misericordia di Dio.
Luigi Negri è arcivescovo di Ferrara-Comacchio.
dicembre 31, 2015 Luigi Negri
Come possiamo non rimanere schiacciati da un mondo che ci umilia e dove conta solo il proprio istinto? È la Tua presenza l’unica ragione che mi fa aprire lietamente gli occhi ogni mattina.
Come tutti gli uomini che cercano di vivere la vita nella fede, per sperimentarne la novità che solo Cristo porta, sono lieto in questo ultimo giorno dell’anno e in questo primo giorno dell’anno nuovo perché, come dice la grande tradizione cattolica, Dio vive. Siamo grati a Dio di averci dato la fede, di averci coinvolto nell’evento straordinario e concretissimo dell’incarnazione del Verbo di Dio nella vita e nella fede di Sua madre. Siamo lieti perché quello che è impossibile all’uomo Dio lo ha fatto (Cf Lc 18,16).
Era impossibile all’uomo comprendere l’enigma di sé, dominare con la ragione le tensioni, le negatività che nascono dalla parte più profonda del proprio cuore e più compromessa dal peccato originale. Sarebbe stato impossibile anche riscoprire la bellezza della vita, il fascino della ragione che conosce, del cuore che ama e coinvolge in questo amore tutta la realtà, cominciando da quella con cui l’uomo stringe un rapporto stabile e definitivo per la vita facendo nascere la famiglia ovvero un flusso di creatività fisica e morale, in cui l’uomo e la donna si incontrano e si promettono fedeltà per sempre.
Sono lieto perché, come tutti i cristiani, riconosco che la mia vita è stata indelebilmente segnata dalla presenza di Cristo. Non l’autore di un messaggio a una esegesi più profonda del quale destinare le nostre energie intellettuali; non l’insegnante di una vita morale al cui centro stia la capacità dell’uomo di fare il bene per sé o per gli altri. Non questo, ma la presenza di un amico, dell’unico amico che è sceso fin nella profondità del nostro cuore e l’ha cambiato assimilandolo in modo definitivo al suo. Il cuore del Figlio di Dio che, come ha umanamente pulsato nel cuore di Gesù di Nazaret, pulsa allo stesso modo, dopo il battesimo, nel cuore di chi si affida a Cristo.
Siamo lieti perché Dio è con noi, perché la vita, come mi ricordava Robert Spaemann – il più grande filosofo vivente – non è correre o scivolare sul sentiero polveroso del nulla, ma affrontare il cammino con Cristo, quel cammino che porta alla pienezza della vita, della verità e della gioia. Conviene ricordare che, di fronte al tempo che passa e alle circostanze della vita, di fronte ai tremendi orrori della società, a cui molti cattolici si ostinano a non dare il giusto peso, l’unica ragione che fa aprire lietamente gli occhi al mattino e li fa chiudere la sera in pace è che il Signore è con noi. Non in modo astratto, pietistico, sentimentale, buonistico; non come un ideale ma come una presenza carnale e storica che noi incontriamo e possiamo seguire nel mistero della Chiesa. Seguendolo possiamo riceverne concretamente il cambiamento dell’intelligenza e del cuore.
Come si farebbe a parlare, come cristiano e come pastore di una Chiesa, senza aprire immediatamente al fondo di questa letizia che viene da Dio? Come si fa a non aprire al problema del peccato che condiziona così gravemente la nostra persona, le strutture della vita sociale, dalla famiglia fino alle grandi strutture nazionali, internazionali e mondiali, secondo la penetrante e definitiva analisi fatta da Benedetto XVI in Caritas in veritate? Come si fa a non sentire l’umiliazione di una società in cui l’unico criterio di comportamento è quello dell’affermazione della propria soggettività individuale e la realizzazione dei propri istinti? Come si fa a non avere orrore di queste violenze familiari che insanguinano il nostro paese con una serie di omicidi-suicidi, questa violenza sui bambini, sui vecchi, questa terribile volontà di manipolazione della vita che comincia prima della nascita per affrettare poi la fine con l’orrenda immagine di una morte dolce o dignitosa? Come non provare orrore di fronte alla disgregazione della famiglia, contro la sacralità della sua vocazione sostituita da pseudo convivenze ritenute famiglie? Come non provare orrore di fronte alla volontà di procreare attraverso procedimenti disumani ed inaccettabili?
Questo peso rischia di schiacciarci. Di fronte a questa realtà c’è l’ipocrisia di chi non vede il peccato, non lo riconosce o lo nega scaricandolo sulle strutture psicologiche, affettive e sociali. In questa società ciò che conta è il benessere e un’insaziabile volontà di denaro e di possesso. Se non guardassimo in faccia al nostro male e al male del mondo non avremmo neanche la capacità di riconoscere la grandezza della fede. La fede è ciò che ha permesso che, da rovine e macerie o da ossa inaridite, rinascessero l’uomo e il mondo. È rinato un popolo nuovo che ha Dio come Padre, Cristo come fratello e insieme a Cristo tutti gli uomini come fratelli e sorelle. La consapevolezza della certezza della fede che incontra il peccato non lo fa diventare spunto per un giudizio negativo permanente ma lo riconosce come oggetto di perdono: su questo male cala la misericordia di Dio.
Un mio professore di Venegono amava dire, spiegando la grazia di Cristo, che essa ci fascia tutta la vita. Questo è il motivo per cui siamo lieti, perché Dio ha avuto e ha misericordia di noi e ci fa partecipare vivamente di questa misericordia al punto tale – come ha ricordato papa Francesco – da poterla attuare nel mondo per il bene nostro e di tutti gli uomini senza nessuna distinzione o discriminazione.
Siamo lieti perché, resi oggetto della misericordia del Padre, diventiamo attori di questa nella vita degli uomini e portiamo loro il volto più autentico di Cristo. Per questa ragione il nostro metterci lietamente al servizio di tutte le povertà che incontriamo, e che qualche volta sembrano dilagare e mettere in crisi le nostre poche possibilità di intervento, diventa elemento di gratitudine a Dio. Dobbiamo diventare protagonisti attivi della misericordia di Dio nel mondo e far fiorire, come è accaduto sempre nella vita della Chiesa, la carità dalla verità, il perdono dalla giustizia, dalla inesorabile consapevolezza che l’uomo non basta a se stesso il dono purissimo e grandissimo di un amore che affratella uomini che non avrebbero nessuna ragione per condividere la vita.
Questi sono gli aspetti del mio Te Deum in cui mi trovo a ringraziare il Signore per tutto quello che ho già detto, ma in modo particolarissimo lo ringrazio perché – al di là di ogni merito e nonostante i miei errori – in questi ultimi mesi il Signore ha voluto associarmi in modo significativo alle sofferenze che egli ha già vissuto per la redenzione del genere umano. Essere stato chiamato a partecipare in maniera particolare, provvisoria alle sofferenze del Signore, se da un lato non ha diminuito tutto il dolore e la lacerazione di una vita che è stata ingiustamente assalita e nella cui sofferenza non è mancato il tradimento di molti amici, dall’altro tutto questo mi fa guardare con rinnovato slancio il nuovo anno e affermare che la mia fede è più approfondita ed è più netta la mia carità, perché sono più disponibile a consumare l’esistenza ogni giorno affinché il Regno di Dio accada nel mondo, come ricordava nella sua prima grandiosa lettera pastorale il beato cardinale Schuster introducendosi in quel grande servizio alla Chiesa di Milano che lo rende a distanza di decenni forse il più grande dei vescovi milanesi.
Vorrei concludere ricordando che ho avuto l’avventura, o la grazia, di condividere qualche ora della vita e della sofferenza del cardinale Giacomo Biffi nei giorni immediatamente precedenti alla sua morte, quando ormai reso silenzioso con la forza e la vivacità degli occhi diceva la sua approvazione o il suo diniego a quello su cui discutevamo, soprattutto delle fatiche che la Chiesa vive oggi. In quelle ultime ore trascorse insieme mi ha ricordato, quasi con voce spezzata dal pianto, una fondamentale verità, ossia che la più grande povertà che possa capitare a un uomo è quella di non conoscere la verità di Cristo.
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