Rispetto per l’Islam? È falso. Ma quel gesto racconta ciò che abbiamo perduto
di Vittorio Messori
Forse scandalizzerò qualcuno confessando che non riesce, a me, di scandalizzarmi per le gesta politicamente corrette di un preside di provincia, di un signore commoventemente ligio al conformismo egemone. Quello dominato da una sorta di raptus maniacale: la vigilanza ossessiva per «non offendere» alcuno.
Per stare al nostro preside: nonostante le sue precisazioni, resta il fatto che far finta di niente a Natale, solennizzando invece a gennaio una neutrale «Festa dell’Inverno», gli sembra un contributo al rispetto per le altre culture e alla integrazione degli immigrati musulmani. C’è da annoiarsi: capisco la sorpresa dello sprovveduto professore per l’eco mediatica suscitata da una sortita di cui abbiamo visto e ogni giorno vediamo qualche esempio. Per un esempio tra tanti: quante maestre, di elementari se non di asilo, hanno distillato simili propositi edificanti in assemblee grondanti buonismo e li hanno resi pubblici? È ormai cosa da «breve», per dirla in gergo giornalistico, roba da pagine di cronaca dei quotidiani locali.
È tedioso dover spiegare per l’ennesima volta che l’effetto di simili iniziative non consiste nella gratitudine degli islamici, con aumento della stima per noi, tanto generosi. L’effetto sta, al contrario, nella conferma del loro disprezzo per gente pronta a nascondere le proprie tradizioni, anche religiose, per una piaggeria gratuita, per giunta non richiesta.
Chi mai tra noi — si dicono — chi mai rinuncerebbe al rispetto del digiuno anche per un unico giorno di Ramadan? E questi, invece, si affannano a nascondere pure la ricorrenza della nascita del loro Messia, che per giunta scambiano per il Figlio di Dio, per non dar fastidio a noi e ai nostri figli a scuola o all’asilo? Ma allora ha ragione l’imam quando, in moschea, ci dice che questa Europa che fu cristiana ormai è atea ed è pronta a passare la mano all’umma, la comunità di noi credenti veri.
Tengano innanzitutto presente, i presidi di provincia e, in genere, i portatori di generosi sentimenti, che ogni musulmano — quale che sia la sua miseria economica o la sua posizione sociale, anche infima — guarda il cristiano dall’alto in basso, certo della sua superiorità in ciò che conta: la conoscenza e l’adorazione dell’unico, vero Creatore dell’universo. Maometto muore esattamente sei secoli dopo la morte di Gesù. Questi è degno di ogni onore, il suo nome sia in benedizione, ma solo perché, come penultimo profeta, è venuto ad annunciarci l’arrivo dell’ultimo, definitivo profeta, colui al quale l’arcangelo di Allah ha dettato, parola per parola, la Rivelazione piena. Nella discendenza di Abramo vi è una scala ascendente: la Torah degli ebrei, il Vangelo dei cristiani e — infine — il Corano degli islamici. I quali, dunque, stanno al vertice e guardano con compassione noi, credenti in Cristo, noi attardati, noi fermi a un anacronistico gradino inferiore.
Anche per questo lo scambiare per rispetto il nascondimento della nostra identità religiosa, è visto come una conferma della vergogna che proviamo nell’essere fermi a un Dio dimezzato, senza conoscere Allah. Per chi, come per questi popoli, ciò che innanzitutto conta è la dimensione religiosa, il vero sottosviluppo è il nostro, la nostra ricchezza economica non vale nulla a confronto della loro ricchezza di possessori della verità definitiva. Nessun islamico consapevole accetterà un dialogo alla pari con i cristiani, per lui inutile (che cosa ha ancora da sapere, nel Corano essendoci tutto?) ed anche umiliante, essendo quelli fermi a Gesù, dunque a un livello ben inferiore per coloro che ascoltano la testimonianza di Muhammad.
C’è, ripeto, un sospetto di noia nel dovere ricordare — magari a persone di cultura come gli insegnanti — realtà elementari che dovrebbero essere ben note. In ogni caso, sia chiaro: per quella che Vico chiamava «l’eterogenesi dei fini» (le buone intenzioni che, messe in pratica, producono effetti rovesciati rispetto alle attese) il rinunciare alle nostre prospettive e alle nostre tradizioni non porta alla pace. Può portare, invece, alla guerra: non solo a quella del risorto Califfato, ma anche a quella di altre parti dello sconfinato mondo islamico. Mondo sempre più convinto che — nella nostra incuranza religiosa — vi sia la conferma che siamo pronti alla resa, maturi per l’islamizzazione, con le buone o con le cattive. E, in questo, va pur detto, non avrebbero del tutto torto.
In effetti, quale Natale come nascita di Cristo può difendere un Occidente — europeo e nordamericano — che ha da tempo provveduto a cancellarne il nome? Da anni è scorretto, inaccettabile, un Merry Christmas, sostituito dunque da un Season’s greetings. E che cosa ha a che fare il bambino di Betlemme con il vecchio, obeso Babbo Natale della Coca Cola? Che c’entra colui che ripeté «beati i poveri» con il trionfo commerciale della fine di dicembre? Che dire (i siti su Internet ne sono pieni) del malizioso abbigliamento intimo proposto alle donne per un sesso tutto speciale per festeggiare la notte in cui, dicevano una volta, il Messia venne alla luce?
In fondo, siamo giusti: perché prendersela troppo con il rappresentante di una scuola dove insegnanti e allievi — alla pari dei loro compagni dell’intero Occidente — in gran parte hanno gettato alle spalle il senso e il messaggio di questa Nascita? In nome di quali «valori» dovremmo schierarci a difesa, noi, cittadini di una Europa che ha rifiutato di riconoscere che le sue radici stanno — non solo, certo, ma in gran parte — in quei venti secoli di storia trascorsi dal parto di Maria nel villaggio di Giudea?
C’è, in vicende come questa, molto déjà vu. Ma non manca di certo pure l’ipocrisia.
Corriere della sera, 1 dicembre 2015
Corriere della sera, 1 dicembre 2015
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