Dalla Sicilia al Madagascar: monsignor Rosario Vella racconta la sua vita di missionario salesiano e vescovo in una periferia del mondo
Eccellenza, come avvenne il suo primo incontro con i salesiani?
Mio padre era un ex allievo salesiano e fin dalla mia infanzia mi ha sempre parlato di don Bosco. Nel suo portafoglio teneva una immagine del santo, che cambiava solo quando era troppo sgualcita. Avevo appena dieci anni, quando andai nel collegio salesiano di Pedara, vicino Catania. Non ricordo di aver avuto subito il desiderio di diventare salesiano, però rimasi fortemente impressionato da tutti i numerosi salesiani incontrati.
Nel piccolo cortile dell’istituto, i chierici inseguivano insieme a noi lo stesso pallone, nelle passeggiate sull’Etna condividevano con noi la stessa fatica della salita e la stessa gioia della conquista. Gli insegnanti ci facevano amare la matematica, il latino, Dante e i poeti italiani… Pian piano maturò dentro me un grande desiderio di imitarli, o meglio di imitare colui che loro ci presentavano come modello: don Bosco.
Un giorno ci venne a far visita un grande missionario francese e vescovo in India, mons. Luigi Mathias. Ci parlò con entusiasmo di ciò che don Bosco stava facendo in quelle terre lontane. Ragazzino di 12 anni, ne rimasi conquistato e durante una ricreazione – dopo aver superato la mia timidezza – mi avvicinai a lui e gli chiesi: «Posso venire anch’io in India?». Quel santo vescovo sorrise, mi accarezzò i capelli e mi disse: «Studia e prega».
Cosa l’ha affascinata del carisma di don Bosco, da indurla a entrare nella congregazione salesiana?
La vita di don Bosco mi ha sempre affascinato. Don Bosco che nasce in una povera casa, a due anni rimane orfano, non riesce a studiare se non con sacrifici e volontà. Mamma Margherita che lo educa e lo guida… Per conquistare i suoi amici inventa giochi e fa il saltimbanco… Viene ordinato sacerdote, rifiuta posti prestigiosi per andare ad occuparsi dei ragazzi che vivevano sull’orlo delle strade… Da quel momento i giovani e don Bosco erano un tutt’uno: per loro dà tutte le sue forze, il suo amore, la sua vita… Quando si ammala e i medici lo danno per spacciato – e lo era veramente – i suoi giovani fanno una gara di preghiere, di sacrifici, di promesse che toccano il cielo.
Don Bosco, guarito, si affaccia dalla finestra e con voce debole ma sicura si rivolge ai giovani dicendo: «Voi mi avete dato la vita ed ora io la mia vita la do a voi». Leggere questi fatti mi faceva commuovere fino alle lacrime.
Ci racconti della sua vocazione…
Nei miei ideali di giovane c’era sempre un desiderio di fare del bene a chi era povero, dimenticato, afflitto… Quando visitavo qualche città, non mi interessavano i palazzi, le opere d’arte, ma mi piaceva camminare nelle viuzze dei quartieri più popolari. E quando cominciai a riflettere su cosa fare della mia vita mi vennero in mente due vie.
Pensavo: «Potrei fare il medico, così posso curare i più poveri, quelli di cui nessuno si occupa, i dimenticati dalla società. Oppure potrei fare il politico, perché i politici possono cambiare le strutture della società e fare del bene ai più bisognosi».
Però poi mi chiedevo: «Chi sono i più poveri? I poveri sono quelli che non hanno una casa, o non hanno un vestito, non hanno da mangiare?». No, non sono questi. Anche se non hanno una casa o il vestito, o il pane, possono però avere degli affetti, delle persone che riempiono la loro vita… I più poveri sono quelli che non hanno Dio, perché se non hanno Dio non hanno niente, hanno il cuore completamente vuoto e la loro vita è senza significato.
Da questa riflessione presi la decisione di diventare sacerdote e come don Bosco cercare i più poveri e i più abbandonati.
Le prime missioni salesiane partirono già durante la vita del santo torinese. Come e da cosa nasce questa spinta missionaria?
Don Bosco fin da giovane aveva sentito nel suo cuore una grande spinta a partire missionario. Spesso lo si vedeva con il mappamondo in mano e con gli occhi che guardavano lontano. In effetti voleva arrivare a quelle terre remote dove sapeva che tanti giovani avevano bisogno della gioia della fede.
«Quello che non puoi fare tu, lo faranno i tuoi figli», gli aveva detto la Madonna. Quindi dal 1875 fino alla sua morte, mandò ogni anno un gruppo di salesiani per l’evangelizzazione delle genti. Come figlio di don Bosco, anch’io ho sentito la stessa spinta e lo stesso desiderio. Così nel 1981 fui inviato, insieme ad altri tre confratelli, in Madagascar. Fin dall’inizio – malgrado le difficoltà della lingua e del primo adattamento – ci siamo impegnati ad occuparci dei giovani e della gente che non conosceva il Signore.
Qual è la realtà della Chiesa in Madagascar e quale l’apporto salesiano?
Il popolo malgascio è un popolo giovane: il 60% della popolazione ha meno di 20 anni. Purtroppo in Madagascar il giovane non conta niente, è solo una merce che può produrre qualcosa. Difficile sostenere che un giovane malgascio possa affrontare il futuro con serenità ed entusiasmo: non c’è lavoro, la corruzione è arrivata alle stelle, l’insicurezza e la delinquenza sono il pane quotidiano, la situazione scolastica, educativa e sociale è un disastro. I giovani sono veramente dimenticati e devono lottare a denti stretti per costruire il loro futuro.
La Chiesa fa tutto il possibile. Solo come esempio: nella diocesi di Ambanja abbiamo messo in atto un grande sforzo per andare incontro ai bisogni e alle attese dei giovani. Il loro futuro si prepara con l’educazione, che è la forza più grande di un popolo che cerca il vero progresso. Per questo abbiamo rafforzato e sviluppato le scuole, dalle elementari fino ad una università. Nelle scuole cerchiamo non solo di dare una cultura, ma soprattutto di formare le coscienze.
L’insegnamento di don Bosco, oggi, è ancora attuale? Perché?
Vorrei ricordare due frasi di don Bosco: «L’educazione è cosa di cuore». «C’è sempre qualcosa di buono nel cuore di ogni giovane su cui si può fare leva».
Una piccola storia emblematica: Roland era un ragazzo praticamente senza famiglia, che però aveva tanta voglia di studiare. Fin dalla sua infanzia viveva di piccoli espedienti – non sempre corretti – per trovare qualcosa con cui poter sopravvivere. Molte volte era stato cacciato via dalla scuola per il suo carattere un po’ scontroso e qualche volta violento. Cominciò a frequentare l’oratorio soprattutto per il suo amore allo sport.
Un giorno venne da me e con semplicità mi raccontò tutta la sua vita: sofferenze, ingiustizie, sforzi, ansie, desideri, tutto mescolato. Conclusione: «Padre, io voglio studiare ma non ho i soldi e le possibilità!». «D’accordo – gli risposi –. E tu cosa mi dai in contraccambio?» .
Non capì cosa volevo chiedergli e tirò fuori dal suo zaino un paio di scarpe da tennis ancora nuove. «È l’unica cosa che ho».
«Non è vero – osservai –. Tu hai dentro di te tante ricchezze. Hai voglia di studiare, sei pronto a fare dei sacrifici, sei forte. Questo mi serve!». Gli diedi una casetta da dividere con un amico che era nelle sue stesse condizioni. Ora tutti e due sono al terzo anno di una scuola universitaria per operatori turistici. Sono i miracoli che già don Bosco ci ha insegnato a fare. Basta crederci.
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