mercoledì 16 dicembre 2015
Dal rimedio per divorziati al divorzio cattolico
di Guido Ferro Canale*
La riforma dei processi di nullità matrimoniale varata con il motu proprio "Mitis iudex" ha suscitato molte perplessità e una ridda di commenti critici; che io sappia, però, soltanto il professor Danilo Castellano, in un'intervista su questo sito, si è soffermato su una delle innovazioni a mio avviso più criticabili, ossia il nuovo canone 1675, secondo cui il giudice, prima di ammettere alla trattazione un giudizio di nullità, "deve avere la certezza che il matrimonio sia irreparabilmente fallito, in modo che sia impossibile ristabilire la convivenza coniugale".
Dovrebbe essere piuttosto evidente che vi sono matrimoni falliti che non sono affatto nulli e, viceversa, matrimoni nulli che non falliscono (almeno per molto tempo). Subordinare l'avvio del processo, cioè dell'accertamento sulla validità del vincolo del matrimonio-atto, ad una condizione estrinseca come il fallimento del matrimonio-rapporto, equivale ad affermare che la Chiesa non ha interesse ad accertare la verità su un sacramento, a meno che non sia sopravvenuta una crisi irreversibile della coppia. Il che, sia detto per inciso, lascerebbe sprovvisti di tutela proprio i coniugi più coscienziosi – o scrupolosi – che, agitati da dubbi sulla validità del loro matrimonio, volessero vederli risolti dall'autorità ecclesiastica, senza però aver fatto “saltare” la loro unione. A tutto vantaggio, invece, di separati e divorziati che convivano, i quali, proprio in forza della nuova convivenza, ben potranno dirsi impossibilitati (almeno moralmente) a ristabilire quella di prima.
A dire il vero, un'interpretazione rigorosa e attenta ai diritti delle parti dovrebbe evitare simili effetti perniciosi, riducendo il can. 1675 ad un obbligo di informazione previa, che non comporterebbe l'inammissibilità o l'improcedibilità per mancanza di una previsione legale espressa (cfr. cann. 10 e 18). Tuttavia, è lecito dubitare della "mens legislatoris", dato che le "Regole procedurali" annesse al motu proprio riservano la nuova "investigatio praeiudicialis" a separati o divorziati che dubitano o sono certi della nullità del proprio matrimonio (n. 3) e, nel preambolo, assegna ai tribunali in materia matrimoniale il compito di rispondere ai fedeli che chiedono la verità sull'esistenza del vincolo “sui collapsi matrimonii”.
Ma, comunque sia, l'innovazione testé menzionata impallidisce rispetto al rescritto "ex audientia" del 7 dicembre, pubblicato l'11 successivo dal bollettino della sala stampa della Santa Sede.
In esso – che, pur denominato “rescritto”, presenta in realtà tutti i requisiti formali del breve, tranne forse il suggello dell'"anulus Piscatoris" – papa Jorge Mario Bergoglio ha voluto risolvere definitivamente il dubbio interpretativo sulla possibilità, per i vescovi italiani, di ricostituire i tribunali diocesani e, soprattutto, impartire disposizioni per un primo adeguamento alla riforma delle norme speciali della Rota romana.
Nel fare ciò, Francesco ha ripreso, rendendole stabili, alcune facoltà speciali accordate da Benedetto XVI, per un triennio, al decano della Rota stessa, con un rescritto "ex audientia" singolarmente emanato proprio l'11 febbraio 2013, il giorno della sua rinuncia al pontificato. Tale rescritto prevedeva tra l'altro, per quanto interessa in questa sede, il divieto di introdurre ricorsi per nuova proposizione di causa, se, divenuta esecutiva la sentenza di nullità, una delle parti avesse contratto nuovo matrimonio canonico.
La nuova proposizione di causa è il rimedio accordato dal diritto (can. 1644) contro le sentenze in materia di stato delle persone – quindi anche sullo stato libero o coniugato – non più impugnabili in altro modo, quando si danno nuove prove o nuovi argomenti,che rendono probabile la riforma della sentenza stessa (cfr. istruzione "Dignitas connubii", art. 292). Nel caso, quindi, avremmo una dichiarazione di nullità probabilmente sbagliata, che però non viene sottoposta a nuova verifica giudiziale, in virtù di un dato assolutamente estrinseco alla verità sul primo matrimonio, ossia la sopravvenienza del secondo. Il quale però – è evidente – sta o cade con la nullità del primo.
Questa previsione delle facoltà speciali è stata, perciò, vivamente criticata in dottrina, tra gli altri da Mons. Joaquin Llobell, uno dei massimi studiosi viventi del processo canonico, materia di cui è professore ordinario alla Pontificia Università della Santa Croce. Probabilmente per questo motivo non è stata ripresa dal "Mitis iudex", che, al nuovo can. 1681, conferma che la nuova proposizione di causa è sempre esperibile sul presupposto degli argomenti nuovi e gravi.
Il motu proprio, ci informa ora il rescritto del 7 dicembre, abroga o deroga "ogni legge o norma contraria finora vigente, generale, particolare o speciale", quindi, con la sua entrata in vigore, sarebbe caduta anche la preclusione in discorso; ma, presumibilmente su iniziativa del decano della Rota, essa è stata riproposta nel rescritto stesso, al punto 3, peraltro in una versione attenuata, si suppone per tener conto delle critiche ricevute. La nuova versione recita: "Dinanzi alla Rota romana non è ammesso il ricorso per la N.C.P. (Nova Causae Propositio), dopo che una delle parti ha contratto un nuovo matrimonio canonico, a meno che consti manifestamente dell’ingiustizia della decisione".
Anzitutto, chiariamo che il divieto, formalmente limitato alla Rota romana, in realtà è generale, perché la N.C.P. si propone al tribunale di terza istanza (cfr. il nuovo can. 1681), che, nella Chiesa latina, è appunto la Rota. Vi sono solo altri tre giudici competenti in pianta stabile per il terzo grado, e tutti per un ambito territoriale circoscritto: la Rota della nunziatura apostolica in Spagna (che giudica anche in quarto grado), il tribunale del primate di Ungheria e quello di Friburgo in Brisgovia; quindi, per un verso la generalità dei fedeli di rito latino è soggetta ai nuovi limiti posti alla N.C.P.; peraltro ci si può chiedere se essi non debbano estendersi anche a questi tribunali locali, dato che non ha senso né offrire maggiori possibilità di azione solo ai fedeli che ivi abbiano introdotto le proprie cause, né attribuire al tribunale del papa una competenza minore rispetto agli altri, né, infine, conculcare il diritto di appello – in questo caso, per N.C.P. – alla sede apostolica, che spetta ad ogni fedele in virtù del primato pontificio (cfr. can. 1417 §1). È vero, come osservava Mons. Llobell in sede di commento alle facoltà speciali, che le norme restrittive di diritti non possono essere estese dall'interprete a casi ivi non previsti (cfr. can. 18); tuttavia, la lettura restrittiva, in sé appropriata, porta ad esiti assurdi e, per giunta, contrastanti con un corollario del primato di giurisdizione del papa. Per quanto possa sembrare strano che si modifichi in dicembre – senza neanche dirlo esplicitamente – una norma riconfermata in agosto, sono dell'avviso che il rescritto, di fatto, modifichi il nuovo can. 1681, introducendo una regola di procedura valida per l'intera Chiesa latina, anche nei casi che potrebbero essere portati ad un giudice di terza istanza diverso dalla Rota.
Ciò detto, veniamo agli effetti della restrizione così introdotta.
Probabilmente, l'estensore materiale del rescritto ha creduto di aver trovato una formula idonea a superare le critiche formulate riguardo alla corrispondente facoltà speciale. Di fatto, tuttavia, ha peggiorato notevolmente la situazione. Se prima infatti si poteva pensare ad una disposizione di carattere eccezionale e transitorio, legata alla necessità di smaltire l'arretrato della Rota, ora ci troviamo di fronte ad una norma permanente. E anche il supposto miglioramento, che fa salvo il caso in cui "consti manifestamente dell’ingiustizia della decisione", crea molti più problemi di quelli che risolve. La formula impiegata, in effetti, è la stessa che il can. 1645 § 1 impiega per descrivere il presupposto della "restitutio in integrum"; e il successivo § 2 stabilisce tassativamente quali siano i casi di manifesta ingiustizia. Difficile non pensare che quest'elenco valga anche per la N.C.P., come modificata dal rescritto del 7 dicembre.
Senonché, dalla semplice lettura del can. 1645 § 2, è agevole desumere che difficilmente potrà rientrarvi il caso, in la verità non così raro, in cui una parte, in genere quella che ha chiesto e ottenuto la declaratoria di nullità, confessi di aver mentito e/o manovrato ingiustamente a tale scopo: non sembra che si tratti di dolo di una parte in danno dell'altra (n. 3), sia perché potrebbe esservi stata collusione di entrambe (o indifferenza dell'altro coniuge all'esito del giudizio canonico) sia perché, dal punto di vista spirituale, l'autore della frode processuale danneggia anzitutto sé stesso; di sicuro, poi, non ci troviamo in presenza di prove scoperte false (n. 1), perché la falsità era nota fin dall'inizio, almeno al ricorrente; e la sua dichiarazione confessoria, anche se redatta per iscritto, non si qualificherebbe certo come un documento “scoperto” dopo la sentenza (n. 2). Inoltre, le prove false debbono essere state assunte ad unico fondamento della decisione; il che lascia scoperti quei casi in cui sono state valutate decisive insieme con altri elementi, dimodoché la riforma della sentenza appaia probabile, ma non certa. Queste ipotesi sarebbero normalmente coperte dalla N.C.P., ma non lo sono in caso di "restitutio in integrum".
La differenza si spiega agevolmente: la "restitutio" non si applica mai alle sentenze di nullità matrimoniale, ma soltanto alle decisioni passate in giudicato; per questo i suoi presupposti sono più stringenti, perché è maggiore la stabilità dell'accertamento giudiziale pregresso.
A questo punto, ci si può chiedere se non si potrebbe evitare il vuoto di tutela supponendo che la N.C.P. resti possibile in tutti i casi di manifesta ingiustizia, anche se non inclusi nel can. 1645 § 2.
Ma a questa lettura è di ostacolo sia il tenore dello stesso § 2 (“Non si ritiene che consti palesemente l'ingiustizia, se non quando...”); sia il fatto che in linea di principio il rescritto pone un divieto e che, per questa via, si verrebbe ad ampliare un'eccezione (cfr. can. 18); sia, soprattutto, l'analogia innegabile, perché, anche se si desse per richiamato, anzi riprodotto, solo il can. 1645 § 1 (dunque il presupposto della manifesta ingiustizia), si dovrebbe comunque concludere che, se alla pronunzia "pro nullitate" è seguito un nuovo matrimonio canonico, essa ha acquisito la stabilità propria del giudicato (cfr. can. 1642 § 1); inevitabile, a questo punto, ammettere la N.C.P. nei soli casi previsti per la "restitutio".
Non si dice, beninteso, che la sentenza di nullità matrimoniale è passata in giudicato: ciò è escluso dal can. 1644, dal nuovo can. 1681 e anche dal fatto che si continui a parlare di N.C.P., anziché dichiarare semplicemente applicabile la "restitutio". Tuttavia, nel rescritto del 7 dicembre si accorda la stabilità caratteristica del giudicato alla situazione “sentenza di nullità più nuovo matrimonio canonico”. E questo è inaccettabile sotto ogni punto di vista.
In primo luogo, il giudicato consegue ad una vicenda interna al processo, l'esaurimento dei mezzi di impugnazione diversi dalla "restitutio" (cfr. can. 1642 § 1: “La cosa passata in giudicato gode della stabilità del diritto e non può essere direttamente impugnata se non a norma del can. 1645 § 1”). Mai lo si lega ad un evento estrinseco e sopravvenuto, quale è appunto il nuovo matrimonio. E neppure si può dire che esso determini la cessazione dell'interesse alla verità sul primo vincolo, perché è evidente che, se questo è valido, sono nulle le nuove nozze.
Non solo. Un ricorso ammissibile per N.C.P. getta, per definizione, un dubbio probabile sulla declaratoria di nullità. La certezza morale che correggeva il giudizio è venuta meno ed è tornata probabile la tesi "pro vinculo". E ciò significa che il coniuge che si è risposato si trova in probabile stato di adulterio. Fosse o non fosse in buona fede – potrebbe trattarsi anche della parte innocente rispetto all'inquinamento delle prove – qui si afferma che egli non ha diritto a una risposta su questo dubbio. E non ce l'ha perché il nuovo matrimonio canonico aggiunge un "quid pluris" di stabilità alla sentenza, per la cui revisione non basta più un semplice dubbio.
Ciò equivale a dire che la nuova unione è meritevole di tutela in sé stessa, senza neanche un riferimento all'eventuale buona fede dei suoi contraenti. Al punto di precludere l'accertamento della verità su quella precedente. E nonostante il potenziale carattere peccaminoso. Non è mai lecito compiere un'azione se si dubita che sia peccato, altrimenti l'accettazione del rischio equivale a commettere proprio il peccato che si teme sussista (perfino se di fatto non sussistesse: è il vero senso della regola per cui non bisogna mai agire contro la propria coscienza). Eppure, qui o si afferma il contrario, o si offre un modo nuovo di risolvere il dubbio.
Però, questa sorta di regola per cui “nel dubbio, si sta per le nuove nozze” equivale a negare o la dipendenza del secondo matrimonio dal primo, oppure, che è lo stesso, l'indissolubilità di questo. Di fatto, in effetti, si finisce per dire che la sentenza di nullità – se vi si aggiunge il nuovo matrimonio – non ha più efficacia dichiarativa, o di mero accertamento, ma costitutiva: rende nullo ciò che non lo era. Perché è passibile di revisione solo nei casi in cui lo sarebbe il giudicato, che "facit de albo nigrum, aequat quadrata rotundis et falsum mutat in verum".
All'apparire del "Mitis iudex", da più parti si è gridato al “divorzio cattolico”. Si tratta di un giudizio che non condivido, criticando, semmai, l'impostazione del giudizio di nullità come terapia per coppie in crisi e/o situazioni irregolari.
Ma ora, poco importa se in modo obliquo e per vie traverse, questa nuova logica è sfociata nell'esito da tanti auspicato e da tanti altri temuto: il nuovo matrimonio canonico, seppur indirettamente e non in tutti i casi, scioglie il precedente. Signore e signori, ecco a voi il divorzio cattolico.
*Canonista
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351193
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