Ha riscritto le conclusioni di un suo articolo del 1972 che il cardinale Kasper aveva citato a proprio sostegno. Ecco il testo integrale della sua "retractatio", in cui ribadisce e spiega il divieto della comunione ai divorziati risposati
di Sandro Magister
ROMA, 3 dicembre 2014 – Sulla comunione ai divorziati risposati la posizione di Joseph Ratzinger è nota. L'ha formulata più volte, come cardinale prefetto della congregazione per la dottrina della fede e poi come papa.
Ma ora egli ritorna sull'argomento con un nuovo scritto, appena uscito in Germania nella collezione dei suoi Opera Omnia.
Questo scritto è riprodotto integralmente più sotto. Ma la sua genesi esige di essere spiegata.
Negli Opera Omnia, Ratzinger sta ripubblicando – con l'aiuto del prefetto della congregazione per la dottrina della fede Gerhard Ludwig Müller – tutti i suoi scritti teologici raggruppati per tema. Nell'ultimo dei nove volumi finora editi in tedesco da Herder, di quasi 1000 pagine e intitolato "Introduzione al cristianesimo. Professione, battesimo, sequela", trova posto un articolo del 1972 sulla questione dell'indissolubilità del matrimonio, pubblicato quell'anno in Germania in un libro a più voci su matrimonio e divorzio.
Quell'articolo di Ratzinger del 1972 è stato rispolverato lo scorso febbraio dal cardinale Walter Kasper nella relazione con cui ha introdotto il concistoro dei cardinali convocato da papa Francesco per discutere sul tema della famiglia, in vista del sinodo dei vescovi in programma per ottobre:
> Kasper cambia il paradigma, Bergoglio applaude
Nel caldeggiare l'ammissione alla comunione eucaristica dei divorziati risposati, Kasper disse:
"La Chiesa dei primordi ci dà un’indicazione che può servire, alla quale il professor Joseph Ratzinger ha già accennato nel 1972. […] Ratzinger ha suggerito di riprendere in modo nuovo la posizione di Basilio. Sembrerebbe essere una soluzione appropriata, che è anche alla base di queste mie riflessioni".
In effetti, in quell'articolo del 1972, l'allora quarantacinquenne professore di teologia a Ratisbona sosteneva che il dare la comunione ai divorziati risposati, a particolari condizioni, appariva "pienamente in linea con la tradizione della Chiesa" e in particolare con "quel tipo di indulgenza che emerge in Basilio, dove, dopo un periodo protratto di penitenza, al 'digamus' – cioè a chi vive in un secondo matrimonio – viene concessa la comunione senza l'annullamento del secondo matrimonio: nella fiducia nella misericordia di Dio, che non lascia senza risposta la penitenza".
Quell'articolo del 1972 fu la prima e ultima volta in cui Ratzinger "aprì" alla comunione ai divorziati risposati. In seguito, infatti, egli non solo aderì in pieno alla posizione rigorista, di divieto della comunione, riaffermata dal magistero della Chiesa durante il pontificato di Giovanni Paolo II, ma contribuì in misura determinante anche all'argomentazione di tale divieto, come prefetto della congregazione per la dottrina della fede.
Vi contribuì in particolare firmando la lettera ai vescovi del 14 settembre 1994, nella quale la Santa Sede respingeva le tesi favorevoli alla comunione ai divorziati risposati sostenute in quegli anni da alcuni vescovi tedeschi tra i quali Kasper:
> "L'anno internazionale della famiglia…"
E poi ancora con uno scritto del 1998 edito dalla congregazione per la dottrina della fede e ripubblicato da "L'Osservatore Romano" il 30 novembre 2011:
> La pastorale del matrimonio deve fondarsi sulla verità
Senza contare che successivamente, da papa, riconfermò e motivò più volte il divieto della comunione, nel quadro della pastorale per i divorziati risposati.
Non stupisce, quindi, che Ratzinger abbia ritenuta inappropriata la citazione di quel suo articolo del 1972 fatta lo scorso febbraio da Kasper a sostegno delle sue tesi, come nulla fosse accaduto dopo quell'anno.
Da qui la decisione presa da Ratzinger, nel ripubblicare negli Opera Omnia l'articolo del 1972, di riscriverne e ampliarne la parte conclusiva, mettendola in linea con il suo successivo e attuale pensiero.
Questa che segue è la traduzione della nuova parte finale dell'articolo, come appare nel volume degli Opera Omnia da poco in libreria, consegnato alle stampe dal papa emerito Benedetto XVI nel marzo del 2014.
Con subito dopo la riproduzione delle parte sostituita, quella citata da Kasper a proprio sostegno nel concistoro dello scorso febbraio.
Nella riedizione del 2014 è precisato che "il contributo è stato completamente rivisto dall'autore".
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1. LA "RETRACTATIO"
La nuova conclusione dell'articolo del 1972, riscritta da Joseph Ratzinger nel 2014
[…]
La Chiesa è Chiesa della Nuova Alleanza, ma vive in un mondo nel quale continua ad esistere immutata quella "durezza del [...] cuore" (Mt 19, 8) che ha spinto Mosé a legiferare. Che cosa può dunque fare di concreto, specialmente in un tempo in cui la fede si annacqua sempre più, fin all'interno della Chiesa, e le "cose di cui si preoccupano i pagani", contro le quale il Signore mette in guardia i discepoli (cfr. Mt 6, 32), minacciano di diventare sempre più la norma?
Anzitutto, ed essenzialmente, deve annunciare in modo convincente e comprensibile il messaggio della fede e cercare di aprire spazi dove possa essere vissuta veramente. La guarigione della "durezza del cuore" può giungere soltanto dalla fede, e solo dove essa è viva è possibile vivere ciò che il Creatore aveva destinato all'uomo prima del peccato. Perciò la cosa principale e davvero fondamentale che la Chiesa deve fare è rendere la fede viva e forte.
Allo stesso tempo, la Chiesa deve continuare a cercare di sondare i confini e l'ampiezza delle parole di Gesù. Deve rimanere fedele al mandato del Signore, e non può nemmeno stiracchiarlo troppo. Mi pare che le cosiddette "clausole della fornicazione" che Matteo ha aggiunto alle parole del Signore tramandate da Marco rispecchino già un tale sforzo. Viene menzionata una fattispecie che le parole di Gesù non toccano.
Questo sforzo è proseguito nel corso di tutta la storia. La Chiesa d'Occidente, sotto la guida del successore di Pietro, non ha potuto seguire il cammino della Chiesa dell'impero bizantino, che si era avvicinata sempre più al diritto temporale, indebolendo così la specificità della vita nella fede. Tuttavia, a modo suo ha messo in luce i confini dell'applicabilità delle parole del Signore, definendo così in modo più concreto la loro portata.
Sono emersi soprattutto due ambiti, che sono aperti a una soluzione particolare da parte dell'autorità ecclesiastica.
1. In 1 Cor 7, 12-16 san Paolo – come indicazione personale, che non proviene dal Signore, ma alla quale sa di essere autorizzato – dice ai Corinti, e attraverso di loro alla Chiesa di tutti i tempi, che nel caso di matrimonio tra un cristiano e un non cristiano questo può essere sciolto qualora il non cristiano ostacoli il cristiano nella sua fede. Da ciò la Chiesa ha derivato il cosiddetto "privilegium paulinum", continuando a interpretarlo nella sua tradizione giuridica (cfr. CIC, can. 1143-1150).
Dalle parole di san Paolo la tradizione della Chiesa ha dedotto che solo il matrimonio tra due battezzati è un sacramento autentico e quindi assolutamente indissolubile. Quelli tra un non cristiano e un cristiano sono sì matrimoni secondo l'ordine della creazione e quindi di per sé definitivi. Tuttavia possono essere sciolti a favore della fede e di un matrimonio sacramentale.
La tradizione alla fine ha allargato questo "privilegio paolino", rendendolo "privilegium petrinum". Ciò significa che il successore di Pietro ha il mandato di decidere, nell'ambito dei matrimoni non sacramentali, quando la separazione è giustificata. Questo cosiddetto "privilegio petrino" non è però stato accolto nel nuovo Codice, come era invece nelle intenzioni iniziali.
Il motivo è stato il dissenso tra due gruppi di esperti. Il primo ha sottolineato che l'obiettivo di tutto il diritto della Chiesa, il suo metro interiore, è la salvezza delle anime. Da ciò consegue che la Chiesa può ed è autorizzata a fare ciò che serve per perseguire questo fine. L'altro gruppo, al contrario, era dell'idea che i mandati del ministero petrino non dovessero essere allargati troppo e che occorresse rimanere entro i confini riconosciuti dalla fede della Chiesa.
Poiché non fu possibile trovare un accordo tra questi due gruppi, papa Giovanni Paolo II decise di non accogliere nel Codice questa parte delle consuetudini giuridiche della Chiesa, ma di continuare ad affidarla alla congregazione per la dottrina della fede che, insieme con la prassi concreta, deve esaminare continuamente le basi e i confini del mandato della Chiesa in questo ambito.
2. Nel corso del tempo si è sviluppata sempre più chiaramente la consapevolezza che un matrimonio contratto apparentemente in modo valido, a causa di vizi giuridici o effettivi può non essersi realmente concretizzato e quindi può essere nullo. Nella misura in cui la Chiesa ha sviluppato il proprio diritto matrimoniale, essa ha anche elaborato dettagliatamente le condizioni per la validità e i motivi di possibile nullità.
La nullità del matrimonio può derivare da errori nella forma giuridica, ma anche e soprattutto da una insufficiente consapevolezza. Trattando la realtà del matrimonio, la Chiesa ha riconosciuto molto presto che il matrimonio viene costituito come tale attraverso il consenso dei due partner, che deve essere espresso anche pubblicamente in una forma definita dal diritto (CIC, can. 1057 § 1). Il contenuto di questa decisione comune è il dono reciproco attraverso un vincolo irrevocabile (CIC, can. 1057 § 2; can. 1096 § 1). Il diritto canonico presuppone che le persone adulte sappiano da sole, a partire dalla loro natura, che cos'è il matrimonio, e quindi sappiano anche che è definitivo; il contrario dovrebbe essere espressamente dimostrato (CIC, can. 1096 § 1 e § 2).
Su questo punto, negli ultimi decenni sono nati nuovi interrogativi. Oggi si può ancora presumere che le persone sappiano "per natura" della definitività e dell'indissolubilità del matrimonio e che vi acconsentano con il loro sì? O non si è forse verificato nella società attuale, perlomeno nei paesi occidentali, un cambiamento della consapevolezza che fa piuttosto presumere il contrario? Si può dare per scontata la volontà del sì definitivo o non ci si deve piuttosto aspettare il contrario, ovvero che già prima si è predisposti al divorzio? Laddove la definitività venisse esclusa consapevolmente, non si realizzerebbe davvero il matrimonio nel senso della volontà del Creatore e dell'interpretazione di Cristo. Da qui si percepisce quanto oggi sia diventata importante una corretta preparazione al sacramento.
La Chiesa non conosce il divorzio. Tuttavia, dopo quanto appena accennato, essa non può escludere la possibilità di matrimoni nulli. I processi di annullamento devono essere condotti in due direzioni e con grande attenzione: non devono diventare un divorzio camuffato. Sarebbe disonesto e contrario alla serietà del sacramento. D'altra parte, devono esaminare con la necessaria coscienziosità le problematiche della possibile nullità e, laddove vi siano motivi giusti a favore dell'annullamento, esprimere la sentenza corrispondente, aprendo così a tali persone una porta nuova.
Nel nostro tempo sono emersi nuovi aspetti del problema della validità. Ho già accennato sopra che la consapevolezza naturale dell'indissolubilità del matrimonio è diventata problematica e che da ciò derivano nuovi compiti per la procedura processuale. Vorrei indicare brevemente altri due elementi nuovi:
a. Il can. 1095 n. 3 ha inscritto la problematica moderna nel diritto canonico laddove dice che non sono capaci di contrarre matrimonio le persone che "per cause di natura psichica non possono assumere gli obblighi essenziali del matrimonio". Oggi, i problemi psichici delle persone, proprio dinanzi a una realtà così grande come il matrimonio, vengono percepiti più chiaramente rispetto al passato. Tuttavia, è bene mettere in guardia dal costruire in maniera avventata la nullità a partire dai problemi psichici. Così facendo, in realtà, sarebbe troppo facile pronunciare un divorzio sotto l'apparenza della nullità.
b. Oggi si impone con grande serietà un'altra domanda. Attualmente ci sono sempre più pagani battezzati, vale a dire persone diventate cristiane per mezzo del battesimo, ma che non credono e che non hanno mai conosciuto la fede. Si tratta di una situazione paradossale: il battesimo rende la persona cristiana, ma senza fede essa rimane comunque solo un pagano battezzato. Il can. 1055 § 2 dice che "tra i battezzati non può sussistere un valido contratto matrimoniale, che non sia per ciò stesso sacramento". Ma che cosa succede se un battezzato non credente non conosce affatto il sacramento? Potrebbe anche avere la volontà dell'indissolubilità, ma non vede la novità della fede cristiana. L'aspetto tragico di questa situazione appare evidente soprattutto quando battezzati pagani si convertono alla fede e iniziano una vita totalmente nuova. Sorgono qui delle domande per le quali non abbiamo ancora una risposta. È quindi ancora più urgente approfondirle.
3. Da quanto detto finora è emerso che la Chiesa d'Occidente – la Chiesa cattolica –, sotto la guida del successore di Pietro, da un lato sa di essere strettamente vincolata alla parola del Signore sull'indissolubilità del matrimonio, dall'altro ha però anche cercato di riconoscere i limiti di questa indicazione per non imporre alle persone più di quanto è necessario.
Così, partendo dal suggerimento dell'apostolo Paolo e appoggiandosi al tempo stesso sull'autorità del ministero petrino, per i matrimoni non sacramentali ha elaborato ulteriormente la possibilità del divorzio in favore della fede. Allo stesso modo ha esaminato sotto ogni aspetto la nullità di un matrimonio.
L'esortazione apostolica "Familiaris consortio" di Giovanni Paolo II, del 1981, ha compiuto un ulteriore passo. Al numero 84 è scritto: "Insieme col Sinodo, esorto caldamente i pastori e l'intera comunità dei fedeli affinché aiutino i divorziati procurando con sollecita carità che non si considerino separati dalla Chiesa [...]. La Chiesa preghi per loro, li incoraggi, si dimostri madre misericordiosa e così li sostenga nella fede e nella speranza".
Con ciò alla pastorale viene affidato un compito importante, che forse non è ancora stato trasposto a sufficienza nella vita della quotidianità della Chiesa. Alcuni dettagli sono indicati nell'esortazione stessa. Vi viene detto che queste persone, in quanto battezzate, possono partecipare alla vita della Chiesa, che addirittura devono farlo. Vengono elencate le attività cristiane che per loro sono possibili e necessarie. Forse, però, bisognerebbe sottolineare con maggiore chiarezza che cosa possono fare i pastori e i fratelli nella fede perché esse possano sentire veramente l'amore della Chiesa. Penso che bisognerebbe riconoscere loro la possibilità di impegnarsi nelle associazioni ecclesiali e anche di accettare di fare da padrino o da madrina, cosa che per ora il diritto non prevede.
C'è un altro punto di vista che mi s'impone. L'impossibilità di ricevere la santa eucaristia viene percepita come tanto dolorosa non ultimo perché, attualmente, quasi tutti coloro che partecipano alla messa si accostano anche alla mensa del Signore. Così, le persone colpite appaiono anche pubblicamente squalificate come cristiani.
Ritengo che il monito di san Paolo all'autoesame e alla riflessione sul fatto che si tratta del Corpo del Signore dovrebbe essere presa nuovamente sul serio: "Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna" (1 Cor 11, 28 s.) Un serio esame di sé, che può anche portare a rinunciare alla comunione, ci farebbe inoltre sentire in modo nuovo la grandezza del dono dell'eucaristia e per giunta rappresenterebbe una forma di solidarietà con le persone divorziate e risposate.
Vorrei aggiungere un altro suggerimento pratico. In molti paesi è diventata consuetudine che le persone che non possono comunicarsi (per esempio gli appartenenti ad altre confessioni) si accostino all'altare, ma tengano le mani sul petto, facendo in tal modo capire che non ricevono il santissimo sacramento, ma che chiedono una benedizione, che viene loro donata come segno dell'amore di Cristo e della Chiesa. Questa forma certamente potrebbe essere scelta anche dalle persone che vivono in un secondo matrimonio e quindi non sono ammesse alla mensa del Signore. Il fatto che ciò renda possibile una comunione spirituale intensa con il Signore, con tutto il suo Corpo, con la Chiesa, potrebbe essere per loro un'esperienza spirituale che le rafforza e le aiuta.
(Traduzione dall'originale tedesco di Simona Storioni)
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2. IL TESTO ORIGINALE
La vecchia conclusione dell'articolo di Joseph Ratzinger del 1972
[…]
La Chiesa è Chiesa della Nuova Alleanza, ma vive in un mondo nel quale continua ad esistere immutata la "durezza del [...] cuore" (Mt 19, 8) dell'Antica Alleanza. Essa non può smettere di annunciare la fede della Nuova Alleanza, ma molto spesso è costretta a iniziare la sua vita concreta un po' al di sotto della soglia delle Scritture.
Così, in evidenti situazioni di emergenza, può fare delle limitate eccezioni per evitare cose peggiori. Il criterio di tale modo di operare dovrebbe essere: i limiti dell'agire contro "ciò che è scritto" stanno nel fatto che questo agire non può mettere in discussione la forma basilare stessa, della quale la Chiesa vive. Pertanto, è legato al carattere di soluzione eccezionale e di aiuto in una situazione di bisogno urgente, come lo sono state per esempio la situazione transitoria missionaria, ma anche la situazione d'emergenza concreta dell'unione delle Chiese.
Sorge però così la domanda pratica se è possibile citare una tale situazione d'emergenza nella Chiesa attuale e indicare un'eccezione che corrisponda a questi parametri. Vorrei tentare, con tutta la cautela necessaria, di formulare una proposta concreta che mi sembra rientrare in questo quadro.
Laddove un primo matrimonio si è rotto da molto tempo e in maniera irreparabile per entrambe le parti; laddove al contrario un secondo matrimonio, contratto successivamente, per un periodo di tempo prolungato si è dimostrato una realtà virtuosa ed è stato condotto nello spirito della fede, in particolare anche nell'educazione dei figli (sicché la distruzione di questo matrimonio causerebbe la distruzione di un'entità virtuosa e cagionerebbe un danno morale), attraverso un percorso extragiudiziale, sulla base della testimonianza del parroco e dei membri della comunità, si dovrebbe concedere a quanti vivono in tale secondo matrimonio il permesso di accedere alla comunione.
Una tale regolamentazione mi sembra giustificata dalla tradizione per due motivi:
a. Occorre ricordare espressamente il margine di discrezionalità che c'è in ogni processo di annullamento. Questo margine discrezionale e la disparità di opportunità che immancabilmente deriva dal livello culturale delle persone coinvolte, come anche dalle loro possibilità finanziarie, dovrebbero mettere in guardia contro l'idea che in questo modo si possa soddisfare perfettamente la giustizia. Per giunta, tante cose semplicemente non sono giudicabili, pur essendo comunque reali. Le domande processuali devono necessariamente limitarsi a ciò che è giuridicamente dimostrabile, ma proprio per questo possono trascurare fatti decisivi. Soprattutto, in questo modo i criteri formali (errori di forma o forma ecclesiale volutamente tralasciata) diventano talmente prevalenti da poter portare a delle ingiustizie. Nel complesso, dal punto di vista giuridico il fatto di spostare la domanda sull'atto fondante del matrimonio è inevitabile, tuttavia costituisce una limitazione del problema che non può rendere pienamente giustizia alla natura dell'agire umano. Il processo di annullamento indica praticamente un gruppo di criteri per stabilire se a un determinato matrimonio non sono applicabili i parametri del matrimonio tra credenti. Ma non esaurisce il problema e quindi non può avanzare la pretesa di quella rigorosa esclusività che gli si è dovuta attribuire sotto il dominio di una determinata forma di pensiero.
b. Il riconoscimento che il secondo matrimonio si sia dimostrato per un tempo prolungato una realtà virtuosa e che sia stato vissuto nello spirito della fede, di fatto corrisponde a quel tipo di indulgenza che emerge in Basilio, dove, dopo un periodo protratto di penitenza, al "digamus" (cioè a chi vive in un secondo matrimonio) viene concessa la comunione senza l'annullamento del secondo matrimonio: nella fiducia nella misericordia di Dio, che non lascia senza risposta la penitenza. Quando dal secondo matrimonio sono nati obblighi morali nei confronti dei figli, della famiglia e anche della moglie e non esistono obblighi analoghi derivanti dal primo matrimonio; quando dunque, per motivi morali, la cessazione del secondo matrimonio è inammissibile e, d'altra parte, l'astinenza praticamente non è una possibilità reale ("magnorum est", dice Gregorio II), l'apertura della comunione eucaristica, dopo un tempo di prova, sembra essere senz'altro giusta e pienamente in linea con la tradizione della Chiesa: qui la concessione della "communio" non può dipendere da un atto che sarebbe immorale o, di fatto, impossibile.
La distinzione fatta mettendo a confronto la prima tesi con la seconda dovrebbe corrispondere anche alla cautela tridentina, sebbene come regola concreta vada oltre: l'anatema contro una dottrina che vuole rendere la forma fondamentale della Chiesa un errore, o quantomeno una consuetudine superabile, permane in tutto il suo rigore. Il matrimonio è "sacramentum", ha la forma fondamentale non eliminabile della decisione assunta fino in fondo. Ma ciò non esclude che la comunione eucaristica della Chiesa abbracci anche le persone che riconoscono questa dottrina e questo principio di vita, ma si trovano in una situazione di emergenza di natura speciale, nella quale hanno particolarmente bisogno della piena comunione con il Corpo del Signore. Anche così la fede della Chiesa rimarrà segno di contraddizione: è questo che considera essenziale, e proprio in questo sa di essere nella sequela del Signore, il quale ha annunciato ai suoi discepoli di non dover pretendere di essere al di sopra del Maestro, che è stato rifiutato da devoti e liberali, da ebrei e pagani.
(Traduzione dall'originale tedesco di Simona Storioni)
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Il titolo dell'articolo del 1972, mantenuto nella riedizione del 2014, è "Zur Frage nach der Unauflöslichkeit der Ehe. Bemerkungen zum dogmengeschichtlichen Befund und zu seiner gegenwärtigen Bedeutung (Sulla questione dell'indissolubilità del matrimonio. Osservazioni su quanto risulta dalla storia dei dogmi e sulla sua importanza attuale)".
L'articolo fu pubblicato nel 1972 dall'Accademia di Monaco nel volume a più voci "Ehe und Ehescheidung. Diskussion unter Christen (Matrimonio e divorzio. Discussione tra cristiani)", a cura di Franz Henrich e Volker Eid.
La riedizione dell'articolo, con la parte conclusiva interamente riscritta, è apparsa nell'autunno del 2014 nel seguente volume dell'edizione tedesca degli Opera Omnia:
J. Ratzinger - Benedikt XVI, "Einführung in das Christentum. Bekenntnis, Taufe, Nachfolge", Joseph Ratzinger Gesammelte Schriften, Band 4, Verlag Herder, Freiburg, 2014.
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DAL PAPA EMERITO AL PAPA REGNANTE
Per quanto riguarda la posizione di papa Francesco sulla questione "ri-trattata" dal suo predecessore nello scritto sopra riprodotto, è interessante ciò che ha detto il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, in un'intervista al "Corriere della Sera" del 2 dicembre:
> Scola: "Ai divorziati nlente comunione. Credo che il papa deciderà così"
Questo è il passaggio centrale dell'intervista:
D. – Sul punto della comunione ai divorziati risposati, qual è la sua posizione?
R. – Ne ho discusso intensamente, in particolare con i cardinali Marx, Danneels, Schönborn che erano nel mio “circolo minore”, ma non riesco a vedere le ragioni adeguate di una posizione che da una parte afferma l’indissolubilità del matrimonio come fuori discussione, ma dall’altra sembra negarla nei fatti, quasi operando una separazione tra dottrina, pastorale e disciplina. Questo modo di sostenere l’indissolubilità la riduce ad una sorta di idea platonica, che sta nell’empireo e non entra nel concreto della vita. E pone un grave problema educativo: come facciamo a dire a dei giovani che si sposano oggi, per i quali il “per sempre” è già molto difficile, che il matrimonio è indissolubile, se sanno che comunque ci sarà sempre una via d’uscita? È una questione poco sollevata, e la cosa mi stupisce molto.
D. – Quindi al sinodo lei ha votato con la minoranza?
R. – Semmai con la maggioranza, anche se non ragionerei in questi termini: sulle proposte che non hanno raggiunto i due terzi può esserci stato un voto trasversale. Certo la posizione del magistero a me è sembrata, nelle relazioni dei “circoli minori”, decisamente la più seguita.
D. – Se invece alla fine del sinodo il papa prendesse una posizione che lei non condivide?
R. – Credo proprio che non la prenderà.
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350933
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