da Cantuale Antonianum
Con l'arrivo del Natale, si sa, al confessionale c'è la coda (meno male); le richieste di ricevere la comunione - gioiosamente - aumentano, a volte in maniera troppo rapida. E visto che come dice il detto: a Natale siamo tutti più buoni.... anche i preti rischiano di essere più compassionevoli per sentimento che obbedienti al Vangelo e alle sue esigenze.
In questo frangente, poi, tra Sinodi di vescovi e chiacchiere di teologi, più di un sacerdote è un tantino in confusione sulla retta dottrina e conseguente prassi che ne discende (e non parliamo dei laici!). È meglio, allora, riprendere in mano i documenti vigenti, che regolano proprio adesso, non domani o chissà quando, la distribuzione della Sacra Comunione: quello stesso Corpo che la Vergine Maria depose nella mangiatoia a Betlemme e viene offerto ogni giorno - a chi è pentito e con le dovute disposizioni - dalla Madre Chiesa.
Vi posto, perciò, un documento uscito nel 2000. Si tratta della Dichiarazione sul canone 915 del Codice di Diritto Canonico, dichiarazione intesa a togliere ogni dubbio sulla questione della ricezione della comunione da parte di persone che vivono altre unioni, pur essendo legate da un matrimonio ecclesialmente valido.
Aggiungo qualche commento esplicativo al testo che, lo ribadisco, elimina con molta gentilezza - ma con chiara fermezza - i dubbi che sono stati sollevati in questi mesi (e lo fa con 14 anni di anticipo: e dire che c'è chi afferma che la Chiesa arriva sempre 200 anni dopo....)
DICHIARAZIONE
CIRCA L’AMMISSIBILITÀ ALLA SANTA COMUNIONE DEI DIVORZIATI RISPOSATI
(L’Osservatore Romano, 7 luglio 2000, p. 1; Communicationes, 32 [2000], pp. )
Il Codice di Diritto Canonico stabilisce che: «Non siano ammessi alla sacra Comunione gli scomunicati e gli interdetti, dopo l’irrogazione o la dichiarazione della pena e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto» (can. 915). Negli ultimi anni alcuni autori hanno sostenuto, sulla base di diverse argomentazioni, che questo canone non sarebbe applicabile ai fedeli divorziati risposati [tra questi autori già c'era il cardinal Kasper e altri le cui tesi già cassate vengono di continuo riproposte].
Viene riconosciuto che l’Esortazione Apostolica Familiaris consortio (1) del 1981 aveva ribadito, al n. 84, tale divieto in termini inequivocabili [ma se era inequivocabile perché si continua a voler equivocare?], e che esso è stato più volte riaffermato in maniera espressa [non solo una volta allora, e con totale certezza], specialmente nel 1992 dal Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1650, e nel 1994 dalla Lettera Annus internationalis Familiae della Congregazione per la Dottrina della Fede (2). Ciò nonostante, i predetti autori offrono varie interpretazioni del citato canone che concordano nell’escludere da esso in pratica la situazione dei divorziati risposati [si torna sempre alla carica, e anche oggi non è diverso].
Ad esempio, poiché il testo parla di «peccato grave» ci sarebbe bisogno di tutte le condizioni, anche soggettive, richieste per l’esistenza di un peccato mortale, per cui il ministro della Comunione non potrebbe emettere ab externo un giudizio del genere; inoltre, perché si parli di perseverare «ostinatamente» in quel peccato, occorrerebbe riscontrare un atteggiamento di sfida del fedele, dopo una legittima ammonizione del Pastore.Davanti a questo preteso contrasto tra la disciplina del Codice del 1983 e gli insegnamenti costanti della Chiesa in materia, questo Pontificio Consiglio, d’accordo con la Congregazione per la Dottrina della Fede e con la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, dichiara quanto segue [qui si dice che non c'è nessun contrasto, e che le Congregazioni nel 2000 erano assolutamente d'accordo. E allora che cosa sarebbe cambiato oggi?]:
1. La proibizione fatta nel citato canone, per sua natura, deriva dalla legge divina e trascende l’ambito delle leggi ecclesiastiche positive: queste non possono indurre cambiamenti legislativi che si oppongano alla dottrina della Chiesa. [chi fa il furbetto e vuol "cambiare solo la prassi" deve ricredersi, non sta alla Chiesa, né tantomeno agli uomini di Chiesa] Il testo scritturistico cui si rifà sempre la tradizione ecclesiale è quello di San Paolo: «Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna» (1Cor 11, 27-29) (3).
Questo testo concerne anzitutto lo stesso fedele e la sua coscienza morale, e ciò è formulato dal Codice al successivo canone 916. Ma l’essere indegno perché si è in stato di peccato pone anche un grave problema giuridico nella Chiesa: appunto al termine «indegno» si rifà il canone del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali che è parallelo al can. 915 latino: «Devono essere allontanati dal ricevere la Divina Eucaristia coloro che sono pubblicamente indegni» (can. 712). In effetti, ricevere il corpo di Cristo essendo pubblicamente indegno costituisce un danno oggettivo per la comunione ecclesiale; è un comportamento che attenta ai diritti della Chiesa e di tutti i fedeli a vivere in coerenza con le esigenze di quella comunione. Nel caso concreto dell’ammissione alla sacra Comunione dei fedeli divorziati risposati, lo scandalo, inteso quale azione che muove gli altri verso il male, riguarda nel contempo il sacramento dell’Eucaristia e l’indissolubilità del matrimonio. [lo scandalo è ciò che muove altri verso il male, ovvero a dire faccio anche io così. Non è ciò che fa gridare scandalizzati, ma anzi, ciò che induce in tentazione]. Tale scandalo sussiste anche se, purtroppo, siffatto comportamento non destasse più meraviglia: anzi è appunto dinanzi alla deformazione delle coscienze, che si rende più necessaria nei Pastori un’azione, paziente quanto ferma, a tutela della santità dei sacramenti, a difesa della moralità cristiana e per la retta formazione dei fedeli. [Viene affermato che lungi dal ritenere ormai accettabile una prassi per il vasto numero di casi, bisogna adesso, ancora con più coerenza, richiamare i vacillanti e soccorrere i caduti, non distribuire sacramenti tanto per quietare le rivendicazioni].
2. Qualunque interpretazione del can. 915 che si opponga al suo contenuto sostanziale, dichiarato ininterrottamente dal Magistero e dalla disciplina della Chiesa nei secoli, è chiaramente fuorviante [capito: qualunque interpretazione contraria è fuorviante, lo dice il Vaticano]. Non si può confondere il rispetto delle parole della legge (cfr. can. 17) con l’uso improprio delle stesse parole come strumenti per relativizzare o svuotare la sostanza dei precetti [è l'atteggiamento dei farisei, rispettare le parole evangeliche e svuotarle per fare il contrario quando sono viste troppo esigenti].
La formula «e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto» è chiara e va compresa in un modo che non deformi il suo senso, rendendo la norma inapplicabile. Le tre condizioni richieste sono:
a) il peccato grave, inteso oggettivamente, perché dell’imputabilità soggettiva il ministro della Comunione non potrebbe giudicare [qualcuno al Sinodo è tornato a chiedere l'analisi dal punto di vista soggettivo, già esclusa e motivatamente qui];
b) l’ostinata perseveranza, che significa l’esistenza di una situazione oggettiva di peccato che dura nel tempo e a cui la volontà del fedele non mette fine, non essendo necessari altri requisiti (atteggiamento di sfida, ammonizione previa, ecc.) perché si verifichi la situazione nella sua fondamentale gravità ecclesiale;
c) il carattere manifesto della situazione di peccato grave abituale.
[Dopo aver chiarito la giustizia, ecco che però arriva la misericordia: non è stata inventata da poco e la Chiesa è Madre da parecchio....: ]
Non si trovano invece in situazione di peccato grave abituale i fedeli divorziati risposati che, non potendo per seri motivi -quali, ad esempio, l’educazione dei figli- «soddisfare l’obbligo della separazione, assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi» (Familiaris consortio, n. 84), e che sulla base di tale proposito hanno ricevuto il sacramento della Penitenza. Poiché il fatto che tali fedeli non vivono more uxorio è di per sé occulto, mentre la loro condizione di divorziati risposati è di per sé manifesta, essi potranno accedere alla Comunione eucaristica solo remoto scandalo. [chi trasforma il secondo matrimonio in una amicizia anche stabile, per il bene dei figli, può confessarsi e comunicarsi, in modo che questo però non sia interpretato malamente da chi li conosce]
3. Naturalmente la prudenza pastorale consiglia vivamente di evitare che si debba arrivare a casi di pubblico diniego della sacra Comunione. I Pastori devono adoperarsi per spiegare ai fedeli interessati il vero senso ecclesiale della norma, in modo che essi possano comprenderla o almeno rispettarla [nella predicazione o nei consigli nel confessionale, cari amici sacerdoti, perdiamo un po' di tempo, non lasciamo solo a giornali e TV il privilegio di formare le coscienze delle persone affidate alle nostre cure pastorali!].
Quando però si presentino situazioni in cui quelle precauzioni non abbiano avuto effetto o non siano state possibili, il ministro della distribuzione della Comunione deve rifiutarsi di darla a chi sia pubblicamente indegno. Lo farà con estrema carità, e cercherà di spiegare al momento opportuno le ragioni che a ciò l’hanno obbligato. [Questa evidentemente è l'extrema ratio, la difesa a gesti di sfida, ahimé non così infrequenti]. Deve però farlo anche con fermezza, consapevole del valore che tali segni di fortezza hanno per il bene della Chiesa e delle anime.
Il discernimento dei casi di esclusione dalla Comunione eucaristica dei fedeli, che si trovino nella descritta condizione, spetta al Sacerdote responsabile della comunità. Questi darà precise istruzioni al diacono o all’eventuale ministro straordinario circa il modo di comportarsi nelle situazioni concrete. [il parroco ha la cura pastorale: il diacono si deve adeguare al suo pastore, non può scegliere in proprio, tantomeno gli eventuali ministri straordinari.]
4. Tenuto conto della natura della succitata norma (cfr. n. 1), nessuna autorità ecclesiastica può dispensare in alcun caso da quest’obbligo del ministro della sacra Comunione, né emanare direttive che lo contraddicano. [questo num. 4 è fortissimo: nessuna autorità ecclesiastica comprende il Romano Pontefice. Chiaro? Non mettiamo dunque in giro false aspettative. E se vengono emanate direttive contrarie da un vescovo o da un prete, sono da considerarsi irrilevanti, da non seguire.]
5. La Chiesa riafferma la sua sollecitudine materna per i fedeli che si trovano in questa situazione o in altre analoghe, che impediscano di essere ammessi alla mensa eucaristica. Quanto esposto in questa Dichiarazione non è in contraddizione con il grande desiderio di favorire la partecipazione di quei figli alla vita ecclesiale, che si può già esprimere in molte forme compatibili con la loro situazione. [ancora sulla misericordia e sulla verità, che fa parte della carità del pastore per le pecore a lui affidate]. Anzi, il dovere di ribadire questa non possibilità di ammettere all’Eucaristia è condizione di vera pastoralità, di autentica preoccupazione per il bene di questi fedeli e di tutta la Chiesa, poiché indica le condizioni necessarie per la pienezza di quella conversione, cui tutti sono sempre invitati dal Signore, in modo particolare durante quest’Anno Santo del Grande Giubileo.
Dal Vaticano, 24 giugno 2000.
Solennità della Natività di San Giovanni Battista
Julián Herranz
Arcivescovo tit. di Vertara
Presidente
Bruno Bertagna
Vescovo tit. di Drivasto
Segretario
Note:
(1) AAS, 73 (1981), pp. 185-186.
(2) AAS, 86 (1994), pp. 974-979.
(3) Cfr. CONCILIO DI TRENTO, Decreto sul sacramento dell’Eucaristia: DH 1646-1647, 1661.
La presente dichiarazione è consultabile qui sul sito del Vaticano
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