giovedì 28 novembre 2013

Così nel decreto dogmatico De sanctissimo sacrificio missae il Concilio di Trento parla del Canone Romano




Incipit del Canone Romano, Messale Romano del 1502, Tesoro di Sant’Orso, Aosta

«Niente in esso è contenuto che non elevi a Dio l’animo di coloro che offrono il santo sacrificio»



di Lorenzo Cappelletti



Dal decreto dogmatico del Concilio di Trento sul Santissimo Sacrificio della Messa 

«E, dato che le cose sante è bene che siano amministrate santamente e questo sacrificio è la cosa più santa fra tutte, la Chiesa cattolica, perché fosse offerto e ricevuto degnamente e con reverenza, da molti secoli ha stabilito il sacro Canone, così immune da qualunque errore che niente in esso è contenuto che non profumi di grandissima santità e pietà e che non elevi a Dio l’animo di coloro che offrono il sacrificio. Infatti esso è composto in parte dalle parole stesse del Signore, in parte da ciò che è stato tramandato dagli apostoli, e anche da ciò che è stato piamente stabilito da santi pontefici» 


Il primo atto della Sessione XXII celebrata il 17 settembre 1562 a Trento, nella quale sarebbero stati approvati la dottrina e le norme sul sacrificio della messa, fu un atto ecumenico apparentemente estraneo a quella questione: la lettura della dichiarazione di obbedienza del patriarca di Mosul Ebed Iesu. Per ricevere conferma della sua elezione da papa Paolo IV era venuto a Roma alla fine dell’anno precedente dall’odierno Iraq meridionale. Costui altri non era che il lontano predecessore di Raphaël Bidawid, l’odierno patriarca dei Caldei [morto nel 2003; l’attuale patriarca è Emmanuel Delly, ndr].

Non era uno stinco di santo, eppure fu lui a unire ufficialmente da quel momento Bagdhad a Roma. Affermava – ce ne dà notizia il cardinale Da Mula incaricato di prestargli accoglienza – che dalla sua sede dipendevano più di 200mila cristiani, che loro, i Caldei, avevano ricevuto la fede dagli apostoli Tommaso e Taddeo, e da Mari loro discepolo, che possedevano tutti i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, e inoltre le traduzioni di molti padri greci e latini e altri scritti ignoti ai latini che risalivano all’età apostolica; che presso di loro si praticava la confessione auricolare, si avevano quasi gli stessi sacramenti della Chiesa romana (
iisdem fere quibus nos), si veneravano le immagini dei santi e si pregava per i defunti come si faceva a Roma. E, quanto al Canone, che usavano quasi lo stesso Canone che si usava a Roma (Canone iisdem fere verbis in celebranda missa).

Quando fu letta la sua dichiarazione, peraltro, il nostro Ebed Iesu, rifornito di ricchi doni (amplis muneribus), era già tornato in patria, poiché la sua presenza vi era indispensabile, diceva. Gli storici dicono che «il vero motivo per cui non si fece vedere a Trento era il fatto che egli non capiva nessuna lingua occidentale» (Hubert Jedin). Non avrebbe capito nulla di quanto si sarebbe detto proprio in quella sessione del sacrificio della messa e del Canone. D’altronde i Caldei non lo mettevano in discussione. Il cardinale Da Mula, anzi, concludeva così la lettera di presentazione sopra ricordata: «I vani argomenti degli eretici sono refutati anche per il fatto che la dignità della Chiesa e la dottrina della salvezza oppugnata da gente a noi vicina, da mille e cinquecento anni è rimasta la medesima presso gente così lontana da noi, in mezzo a tanti mutamenti, a cambiamenti di re e di regni, sotto la pesante e costante persecuzione degli infedeli attraverso ingiustizie e malversazioni, in mezzo alla barbarie». Niente di più attuale se si pensa non solo all’Iraq, ma anche alla Cina.

I protestanti, in effetti, rifiutavano quella messa e soprattutto quel Canone che Ebed Iesu aveva riconosciuto tanto familiare. E di questo rifiuto avevano fatto una bandiera. In termini generali – scriveva il benedettino Gregory Dix, in un’opera composta all’epoca della Seconda guerra mondiale, ma che rimane un classico della storia della liturgia – «il corpo di Cristo aveva preso l’aspetto di una grande macchina tutta umana di salvezza attraverso sacramenti messi in opera per motivi tutti umani da uomini che agivano in nome e con la tecnica di un Cristo assente. Macchina che era venuta crescendo in modo assai complicato. [...] Tutta la sua forza e la sua energia erano assorbite dal mantenere sé stessa in funzione. [...] La vita della Chiesa era in mano alla macchina e la macchina funzionava, ma altro non si può dire».

La diffusione di ogni genere di abusi ne era l’immediata conseguenza, tanto che il Concilio stesso stabilì una speciale commissione che, in ordine alla celebrazione della messa, provvide a raccoglierne un centinaio: le chiacchiere coi fedeli prima della celebrazione e il compiacersi di gesti teatrali da parte dei sacerdoti, il piazzarsi in faccia al sacerdote celebrante da parte dei fedeli, e così via. Ma un conto era evidenziare degli abusi, un conto era abolire il prefazio, sostituire il
Padre nostro con una parafrasi moraleggiante, soprattutto abolire il Canone, per la ragione che esso avrebbe introdotto il culto pagano nella Chiesa. Lutero paragonava il Canone Romano all’altare che Acaz mise al posto dell’altare di bronzo nel Tempio di Salomone (cfr. 2Re 16, 7-18): «L’empio Acaz tolse l’altare di bronzo e lo sostituì con un altro fatto venire da Damasco. Parlo del lacero e abominevole Canone raccolta di omissioni e di immondezze: lì la messa ha preso a diventare un sacrificio, lì furono aggiunti l’offertorio e orazioni mercenarie, lì furono inserite in mezzo al Sanctus e al Gloria in excelsis sequenze e frasi. [...] E neppure oggi si smette di fare aggiunte a questo Canone». Gli altri riformatori scrivevano di peggio.

La difesa del Canone

Il Concilio di Trento prese le difese del Canone.
A Bologna, nel periodo travagliato eppure fecondo in cui il Concilio, o meglio parte di esso, vi si stabilì per neanche un anno fra il 1547 e il 1548 (causa un’epidemia di tifo a Trento, dove il Concilio si era aperto nel dicembre del 1545), i teologi cominciarono innanzitutto col difendere la forma della messa così come si era venuta storicamente formando, sulla base del principio guida (che fortunatamente non sarà più abbandonato) così sintetizzato da un altro grande liturgista, Burkhard Neunheuser: «Riformare, però senza perdere il contatto col periodo precedente, cioè continuando la tradizione medievale».
Principio che non si risolveva in una petizione di principio.

Infatti, scrive Dix, «le implicazioni del testo della liturgia potevano essere ignorate nell’insegnamento e nella pratica del tempo, ma esso ancora racchiudeva, come in uno scrigno, non l’insegnamento medievale, ma quelle antiche e semplici verità sull’eucaristia che Gregorio Magno aveva preservato e Alcuino aveva fedelmente trasmesso». Fu un atto di umiltà e di saggezza, anche perché – di questo ci si è resi conto solo molto tempo dopo – molti dei testi patristici, su cui ci si basava da entrambe le parti, erano corrotti e molti, come «i così importanti padri siriaci, erano del tutto sconosciuti» (Dix).

Magari non a Ebed Iesu.

Certo, il Canone Romano contiene passi un po’ difficili (obscuriora loca), dirà lo schema di decreto scaturito da quei primi dibattiti e abbisogna di una spiegazione. Ma il Concilio, che era tornato a Trento nel 1551, subì una nuova interruzione a partire dall’aprile 1552. Per un biennio, nelle previsioni. In realtà il Concilio si riaprì solo dopo dieci anni e quello schema rimase allo stato di crisalide.
Fu durante l’estate del 1562, quando già Ebed Iesu se ne era ritornato fra i Caldei, che si intensificò il lavoro. Jedin: «A Trento ci si rendeva conto che la dottrina del sacrificio della messa, che era allora in programma, non era inferiore per significato religioso e per importanza ecclesiastica alla dottrina della giustificazione che il Concilio aveva definito quindici anni prima, forse addirittura la sorpassava. Si trattava di comprendere il mistero centrale della fede, nel quale si attua costantemente l’unione della Chiesa col suo capo».

Cominciata il 20 luglio, la discussione serrata portò a un primo “progetto d’agosto” giudicato però troppo lungo. Qualche canonista sosteneva addirittura che era superfluo esporre la dottrina sul sacrificio della messa: sarebbe bastato difendere il Canone della messa per dire la dottrina cattolica sul sacrificio. Ma si decise tuttavia di mantenere la struttura del “progetto di agosto”, che, in analogia col decreto
De iustificatione, prevedeva una serie di capitoli dottrinali seguiti da canoni. Così i padri ricevettero fra il 4 e il 5 settembre un nuovo schema, il “progetto di settembre” che verrà approvato nella seduta solenne del 17 settembre, quella con cui si apriva il nostro articolo, e che si chiuse «molto tardo. Et tutti stracchi», dicono le cronache, i padri tornarono alle loro dimore. Fatica non vana. Il vero e proprio grido con cui il vescovo di Ventimiglia aveva concluso l’omelia della messa d’apertura di quella sessione era stato ascoltato: «Salvaci, Signore, noi periamo!». 


<I>La sessione conclusiva  <br /> del Concilio di Trento nel 1563</I>,  <br /> dipinto di Nicolò Dorigati, 1692-1748

La sessione conclusiva del Concilio di Trento nel 1563, dipinto di Nicolò Dorigati, 1692-1748
Un’aggiunta non superflua

Fra il 5 settembre e il 17, peraltro, ci furono delle aggiunte, fra cui una aggiunta essenziale (vedi box) al capitolo IV, per le insistenze e le preghiere allo Spirito Santo di qualche padre e di qualche teologo. Il capitolo IV, ancora nell’ultimo schema, parlava del Canone come istituzione ecclesiastica, senza alcun riferimento alla sua antichità né alla tradizione da cui scaturiva. Ora invece, nel testo definitivo, senza impegnarsi giustamente nello specificare la data e le parti della sua composizione, e facendola pur sempre risalire alla Chiesa (Ecclesia catholica sacrum Canonem instituit), il Concilio dice però il Canone istituito «da molti secoli» e formato «dalle parole stesse del Signore», da «ciò che è stato tramandato dagli apostoli» e «da ciò che è stato piamente stabilito da santi pontefici».

È per questo (
enim si legge nel testo latino), cioè perché raccoglie il deposito della tradizione, che è immune da ogni errore. E solo così può essere condannato, nel corrispondente canone 6, chi ne chiede l’abrogazione. Non contenendo errori («infatti esso è composto in parte dalle parole stesse del Signore, in parte da ciò che è stato tramandato dagli apostoli, e anche da ciò che è stato piamente stabilito da santi pontefici»), proprio per questo (ideoque) non deve essere abrogato.
Delle parti oscure del Canone e della loro spiegazione di cui nello schema del 1552, nel testo finale non si parla più. Bisognerebbe capire perché. «Per ragioni di brevità» – scrive, in un articolo postconciliare eppure già datato sul Canone Romano, Jerome P. Theisen – e sembra sottintendere “purtroppo!”. Theisen lamenta che il Concilio di Trento, particolarmente riguardo al Canone, abbia avuto una reazione puramente difensiva, non sia stato creativo e verboso, come piace oggi. 

Per favore, riflettere sul seguente passaggio preconciliare, ma solo per data, di Dix: «Il vantaggio della Controriforma fu che essa conservò il testo di una liturgia che in sostanza risaliva a molto prima dello sviluppo medievale. Con questo preservò quelle primitive formulazioni in cui riposava la vera soluzione delle difficoltà medievali, anche se ci volle del tempo prima che la Chiesa postridentina ne facesse uso per lo scopo. I protestanti al contrario abbandonarono l’intero testo della liturgia e specialmente quegli elementi in essa che erano un genuino documento di quella Chiesa primitiva che essi affermavano di restaurare. Introdussero al suo posto forme che derivavano e esprimevano la tradizione medievale dalla quale scaturiva il loro stesso movimento».
Eterogenesi dei fini.



Archivio di 30Giorni

martedì 26 novembre 2013

Evangelii gaudium: esortazione post-sinodale






Sintesi a cura di Sergio Centofanti

“La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia. In questa Esortazione desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni” (1). Così inizia l’Esortazione apostolica “Evangelii Gaudium” di Papa Francesco.
Pubblichiamo il testo integrale dell'Esortazione preceduto da un'ampia sintesi a cura di Radio Vaticana.
[L'Evangelii gaudium è] un accorato appello a tutti i battezzati perché con nuovo fervore e dinamismo portino agli altri l’amore di Gesù in uno “stato permanente di missione” (25), vincendo “il grande rischio del mondo attuale”: quello di cadere in “una tristezza individualista” (2). “Anche i credenti corrono questo rischio” (2), perché “ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua” (6): un evangelizzatore non dovrebbe avere “una faccia da funerale” (10). E' necessario passare "da una pastorale di semplice conservazione a una pastorale decisamente missionaria" (15).

Riforma delle strutture ecclesiali
Il Papa invita a “recuperare la freschezza originale del Vangelo”, trovando “nuove strade” e “metodi creativi” (11). L’appello rivolto a tutti i cristiani è quello di “uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo”: “tutti siamo chiamati a questa nuova ‘uscita’ missionaria” (20). Si tratta “di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno” e che spinge a porsi in un “permanente stato di missione” (25). E’ necessaria una “riforma delle strutture” ecclesiali perché “diventino tutte più missionarie” (27). Partendo dalle parrocchie, il Papa nota che l’appello al loro rinnovamento “non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente” (28). Le altre realtà ecclesiali “sono una ricchezza della Chiesa”, ma devono integrarsi “con piacere nella pastorale organica della Chiesa particolare” (29).

Conversione del papato
Quindi aggiunge: “Dal momento che sono chiamato a vivere quanto chiedo agli altri, devo anche pensare a una conversione del papato” perché sia “più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione”. Giovanni Paolo II “chiese di essere aiutato a trovare «una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova». Siamo avanzati poco in questo senso”. “Il Concilio Vaticano II ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le Conferenze episcopali possono «portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente». Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria” (32).

Concentrarsi sull’essenziale
Riguardo all’annuncio, afferma che è necessario concentrarsi sull’essenziale, evitando una pastorale “ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere” (35): “in questo nucleo fondamentale ciò che risplende è la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto” (36). Succede che si parli “più della legge che della grazia, più della Chiesa che di Gesù Cristo, più del Papa che della Parola di Dio” (38). “A quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature” dice: “in seno alla Chiesa ... le diverse linee di pensiero filosofico, teologico e pastorale, se si lasciano armonizzare dallo Spirito nel rispetto e nell’amore, possono far crescere la Chiesa, in quanto aiutano ad esplicitare meglio il ricchissimo tesoro della Parola” (40). Circa il rinnovamento, afferma che occorre riconoscere consuetudini della Chiesa “non direttamente legate al nucleo del Vangelo, alcune molto radicate nel corso della storia”: “non abbiamo paura di rivederle”. (43).

Una Chiesa con le porte aperte
“La Chiesa – scrive il Papa – è chiamata ad essere sempre la casa aperta del padre. Uno dei segni concreti di questa apertura è avere dappertutto chiese con le porte aperte”. “Nemmeno le porte dei Sacramenti si dovrebbero chiudere per una ragione qualsiasi”. Così “l’Eucaristia, sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli. Queste convinzioni hanno anche conseguenze pastorali che siamo chiamati a considerare con prudenza e audacia. Di frequente ci comportiamo come controllori della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa non è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa” (47). Quindi ribadisce quanto diceva a Buenos Aires: “preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli” senza l’amicizia di Gesù (49).

Sistema economico attuale ingiusto alla radice
Parlando di alcune sfide del mondo attuale, denuncia l’attuale sistema economico: “è ingiusto alla radice” (59). “Questa economia uccide”, fa prevalere la “legge del più forte, dove il potente mangia il più debole”. L’attuale cultura dello “scarto” ha creato “qualcosa di nuovo”: “gli esclusi non sono ‘sfruttati’ ma rifiuti, ‘avanzi’” (53). C’è la “nuova tirannia invisibile, a volte virtuale”, di un “mercato divinizzato” dove regnano “speculazione finanziaria”, “corruzione ramificata”, “evasione fiscale egoista” (56). Il documento affronta poi gli “attacchi alla libertà religiosa” e le “nuove situazioni di persecuzione dei cristiani, le quali, in alcuni Paesi, hanno raggiunto livelli allarmanti di odio e di violenza. In molti luoghi si tratta piuttosto di una diffusa indifferenza relativista” (61).

Individualismo postmoderno snatura vincoli familiari
La famiglia, “cellula fondamentale della società” – prosegue il Papa – “attraversa una crisi culturale profonda”. Ribadendo, quindi, “il contributo indispensabile del matrimonio alla società” (66), il Papa sottolinea che “l’individualismo postmoderno e globalizzato favorisce uno stile di vita … che snatura i vincoli familiari”(67).

Tentazioni degli operatori pastorali
Il testo affronta poi le “tentazioni degli operatori pastorali”. Il Papa, afferma, “come dovere di giustizia, che l’apporto della Chiesa nel mondo attuale è enorme. Il nostro dolore e la nostra vergogna per i peccati di alcuni membri della Chiesa, e per i propri, non devono far dimenticare quanti cristiani danno la vita per amore” ((76). Ma “si possono riscontrare in molti operatori di evangelizzazione, sebbene preghino, un’accentuazione dell’individualismo, una crisi d’identità e un calo del fervore” (78); in altri si nota “una sorta di complesso di inferiorità, che li conduce a relativizzare o ad occultare la loro identità cristiana” (79). “La più grande minaccia” è “il grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale tutto apparentemente procede nella normalità, mentre in realtà la fede si va logorando e degenerando nella meschinità” . Si sviluppa “la psicologia della tomba, che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo” (83). Tuttavia, il Papa invita con forza a non lasciarsi prendere da un “pessimismo sterile” (84). Nei deserti della società sono molti i segni della “sete di Dio”: c’è dunque bisogno di persone di speranza, “persone-anfore per dare da bere agli altri” (86). “Il Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza” (88).

Dio ci liberi da una Chiesa mondana
Denuncia quindi “la mondanità spirituale, che si nasconde dietro apparenze di religiosità e persino di amore alla Chiesa”: consiste “nel cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana ed il benessere personale” (93). Questa mondanità si esprime in due modi: “il fascino dello gnosticismo, una fede rinchiusa nel soggettivismo” e “il neopelagianesimo autoreferenziale e prometeico di coloro che … fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché … sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato. E’ una presunta sicurezza dottrinale o disciplinare che dà luogo ad un elitarismo narcisista e autoritario, dove invece di evangelizzare si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare” (94). In altri “si nota una cura ostentata della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, ma senza che li preoccupi il reale inserimento del Vangelo nel Popolo di Dio e nei bisogni concreti della storia”. In altri ancora, la mondanità “si esplica in un funzionalismo manageriale … dove il principale beneficiario non è il Popolo di Dio ma piuttosto la Chiesa come organizzazione” (95). “E’ una tremenda corruzione con apparenza di bene … Dio ci liberi da una Chiesa mondana sotto drappeggi spirituali o pastorali!” (97).

Più spazio nella Chiesa a laici, donne e giovani
Altra denuncia: “all’interno del Popolo di Dio e nelle diverse comunità, quante guerre!” per “invidie e gelosie”. “Alcuni … più che appartenere alla Chiesa intera, con la sua ricca varietà, appartengono a questo o quel gruppo che si sente differente o speciale” (98). Il Papa sottolinea quindi la necessità di far crescere “la coscienza dell’identità e della missione del laico nella Chiesa”. Talora, “un eccessivo clericalismo” mantiene i laici “al margine delle decisioni” (102). “La Chiesa riconosce l’indispensabile apporto della donna nella società”, ma “c’è ancora bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa”. Occorre garantire la presenza delle donne “nei diversi luoghi dove vengono prese le decisioni importanti, tanto nella Chiesa come nelle strutture sociali” (103). “Le rivendicazioni dei legittimi diritti delle donne …non si possono superficialmente eludere. Il sacerdozio riservato agli uomini, come segno di Cristo Sposo che si consegna nell’Eucaristia, è una questione che non si pone in discussione, ma può diventare motivo di particolare conflitto se si identifica troppo la potestà sacramentale con il potere”. “Nella Chiesa le funzioni «non danno luogo alla superiorità degli uni sugli altri». Di fatto, una donna, Maria, è più importante dei vescovi” (104). Poi, il Papa rileva che i giovani devono avere “un maggiore protagonismo” (106). Riguardo alla scarsità di vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata che si riscontra in molti luoghi, afferma che “spesso questo è dovuto all’assenza nelle comunità di un fervore apostolico contagioso”. Nello stesso tempo, “non si possono riempire i seminari sulla base di qualunque tipo di motivazione, tanto meno se queste sono legate ad insicurezza affettiva, a ricerca di forme di potere, gloria umana o benessere economico” (107).

La Chiesa ha un volto pluriforme
Affrontando il tema dell’inculturazione, il Papa ricorda che “il cristianesimo non dispone di un unico modello culturale” e che “la Chiesa esprime la sua autentica cattolicità” mostrando la bellezza di un “volto pluriforme”. (116) “Non farebbe giustizia alla logica dell’incarnazione pensare ad un cristianesimo monoculturale e monocorde” (117). Il testo ribadisce “la forza evangelizzatrice della pietà popolare” (122). “Non coartiamo né pretendiamo di controllare questa forza missionaria!” (124). Il Papa incoraggia “il carisma dei teologi e il loro sforzo nell’investigazione teologica” ma li invita ad avere “a cuore la finalità evangelizzatrice della Chiesa e della stessa teologia” e a non accontentarsi “di una teologia da tavolino” (133).

Omelia: saper dire parole che fanno ardere i cuori
A questo punto, il Papa si sofferma “con una certa meticolosità, sull’omelia e la sua preparazione, perché molti sono i reclami in relazione a questo importante ministero e non possiamo chiudere le orecchie” (135). Innanzitutto, “chi predica deve riconoscere il cuore della sua comunità per cercare dov’è vivo e ardente il desiderio di Dio” (137). “L’omelia non può essere uno spettacolo di intrattenimento”, “deve essere breve ed evitare di sembrare una conferenza o una lezione” (138). Bisogna saper dire "parole che fanno ardere i cuori", rifuggendo da una "predicazione puramente moralista e indottrinante" (142). “La preparazione della predicazione è un compito così importante che conviene dedicarle un tempo prolungato di studio, preghiera, riflessione”, rinunciando anche “ad altri impegni, pur importanti”. “Un predicatore che non si prepara non è ‘spirituale’, è disonesto ed irresponsabile verso i doni che ha ricevuto” (145). “Una buona omelia … deve contenere ‘un’idea, un sentimento, un’immagine’” (157). “Altra caratteristica è il linguaggio positivo. Non dice tanto quello che non si deve fare ma piuttosto propone quello che possiamo fare meglio”. “Una predicazione positiva offre sempre speranza, orienta verso il futuro, non ci lascia prigionieri della negatività” (159).

Ruolo fondamentale del “kerygma”
“Nella catechesi ha un ruolo fondamentale il primo annuncio o ‘kerygma’”. Sulla bocca del catechista risuoni sempre il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”(164). Ci sono “alcune disposizioni che aiutano ad accogliere meglio l’annuncio: vicinanza, apertura al dialogo, pazienza, accoglienza cordiale che non condanna” (165). Il Papa indica l’arte dell’accompagnamento, “perché tutti imparino sempre a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro” che bisogna vedere “con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana” (169).

Una Chiesa povera per i poveri
Ricorda, quindi, “l’intima connessione tra evangelizzazione e promozione umana” (178). Ribadisce il diritto dei Pastori “di emettere opinioni su tutto ciò che riguarda la vita delle persone, dal momento che il compito dell’evangelizzazione implica ed esige una promozione integrale di ogni essere umano. Non si può più affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo” (182). “Nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza nella vita sociale e nazionale”. “Una fede autentica – che non è mai comoda e individualista – implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo”. E cita Giovanni Paolo II laddove dice che la Chiesa “non può né deve rimanere al margine della lotta per la giustizia” (183). “Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri” (187). “A volte si tratta di ascoltare il grido … dei popoli più poveri della terra, perché ‘la pace si fonda non solo sul rispetto dei diritti dell'uomo, ma anche su quello dei diritti dei popoli’. Deplorevolmente persino i diritti umani possono essere utilizzati come giustificazione di una difesa esacerbata dei diritti individuali o dei diritti dei popoli più ricchi” (190). Il Papa denuncia la “cattiva distribuzione dei beni e del reddito” (191). Quindi lancia un monito: “Non preoccupiamoci unicamente di cadere in errori dottrinali, ma anche di essere fedeli a questo cammino luminoso di vita e di sapienza. Perché ‘ai difensori «dell'ortodossia» si rivolge a volte il rimprovero di passività, d'indulgenza o di colpevoli complicità rispetto a situazioni di ingiustizia intollerabili e verso i regimi politici che le mantengono’” (194). In questo contesto “c'è un segno che non deve mai mancare: l’opzione per gli ultimi, per quelli che la società scarta e getta via” (195). “Per la Chiesa l'opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica”. “Per questo chiedo una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci” (198). Il Papa poi afferma che “la peggior discriminazione che soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale” (200). “Finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri … non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema” (202).

I politici abbiano cura dei deboli
“La politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose di carità, perché cerca il bene comune” – scrive il Papa - “Prego il Signore che ci regali più politici che abbiano davvero a cuore la società, il popolo, la vita dei poveri!” (205). Invita ad avere cura dei più deboli: “i senza tetto, i tossicodipendenti, i rifugiati, i popoli indigeni, gli anziani sempre più soli e abbandonati”. Riguardo ai migranti esorta “i Paesi ad una generosa apertura, che, al posto di temere la distruzione dell'identità locale, sia capace di creare nuove sintesi culturali” (210). Il Papa parla “di coloro che sono oggetto delle diverse forme di tratta delle persone” e delle nuove forme di schiavismo: “Nelle nostre città è impiantato questo crimine mafioso e aberrante, e molti hanno le mani che grondano sangue a causa di una complicità comoda e muta” (211). “Doppiamente povere sono le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza” (212).

Riconoscere dignità umana dei nascituri: aborto non è progressista
“Tra questi deboli di cui la Chiesa vuole prendersi cura con predilezione, ci sono anche i bambini nascituri, che sono i più indifesi e innocenti di tutti, ai quali oggi si vuole negare la dignità umana al fine di poterne fare quello che si vuole, togliendo loro la vita e promuovendo legislazioni in modo che nessuno possa impedirlo” (213). “Non ci si deve attendere che la Chiesa cambi la sua posizione su questa questione. Voglio essere del tutto onesto al riguardo. Questo non è un argomento soggetto a presunte riforme o a ‘modernizzazioni’. Non è progressista pretendere di risolvere i problemi eliminando una vita umana. Però è anche vero che abbiamo fatto poco per accompagnare adeguatamente le donne che si trovano in situazioni molto dure, dove l'aborto si presenta loro come una rapida soluzione alle loro profonde angustie” (214). Poi, l’appello a rispettare tutto il creato: “Piccoli, però forti nell’amore di Dio, come San Francesco d’Assisi, tutti i cristiani siamo chiamati a prenderci cura della fragilità del popolo e del mondo in cui viviamo” (216).

Voce profetica per la pace
Riguardo al tema della pace, il Papa afferma che è “necessaria una voce profetica” quando si vuole attuare una falsa riconciliazione che “metta a tacere” i poveri, mentre alcuni “non vogliono rinunciare ai loro privilegi” (218). Per la costruzione di una società “in pace, giustizia e fraternità” indica quattro principi (221): “il tempo è superiore allo spazio” (222) significa “lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati” (223). “L’unità prevale sul conflitto” (226) vuol dire operare perché gli opposti raggiungano “una pluriforme unità che genera nuova vita” (228). “La realtà è più importante dell’idea” (231) significa evitare che la politica e la fede siano ridotte alla retorica (232). “Il tutto è superiore alla parte” significa mettere insieme globalizzazione e localizzazione (234).

Una Chiesa che dialoga
“L’evangelizzazione – prosegue il Papa – implica anche un cammino di dialogo” che apre la Chiesa a collaborare con tutte le realtà politiche, sociali, religiose e culturali (238). L’ecumenismo è “una via imprescindibile dell’evangelizzazione”. Importante l’arricchimento reciproco: “quante cose possiamo imparare gli uni dagli altri!”, per esempio “nel dialogo con i fratelli ortodossi, noi cattolici abbiamo la possibilità di imparare qualcosa di più sul significato della collegialità episcopale e sulla loro esperienza della sinodalità” (246); “il dialogo e l’amicizia con i figli d’Israele sono parte della vita dei discepoli di Gesù” (248); “il dialogo interreligioso”, che va condotto “con un’identità chiara e gioiosa”, è “una condizione necessaria per la pace nel mondo” e non oscura l’evangelizzazione (250-251); “in quest’epoca acquista notevole importanza la relazione con i credenti dell’Islam (252): il Papa implora “umilmente” affinché i Paesi di tradizione islamica assicurino la libertà religiosa ai cristiani, anche “tenendo conto della libertà che i credenti dell’Islam godono nei paesi occidentali!”. “Di fronte ad episodi di fondamentalismo violento” invita a “evitare odiose generalizzazioni, perché il vero Islam e un’adeguata interpretazione del Corano si oppongono ad ogni violenza” (253). E contro il tentativo di privatizzare le religioni in alcuni contesti, afferma che “il rispetto dovuto alle minoranze di agnostici o di non credenti non deve imporsi in modo arbitrario che metta a tacere le convinzioni di maggioranze credenti o ignori la ricchezza delle tradizioni religiose” (255). Ribadisce quindi l’importanza del dialogo e dell’alleanza tra credenti e non credenti (257).

Evangelizzatori con Spirito
L’ultimo capitolo è dedicato agli “evangelizzatori con Spirito”, che sono quanti “si aprono senza paura all’azione dello Spirito Santo” che “infonde la forza per annunciare la novità del Vangelo con audacia (parresia), a voce alta e in ogni tempo e luogo, anche controcorrente” (259). Si tratta di “evangelizzatori che pregano e lavorano” (262), nella consapevolezza che “la missione è una passione per Gesù ma, al tempo stesso, è una passione per il suo popolo” (268): “Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri” (270). “Nel nostro rapporto col mondo – precisa – siamo invitati a dare ragione della nostra speranza, ma non come nemici che puntano il dito e condannano” (271). “Può essere missionario – aggiunge – solo chi si sente bene nel cercare il bene del prossimo, chi desidera la felicità degli altri” (272): “se riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio, questo è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita” (274). Il Papa invita a non scoraggiarsi di fronte ai fallimenti o agli scarsi risultati perché la “fecondità molte volte è invisibile, inafferrabile, non può essere contabilizzata”; dobbiamo sapere “soltanto che il dono di noi stessi è necessario” (279). L’Esortazione si conclude con una preghiera a Maria “Madre dell’Evangelizzazione”. “Vi è uno stile mariano nell’attività evangelizzatrice della Chiesa. Perché ogni volta che guardiamo a Maria torniamo a credere nella forza rivoluzionaria della tenerezza e dell’affetto” (288).




Radio Vaticana, del 26.11.2013


lunedì 25 novembre 2013

SE I GIOVANI NON DICONO PIU’ “TI AMO!”




di Antonio Socci

Prima la “scoperta” dei femminicidi. Poi quella della prostituzione minorile a Roma e non solo. Si è detto che sono patologie della nostra società.
Ma la fisiologia dei rapporti affettivi, ciò che oggi consideriamo la normalità, qual è? Siamo certi che sia sana e felice?
Mi ha colpito una lettera – rimasta senza risposta – di uno studente del primo anno di liceo classico, uscita su “Repubblica”. Era titolata: “Perché tra noi liceali non si usa più ‘ti amo!’ ”.

PAROLONI?

Lo studente, Marco D.G., scrive: “ho notato che le parole ‘ti amo’ stanno progressivamente scomparendo tra i giovanissimi: diverse persone le ritengono ‘paroloni’, fastidiosi, estranei, barocchi e patetici”.
Poi spiega che i suoi coetanei, i quali non usano più queste espressioni d’amore, lo fanno “per motivazioni molto tristi”.
Che lui riassume così: “l’amore, a questa età, non esiste, non è importante, non deve essere importante. Sarà qualcosa che verrà più tardi. Dopotutto, mi dice una mia cara amica a proposito delle sue vicissitudini, ‘se smetti di amare vuol dire che non hai amato’. Tutti ragionamenti  in larga parte appoggiati e incentivati da parenti, più o meno stretti. Questo modo d’agire non vuol dire sminuire gli amori di quest’età? Non è sbagliato?”.
Può essere giusto il realismo di chi fa capire al figlio adolescente che la “cottarella” è solo una piccola scintilla dell’immenso mistero che è l’amore. Ma la lettera dello studente forse coglie anche un altro fenomeno: un cinismo diffuso.

RIDOTTI A CORPI

Dopo un’epoca che ha inflazionato la parola “amore”, applicandola assurdamente a una guerra dei sessi che ha lasciato e lascia a terra morti e feriti (non solo in senso metaforico), si è passati a un tale scetticismo che quasi esclude in partenza la “folle” possibilità di amare ed essere amati.
Così abbiamo una giovane generazione ipersessualizzata a cui è precluso l’amore vero e perfino l’uso della parola amore, mentre tutti gli usi del corpo sono permessi, anzi sono imposti come obbligo: alcune liceali intervistate da “Porta a porta”, lunedì, spiegavano come sia diventata una vergogna sociale essere ancora vergini a 16 anni.
Si vuole che sia una generazione di corpi senz’anima. E’ il prodotto della generazione del ’68 e della sua unica, vera rivoluzione: la rivoluzione sessuale (che poi è il vertice del consumismo contro cui, a parole, si battevano).
E questo è l’esito: il panorama di rovine che abbiamo davanti, un colossale discount planetario del sesso che ha l’aspetto di un campo di battaglia cosparso di feriti, di schiavi e di schiave.

LIBERTA’ O DEVASTAZIONE?

La famosa “liberazione sessuale” aveva promesso la felicità. Ma quella che vediamo è una società ammalata, infelice e violenta. E che non sa più cos’è l’amore. Tanto che consiglia di “rassegnarsi” già a 17 anni.
Si avvera la “profezia” di Max Horkeimer, il fondatore della Scuola di Francoforte, che, pur provenendo dal marxismo, dette ragione all’Humanae vitae di Paolo VI sostenendo che “la pillola”, cioè la trasformazione della sessualità in consumo di corpi sempre disponibili, come una merce di supermercato, sarebbe stata “la morte dell’amore” e quindi dell’eros, trasformando Romeo e Giulietta “in un pezzo da museo”.
Questa devastazione sta davanti agli occhi di tutti. Mi ha colpito, ad esempio, ciò che, qualche settimana fa, ha scritto Piero Ottone nella rubrica che tiene sul “Venerdì di Repubblica”.
Ottone, come si sa, dopo il licenziamento di Spadolini, nel 1972, diventò direttore del “Corriere della sera” per portare clamorosamente a sinistra, in sintonia con la ventata rivoluzionaria, l’antico giornale della borghesia liberale (è appunto per questo che Indro Montanelli si sentì costretto ad andarsene e a fondare “Il Giornale”).
Ebbene, Ottone, da distaccato osservatore, qualche settimana fa ha scritto: “nel giro di mezzo secolo, il costume sessuale è cambiato in modo sensazionale (…). Libertà sessuale, un segno di progresso, dunque?”.
Il suo giudizio è opposto: “si può vedere nella libertà oggi imperante (…) il segno della graduale disintegrazione della civiltà… L’abolizione delle regole, il ritorno alla licenza assoluta è un nuovo segno di declino”.
Questa è oggi la sua pesante sentenza: “disintegrazione della società”, “declino”. Ma non avevano promesso – con l’abbattimento dei tabù – il paradiso in terra?
Eppure già allora qualcuno l’aveva predetto e continua a ripeterlo. Ma oggi come ieri si prende gli sberleffi e gli anatemi di quel “progressismo adolescenziale” che – come dice papa Francesco – è al servizio del “pensiero unico”.
Però non basta lamentare l’oscurità dei tempi. Io voglio qui testimoniare – soprattutto pensando allo studente di cui ho citato la lettera all’inizio – che, nonostante tutto, ci sono luoghi dove il grande abbraccio dell’amore vero fra uomo e donna si insegna, si scopre e si vive.

GIUSSANI SULL’AMORE

Mi ha colpito, durante una presentazione del mio libro “Lettera a mi figlia”, ascoltare un giovane sacerdote, don Andrea Marinzi, che paragonava la mia primogenita e la vicenda che sta vivendo da quattro anni, alla figura della Maddalena quando, nel Vangelo, per il suo Gesù, ruppe il vasetto d’alabastro contenente un preziosissimo olio profumato per ungere i capelli del Maestro, tanto amato, “e tutta la casa si riempì di quel profumo”.
Don Andrea attribuiva a don Giussani questa immagine e l’altroieri ho trovato proprio questa sua pagina nella biografia che gli ha dedicato Alberto Savorana. E’ la cosa più bella – secondo me – che sia mai stata scritta sull’amore umano.
A quel tempo, attorno al 1952, Giussani era un giovane prete che non aveva ancora iniziato la storia di CL, ma – confessando in una parrocchia di Milano – attirava l’interesse di molti studenti.
Lui restava però colpito dalla superficialità dei loro legami affettivi senza nostalgia, da quel passare da una ragazza all’altra inseguendo soltanto un piccolo piacere effimero. E non la donna amata, non l’amore della vita.
Per questo annota in un suo appunto che così:

“il senso della vita si ottunde e il cerchio resta chiuso, freddo, attorno a noi: egoismo. Non si cerca più la persona per la quale sola l’anima si spacca e si apre: si dona. Si sacrifica… La Maddalena spaccò il vaso di alabastro: ‘sciupò’ il profumo, lo donò. Ogni dono è perdita. Amare veramente una persona appare come uno sciupare: se stessi, energie, tempo, calcolo, tornaconto, gusti. Gli altri, al gesto della Maddalena, scrollarono il capo: ‘pazza! Senza criterio! Senza interesse!’. Ma in quella sala solo lei ‘viveva’, perché solo amare è vivere (…). Quell’aprirsi ad altri: agli altri, a tutti gli altri – attraverso la scorza rotta del proprio io, solitamente c’è un viso che ha funzione di spaccare la corteccia del nostro egoismo, di tenere aperta questa meravigliosa ferita, quel viso è il suscitatore e lo stimolatore del nostro amore; il nostro spirito si sente fiorire di generosità al suo contatto, ed attraverso a quel viso si dona, a fiotti, agli altri, a tutti gli altri, all’universo”.

Si può pensare che sia utopistico ciò che scrive Giussani, si può ritenere che nessuno sia capace di amare così, ma non si può negare che tutti, proprio tutti, nel profondo del cuore desiderano essere amati così.
E che questo miracolo sia possibile lo fa intuire la conclusione di Giussani, facendo intravedere Gesù Cristo:

“quel viso è il riverbero umano di Lui. Se quel viso è lontano, la sua nostalgia, oh, non intorpidisce l’attività. La vera nostalgia di lui è la più dinamica malia, è il più potente richiamo alle energie perché compiamo il nostro dovere così da renderci più degni di chi amiamo. Soffrire per Ciò”.

Questi sono i maestri di umanità di cui abbiamo bisogno, noi, i feriti di questo campo di battaglia che è la modernità.
Giussani, papa Francesco, uomini che ci affascinano mostrando cosa sono l’amore, il perdono e la grandezza dell’essere uomini e donne. E’ così che ci sorprende la gioia. Quella autentica.



Da “Libero”, 22 novembre 2013

antoniosocci.com  22 novembre 2013


sabato 23 novembre 2013

Lateranense ai piedi di Napolitano. Noi ci dissociamo




Non ci scandalizzano le cortesie istituzionali che la Chiesa riserva ai capi di Stato, anche i più discussi: giustamente si tiene la porta aperta al dialogo con tutti, se possibile si trova anche il modo di collaborare per migliorare la condizione degli uomini. Né ci scandalizza un rapporto di amicizia personale tra il papa o un cardinale e un capo di Stato lontano dalla fede. Molte volte è proprio l’amicizia con un uomo di profonda fede che fa breccia nel cuore dell’uomo, anche il più duro. Ne abbiamo avuto un esempio anche questa settimana ripercorrendo la straordinaria conversione – grazie all’amicizia con Tolkien - dello scrittore C.S.Lewis, di cui ricorreva il 22 novembre il 50esimo anniversario della morte.

E però quando si comincia a fare confusione tra bene e male, quando le cose cambiano nome allora non capiamo più. Oppure c’è qualcosa che ci sfugge nell’onorificenza concessa al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dalla Pontificia Università Lateranense. Giovedì 21 novembre infatti Napolitano si è recato in visita alla Lateranense, «l’Università del Papa», accolto dal vicario di Roma cardinale Agostino Vallini e dal rettore dell’Ateneo monsignor Enrico dal Covolo. Grande cordialità - e va bene - ma poi ecco il conferimento della Medaglia d’onore dell’Università. E già qui il primo colpo – un conto è accogliere, un altro è premiare -, poi ecco la motivazione:

«Per il generoso impegno nella promozione dei diritti della persona; per la passione educativa nei confronti delle nuove generazioni, speranza e garanzia di una società rispettosa dei principi democratici incardinati nella Costituzione della Repubblica Italiana; per la coerente testimonianza di vita, che invita gli studenti all'impegno quotidiano e alle competenze indispensabili per valorizzare, nel dialogo sincero, le differenze di cultura, di nazionalità, di razza, di religione».

E allora qui, escludendo la possibilità di un caso di omonimia, proprio non capiamo.
“Generoso impegno nella promozione dei diritti della persona”, dice la Lateranense: ma non stiamo parlando di quel Napolitano che, come dirigente del Partito Comunista, ha per decenni apertamente sostenuto la repressione di tanti popoli sotto il regime sovietico? Che ha teorizzato la necessità dell’intervento dei carri armati sovietici in Ungheria nel 1956, senza aver mai fatto cenno a una qualsiasi forma di pentimento? E ancora: non è lo stesso Napolitano che dal caso Welby (2006) in poi non ha perso occasione per fare pressioni a favore di una legge pro-eutanasia? Il cui intervento – fuori dai binari concessigli dalla Costituzione - è stato decisivo per uccidere Eluana Englaro?  In quella drammatica occasione, siamo nel 2009, un missionario italiano in Uruguay, padre Aldo Trento, restituì l’onorificenza ricevuta dal presidente della Repubblica l’anno precedente, con queste parole rivolte a Napolitano: «…Come posso io, cittadino italiano, ricevere simile onore di Cavaliere dell’Ordine della Stella della solidarietà, quando Lei, con il suo intervento permette la morte di Eluana, a nome della Repubblica Italiana? Sono sdegnato e ripeto il mio rifiuto al titolo che Lei mi concesse». Non ci risulta che Napolitano si sia mai pentito di quella decisione, né ci risulta che la Chiesa abbia cambiato il suo insegnamento sul valore sacro della vita, sul primato della persona e sulla libertà.

Andiamo avanti: «Passione educativa nei confronti delle nuove generazioni». Non c’è dubbio che abbia passione educativa, ma bisogna vedere i contenuti di questa educazione. Se guardiamo all’esempio personale c’è da imparare il trasformismo e l’opportunismo, se guardiamo a ciò che afferma è un maestro di relativismo. Aperto a tutto ciò che va nella “giusta” direzione, verso cui guida il Parlamento. Non a caso ha sostenuto apertamente il varo di una legge contro l’omofobia, né è un caso che l’elezione per il secondo mandato sia stata salutata con grande soddisfazione anche dalle associazioni Lgbt, che lo ricordano come «il primo presidente della Repubblica ad aver aperto le porte del Quirinale alle associazioni gay, lesbiche e trans il 17 maggio 2010».

«Speranza e garanzia di una società rispettosa dei principi democratici». Ma come? Sarà pure la nostra classe politica ridotta male, ma come si fa a indicare come garante della democrazia uno che ha costruito la sua carriera politica a servizio del più grande impero totalitario, e contro gli interessi dell’Italia? Fino al crollo del Muro di Berlino ha giustificato il soffocamento di tutti i popoli che anelavano alla democrazia, e ora – senza neanche un cenno di autocritica (tra i comunisti non si usa la parola pentimento) – dobbiamo acclamarlo come speranza e garanzia della democrazia?

«Coerente testimonianza di vita»: su questo in effetti si può anche concordare. Napolitano è sempre stato un coerente uomo di potere, sempre in sella: stalinista con Stalin, brezneviano con Breznev, riformista con Gorbaciov,  poi si è messo in proprio. La caduta del Muro di Berlino gli ha aperto le porte: presidente della Camera nel 1992, ministro dell’Interno con Prodi, senatore a vita con Ciampi e infine presidente della Repubblica dal 2006, carica che ha interpretato da coerente comunista interventista. Un bell’insegnamento sicuro per le nuove generazioni.

Ma il vero punto è: perché una Università pontificia, addirittura l’Università del Papa, sente l’irrefrenabile bisogno di dare la massima onorificenza a siffatto personaggio?

Noi siamo semplici fedeli, magari un po’ ingenui, ma non riusciamo proprio a mettere insieme ciò che la Chiesa insegna a proposito del valore della persona, della libertà, dello sviluppo dei popoli, della sussidiarietà con una onorificenza a un personaggio che ha sempre incarnato l’esatto contrario. Sarebbe il caso che qualcuno spiegasse, perché tanti fedeli si sentono giustamente confusi davanti a questa disinvoltura nell’indicare “maestri” ed “esempi”.

In ogni caso, per noi Napolitano non sarà mai una “speranza” né “un testimone di vita”. E’ solo il simbolo di una politica malata e di un potere che sta conducendo l’Italia lontano dalla democrazia.





La nuova Bussola Quotidiana


'Manif pour tous' Pistoia: "No alle terapie ormonali sui bambini affetti da 'Gender identity disorder'"






Un comunicato dell'associazione Manif pour Tous di Pistoia 


"La nostra associazione nasce in stretto legame con l'omonima realtà francese con lo scopo di mobilitare i cittadini italiani di tutte le confessioni religiose, politiche e culturali e risvegliarne le coscienze in merito alle problematiche riguardanti le recenti leggi su omofobia e transfobia, teoria del gender, matrimoni e adozioni a coppie omosessuali. Il suo scopo è garantire la libertà di espressione, preservare l’unicità del matrimonio tra uomo e donna e il diritto del bambino ad avere un padre ed una madre.

La nascita di un figlio si accompagna ad una serie di attese e attenzioni che i genitori hanno verso il loro bambino, e la salute è sicuramente la prima e più importante. La salute fisica e quella psichica, ma soprattutto quest’ultima, sono delicate perché legate alla crescita e allo sviluppo del bambino che risentono di molti fattori. Il contesto familiare soprattutto, ma anche quello sociale e culturale, nel quale il bambino cresce e si sviluppa è fondamentale e, al di là di molte difficoltà che la famiglia oggi incontra, da sempre la letteratura scientifica pediatrica e psicopedagogica sottolinea il ruolo insostituibile del padre e della madre nella crescita serena e armoniosa del bambino. In questo quadro si situano le problematiche legate ai disturbi dell’età evolutiva, che come dice la parola è età caratterizzata da continue trasformazioni fisiche e psichiche, che procedono insieme, stimolate e condizionate dall’ambiente familiare (dove le dinamiche relazionali con la figura materna e con quella paterna hanno un ruolo centralissimo nella formazione della propria identità) e sociale.

E’ stato visto che proprio in ambienti di disagio familiare si sviluppano la stragrande maggioranza dei disordini legati all’identità sessuale (G.I.D.) dell’infanzia (secondo la letteratura il 95% dei casi).

Alla Regione Toscana è stato chiesto dal primario del reparto di Medicina della Sessualità dell’ospedale Careggi di Firenze di poter effettuare trattamenti ormonali su bambini con questi problemi con la motivazione, quanto mai bizzarra, di consentire al piccolo paziente (preadolescente) di avere tempo di orientarsi verso il “sesso che sente”! In linea con le conclusioni della rivista Pediatrics chiediamo che l’opinione pubblica sia informata veramente dei gravi rischi psicologici e fisici della soppressione puberale ormonale nei bambini e chiediamo che siano resi noti i reali benefici di tali supposte terapie. Chiediamo come mai invece di usare i bambini come cavie, non si aiutino loro e le loro famiglie ad uscire da un disagio di natura psicologica attraverso un accompagnamento psicoterapeutico adeguato.  Riteniamo che questa richiesta, in realtà, presupponga degli assunti ideologici per i quali l’identità di genere (cioè il sentirsi appartenente al sesso biologico dato) escluda il dato biologico-anatomico, per dipendere esclusivamente dal dato culturale-sociale e da ciò che ognuno si sente di essere.

Quindi alla luce delle autorevoli pubblicazioni scientifiche contrarie a questi trattamenti (le quali hanno evidenziato che i problemi il più delle volte sono psichici o legati a fattori socio culturali, educativi, familiari, tenuto conto che c’è ancora molto da indagare perché i trattamenti ormonali hanno un’invasività che può risultare drammatica, specie nei bambini) e del buon senso, nonché alla luce dell’obiettivo primo della medicina (primum non nocere!), chiediamo formalmente alla Regione Toscana di non dar corso ad alcuna autorizzazione "sperimentale" di impiego di terapie ormonali sui bambini nel senso e con le finalità indicate dal Primario di Medicina della Sessualità di Careggi ed a promuovere piuttosto ogni ricerca in questo campo attingendo esclusivamente a studi scientifici di comprovata autorevolezza onde evitare di utilizzare dei bambini come vere e proprie "cavie umane".





venerdì 22 novembre 2013

Anche il papa fa autocritica. E corregge tre errori




Abbassa il "rating" della sua intervista a Scalfari. Rettifica i suoi giudizi sul Concilio Vaticano II. Prende le distanze dalle correnti progressiste che l'hanno fin qui più applaudito. Ma i media tacciono su questo suo cambio di passo 




di Sandro Magister

ROMA, 22 novembre 2013 – Nel giro di pochi giorni papa Francesco ha corretto o fatto correggere alcuni tratti rilevanti della sua immagine pubblica. Almeno tre.

Il primo riguarda il colloquio da lui avuto con Eugenio Scalfari, messo per iscritto da questo campione del pensiero ateo su "la Repubblica" del 1 ottobre.

La trascrizione del colloquio aveva effettivamente generato un diffuso sconcerto, a motivo di alcune affermazioni sulla bocca di Francesco che suonavano più congeniali al pensiero laico dominante che alla dottrina cattolica. Tipo la seguente:

"Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce".

Nello stesso tempo, però, l'intervista era stata da subito avvalorata da padre Federico Lombardi come "fedele al pensiero" del papa e "attendibile nel suo senso generale".

Non solo. Poche ore dopo l'uscita su "la Repubblica", l'intervista era stata riprodotta integralmente sia su "L'Osservatore Romano" che nel sito web ufficiale della Santa Sede, al pari degli altri discorsi e documenti del papa.

Nacque da ciò l'idea che Jorge Mario Bergoglio avesse scelto volutamente la modalità espressiva del colloquio, in questa come in altre occasioni, come nuova forma del suo magistero, capace di raggiungere più efficacemente il grande pubblico.

Ma nelle settimane successive il papa deve essersi reso conto anche del rischio che tale modalità comporta. Il rischio che il magistero della Chiesa scada al livello di una mera opinione offerta al libero confronto.

Ne è derivata infatti la decisione, il 15 novembre, di far sparire dal sito dello Santa Sede il testo del colloquio con Scalfari.

"Togliendolo – ha spiegato padre Lombardi – si è fatta una messa a punto della natura di quel testo. C'era qualche equivoco e dibattito sul suo valore".

Il 21 novembre, intervistato nella sede romana della stampa estera, Scalfari ha comunque rivelato altri particolari della vicenda.

Ha detto che il papa, al termine della conversazione, aveva consentito che la si rendesse pubblica. E alla proposta di Scalfari di mandargli il testo in anticipo aveva risposto: "Mi sembra una perdita di tempo, di lei mi fido".

In effetti, il fondatore di "la Repubblica" inviò il testo al papa, accompagnato da una lettera nella quale tra l'altro scriveva:

"Tenga conto che alcune cose che Lei mi ha detto non le ho riferite. E che alcune cose che Le faccio riferire, non le ha dette. Ma le ho messe perché il lettore capisca chi è Lei"

Due giorni dopo – sempre stando a quanto riferito da Scalfari – arrivò per telefono dal secondo segretario del papa, Alfred Xuereb, l'ok per la pubblicazione. Che avvenne l'indomani.

Scalfari ha commentato: "Sono dispostissimo a pensare che alcune delle cose scritte da me e a lui attribuite il papa non le condivida, ma credo anche che egli ritenga che, dette da un non credente, siano importanti per lui e per l’azione che svolge".

*

Ma anche la calibrata e studiatissima intervista di papa Francesco a "La Civiltà Cattolica" – pubblicata il 19 settembre da sedici riviste della Compagnia di Gesù in undici lingue – è entrata nei giorni scorsi nel cantiere delle cose da correggere.

Su un punto chiave: l'interpretazione del Concilio Vaticano II.

Lo si è capito da un passaggio della lettera autografa scritta da Francesco all'arcivescovo Agostino Marchetto in occasione della presentazione di un volume in suo onore, il 12 novembre nella cornice solenne del Campidoglio. Lettera che il papa ha voluto fosse letta in pubblico.

Il passaggio è il seguente:

"Questo amore [alla Chiesa] Lei lo ha manifestato in molti modi, incluso correggendo un errore o imprecisione da parte mia, – e di ciò La  ringrazio di cuore –, ma soprattutto si é manifestato in tutta la sua purezza negli studi fatti sul Concilio Vaticano II. Una volta Le ho detto, caro Mons. Marchetto, e oggi desidero ripeterlo, che La considero il migliore ermeneuta del Concilio Vaticano II".

Già la definizione di Marchetto come "il migliore ermeneuta" del Concilio ha del clamoroso. Marchetto è infatti da sempre il critico più implacabile di quella "scuola di Bologna" – fondata da Giuseppe Dossetti e Giuseppe Alberigo e oggi diretta dal professor Alberto Melloni – che ha il monopolio mondiale dell'interpretazione del Vaticano II, in chiave progressista.

L'ermeneutica del Concilio sostenuta da Marchetto è la stessa di Benedetto XVI: non "rottura" e "nuovo inizio", ma "riforma nella continuità dell'unico soggetto Chiesa". Ed è questa l'ermeneutica che papa Francesco ha voluto dar segno di condividere, nel tributare un così alto apprezzamento a Marchetto.

Ma se si va a rileggere il succinto passaggio che Francesco dedica al Vaticano II nell'intervista a "La Civiltà Cattolica", l'impressione che se ne ricava è diversa. "Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità", concede il papa. "Tuttavia – aggiunge – una cosa è chiara": il Vaticano II è stato "un servizio al popolo" consistente in "una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea".

Nelle poche righe dell'intervista dedicate al Concilio, Bergoglio ne definisce così l'essenza per ben tre volte, applicandola anche alla riforma della liturgia.

Un simile giudizio sul grandioso evento conciliare era apparso subito a molti così sommario che persino l'intervistatore del papa, il direttore de "La Civiltà Cattolica" Antonio Spadaro, confessò il suo stupore, nel trascriverlo dalla viva voce di Francesco.

Intanto, però, questo giudizio ha continuato s riscuotere largo consenso.

Ad esempio, nel ricevere in visita al Quirinale papa Francesco il 14 novembre, il presidente della repubblica italiana Giorgio Napolitano lo ha ringraziato proprio per far "vibrare lo spirito del Concilio Vaticano II come 'rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea'", citandone le precise parole.

E un plauso al papa per queste stesse parole è venuto – altro esempio – dal numero uno dei liturgisti italiani, Andrea Grillo, docente al Pontificio Ateneo Sant'Anselmo, secondo cui Francesco avrebbe finalmente inaugurato la vera e definitiva "ermeneutica" del Concilio, dopo aver "messo subito in secondo piano quella diatriba sulla 'continuità' e la 'discontinuità' che aveva lungamente pregiudicato – e spesso del tutto paralizzato – ogni efficace ermeneutica del Vaticano II".

In effetti non è un mistero che "servizio al popolo" e rilettura del Vangelo "attualizzata nell'oggi" sono concetti cari alle interpretazioni progressiste del Concilio e in particolare alla "scuola di Bologna", più volte dichiaratasi entusiasta di questo papa.

Ma evidentemente c'è chi ha fatto notare di persona a papa Bergoglio che ridurre il Concilio a tali concetti è per lo meno "impreciso", se non "errato".

Ed è stato proprio Marchetto a fare questo passo. Tra lui e Bergoglio c'è da tempo una grande confidenza, con reciproca stima. Marchetto abita a Roma nella casa del clero di via della Scrofa, nella stanza 204 che è adiacente alla 203 nella quale alloggiava l'allora arcivescovo di Buenos Aires nelle sue trasferte romane.

Papa Francesco non solo ha ascoltato le critiche dell'amico, ma le ha accolte. Al punto da ringraziarlo, nella lettera fatta leggere il 12 novembre, per averlo aiutato "correggendo un errore o imprecisione da parte mia".

C'è da presumere che in futuro Francesco si esprimerà sul Concilio in altro modo che come ha fatto nell'intervista a "La Civiltà Cattolica". Più in linea con l'ermeneutica di Benedetto XVI. E con grande delusione per la "scuola di Bologna".

*

La terza correzione è coerente con le due precedenti. Riguarda il timbro "progressista" che papa Francesco si è visto stampare addosso in questi primi mesi di pontificato.

Un mese fa, il 17 ottobre, Bergoglio era parso avvalorare un volta di più questo suo profilo quando nell'omelia mattutina a Santa Marta aveva diretto parole sferzanti contro i cristiani che trasformano la fede in "ideologia moralista", tutta fatta di "prescrizioni senza bontà".

Ma un mese dopo, il 18 novembre, in un'altra sua omelia mattutina il papa ha suonato tutt'altra musica.

Ha preso spunto dalla rivolta dei Maccabei contro le potenze dominanti dell'epoca per dare una tremenda lavata di capo a quel “progressismo adolescenziale”, anche cattolico, disposto a sottomettersi alla “uniformità egemonica” del “pensiero unico frutto della mondanità”.

Non è vero, ha detto Francesco, che "davanti a qualsiasi scelta sia giusto andare avanti comunque, piuttosto che restare fedeli alle proprie tradizioni". A forza di negoziare su tutto, finisce che i valori siano talmente svuotati di senso da restare soltanto “valori nominali, non reali”. Anzi, si finisce per negoziare proprio "la cosa essenziale al proprio essere, la fedeltà al Signore".

Il pensiero unico che domina il mondo – ha continuato il papa – legalizza anche “le condanne a morte”, anche “i sacrifici umani”. “Ma voi – ha chiesto – pensate che oggi non si facciano, i sacrifici umani? Se ne fanno tanti, tanti! E ci sono delle leggi che li proteggono”.

Difficile non vedere in questo grido di dolore di papa Francesco le innumerevoli vite umane falciate sul nascere con l’aborto, oppure stroncate con l'eutanasia.

Nel deprecare l’avanzata di “questo spirito di mondanità che porta all’apostasia” il papa ha citato un romanzo “profetico” d’inizio Novecento che è una delle sue letture preferite: “Il padrone del mondo” di Robert H. Benson, un sacerdote anglicano, figlio di un arcivescovo di Canterbury, che si convertì al cattolicesimo.

Con l'eccezione di rare testate cattoliche, i media di tutto il mondo hanno ignorato questa omelia di papa Francesco, che in effetti contraddice clamorosamente gli schemi progressisti, o addirittura rivoluzionari, con cui egli viene generalmente descritto.

Ma ora è agli atti. E lì resta.

Una curiosa coincidenza: alla messa in cui Francesco ha pronunciato questa omelia ha preso parte anche il nuovo segretario di Stato Pietro Parolin, nel suo primo giorno di servizio effettivo nella curia romana.





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Perché Bergoglio ha scelto il ritiro sull’Aventino






di Sandro Magister

La sera del 21 novembre, nella festa della presentazione di Maria al tempio tradizionalmente associata alle monache di clausura, papa Francesco si recherà sull’Aventino in visita al monastero di Sant’Antonio delle monache camaldolesi.

Il papa vi reciterà i vespri e si fermerà poi con le monache per un colloquio.

Sul motivo per cui Jorge Mario Bergoglio ha scelto di visitare proprio questo monastero  una spiegazione è che egli ha una grande ammirazione per una religiosa che vi entrò proprio il 21 novembre, nel 1945, e lì visse da reclusa per quarant’anni, nutrendosi solo di pane e acqua e dormendo su una semplice cassapanca.
Si chiamava Nazarena Crozza e irradiò una intensa aura di santità. Su di lei sono usciti un paio di libri, uno anche in inglese. Tra i sui amici più stretti c’era il benedettino e cardinale Agostino Mayer. A papa Francesco le monache offriranno una raccolta delle lettere che ella scriveva al suo padre spirituale, dalle quali si evince la sua forte fede e la sua vita spesa per la Chiesa.

Ma ci sono due altri aspetti di questo monastero che affascinano Bergoglio.

Il primo è la fila costante di poveri, fino a ottanta, che tutti i giorni ricevono il pranzo servito dalle monache davanti al cancello d’ingresso di via Santa Sabina 64.

Il secondo è la “lectio divina” sul Vangelo della domenica, che da trent’anni le monache aprono ogni sabato alle 18 alle persone che vogliono prendervi parte, che sono ogni volta tra le sessanta e le ottanta.

A guidare la “lectio” sono padre Innocenzo Gargano, del vicino monastero camaldolese di San Gregorio al Celio, e la badessa Michela Porcellato, che di fatto è la madre generale di una quindicina di monasteri di monache camaldolesi sparsi in tutto il mondo. In Tanzania ve ne sono tre molto rigogliosi, fondati a partire dal 1968 dalle monache dell’Aventino, che contano oggi circa un centinaio di monache africane.

Un’ultima notazione. I monaci e le monache camaldolesi di Roma sono stati tra i più arditi nell’applicare in modo “creativo” la riforma liturgica conciliare, prima ancora che entrasse in opera ufficialmente.
L’avvincente resoconto di quell’impresa è stato raccontato – con un felice dose di ironia – da padre Gargano in un libro del 2001 su “I camaldolesi nella spiritualità italiana del Novecento” e riprodotto in questo servizio di www.chiesa:






Canto gregoriano. Come e perché fu soffocato nella sua stessa culla


Il priore del monastero romano di papa Gregorio Magno arricchisce con nuovi particolari il racconto del disastro musicale del dopoconcilio. Col Vaticano che ancor oggi non fa nulla per rimediare 



di Sandro Magister                                    

ROMA - Il 22 novembre 2003, festa di santa Cecilia patrona della musica, Giovanni Paolo II ha ascoltato un concerto in proprio onore. E l´indomani, all´Angelus della domenica mezzogiorno, ha rivolto un saluto speciale ai Wiener Philharmoniker, giunti a Roma a eseguire per lui "La Creazione" di Franz Joseph Haydn nella basilica di San Paolo fuori le Mura.

Il papa ha ringraziato "quanti mettono al servizio della liturgia i loro talenti e le loro competenze musicali". E ha ricordato che il 22 novembre 2003 sono passati cent´anni giusti dal motu proprio di san Pio X "Inter Sollicitudines": il documento con cui quel pontefice impresse una svolta riformatrice alla musica sacra d´occidente, la purificò dalle degenerazioni teatrali in voga all´epoca e ridiede centralità e splendore al gregoriano, al canto polifonico e al suono dell´organo.

Cent´anni giusti. Nel mezzo dei quali c´è stato un concilio, il Vaticano II, che ha riconfermato in pieno il primato di gregoriano, polifonia e organo. Ma c´è stata anche una nuova decadenza, nel campo della musica di Chiesa. Di dimensione e gravità tali da esigere una nuova riforma, non meno energica di quella voluta da Pio X.

Il centenario dell´"Inter Sollicitudines" era atteso da alcuni, dentro e fuori il Vaticano, come il giorno giusto per un nuovo documento papale di rinnovamento della musica liturgica.

In particolare si attendeva la costituzione di un organismo pontificio dotato di autorità in materia.

E invece la festa di santa Cecilia del 2003 è passata, e nulla di ciò è sinora accaduto.

In Vaticano, si sa, domina una corrente ostile al primato del canto gregoriano e polifonico. Tra le alte personalità del governo centrale della Chiesa, il solo a muoversi in controtendenza è il cardinale Joseph Ratzinger.

In più occasioni, Ratzinger ha associato la decadenza della musica sacra alle modalità distruttive con le quali è stata attuata, in larga misura, la riforma liturgica decisa dal Concilio Vaticano II.

Musica e liturgia. Legate nel bene e nel male. Una fioritura dell´una non può esserci senza l´altra. Esattamente come la decadenza, che travolge entrambe.

Il terremoto che negli anni Sessanta del XX secolo produsse la quasi scomparsa del canto gregoriano fu in effetti il contraccolpo di una distorta attuazione della riforma liturgica conciliare. In primo luogo da parte delle élite della Chiesa.

Il testo riprodotto più sotto è, di questo terremoto, una testimonianza di straordinario interesse.

L´autore, monaco benedettino, racconta come il suo monastero abbandonò di punto in bianco il canto gregoriano, a metà degli anni Sessanta, per abbracciare nuovi e improvvisati moduli musicali.

La svolta avvenne con rapidità fulminea, praticamente da un giorno all´altro.

E il monastero non era uno qualsiasi. Era quello benedettino camaldolese di San Gregorio al Celio, a Roma, dove è conservata la cattedra marmorea di papa Gregorio Magno, padre del canto liturgico tipico della Chiesa d´occidente, detto appunto gregoriano. Non poteva esserci luogo simbolicamente più forte.

La svolta fu voluta praticamente all´unanimità e approvata del priore dell´epoca, p. Benedetto Calati, personalità di alto rilievo nel cattolicesimo italiano del secondo Novecento.

L´autore del racconto, p. Guido Innocenzo Gargano, è il suo successore. È l´attuale priore del monastero di San Gregorio, anch´egli maestro spirituale di grande spicco.

Ha incluso la cronaca di quel terremoto musicale e liturgico in un libro da lui pubblicato nel 2001 sui "Camaldolesi nella spiritualità italiana del Novecento". Poche pagine più avanti, l´autore riconosce che lui e gli altri monaci "non erano né poco né punto tecnicamente preparati alla musica", eppure si sentirono obbligati a "inventarsi poeti e musicisti" per sostituire al gregoriano i nuovi canti alla moda.

Da allora sono passati quasi quarant´anni e qualche aggiustamento c´è stato. Ma sta di fatto che nelle liturgie del monastero romano fondato da papa Gregorio il canto gregoriano non ha più fatto ritorno.

Ecco dunque il racconto di come fu cacciato in esilio, negli anni ruggenti del Concilio Vaticano II:


Quella notte a San Gregorio


di Guido Innocenzo Gargano


[...] L´adozione della lingua volgare nella celebrazione dell´ufficio divino arrivò nella comunità come una bomba esplosiva.

L´ufficio divino, cantato in lingua volgare, significava rottura irreparabile con una delle tradizioni più sacre custodite per secoli dall´intero monachesimo latino occidentale: il canto gregoriano. [...]

Il tutto fu innescato nella comunità camaldolese dal dibattito accesissimo nell´aula conciliare, fra difensori del latino e fautori del volgare. [...] I monaci più giovani non solo avevano parteggiato ovviamente per l´introduzione della lingua italiana della liturgia, ma erano anche impazienti al punto da non voler aspettare che le novità già approvate nell´aula conciliare ricevessero conferma con la pubblicazione ufficiale. Una volta riconosciuta l´assurdità del latino, bisognava cambiare! [...]

I giovani cominciarono a sentirsi autorizzati a fare i propri esperimenti in soffitta come i carbonari. Infatti non si trattava solo di tradurre la preghiera liturgica dalla lingua latina all´italiano, ma anche di tentare strade diverse sul piano musicale. E data l´intima connessione del latino col canto gregoriano, i giovani decisero, senza interpellare nessuno, che doveva essere messo da parte, almeno per il momento, anche il sublime canto gregoriano.

Nella soffitta della chiesa di San Gregorio al Celio si installò presto, dunque, all´insaputa dei superiori, una vera e propria orchestra fatta di strumenti impropri, ma sufficientemente adatti all´impresa cercata.

Dopo prove e riprove, tra arrabbiature a non finire con maestri di cappella del tutto improvvisati, si decise che, nella domenica di quinquagesima, il gruppo fosse sufficientemente maturo per venire allo scoperto in una celebrazione liturgica semiufficiale completa di chitarre, di tamburi e di canti inediti prodotti in italiano.

Il luogo prescelto fu la cappella Salviati, che è situata alla sinistra della chiesa. il celebrante sarebbe stato un prete, studente dell´Istituto Liturgico Anselmianum, ospite dell´attiguo Hospitium Gregorianum.

Tutto si svolse con la massima serietà e la soddisfazione di tutti. Nessuno però fece caso che proprio in quella domenica era capitato, durante la celebrazione, un signore in visita turistica alla cappella, che poi se ne era andato esterrefatto. Quell´estraneo corse difilato in vicariato e denunziò lo scandalo.

Si mosse il cardinale [Angelo] Dell´Acqua, a quei tempi vicario di Sua Santità per la diocesi di Roma. I fulmini caddero a ciel sereno sull´ignaro [priore generale] p. Benedetto [Calati], che venne a sapere nello stesso istante cosa avevano combinato i suoi giovani monaci e la gravità delle conseguenze paventate.

Tutto concitato, p. Benedetto convocò il capitolo conventuale. [...] I monaci ascoltarono la reprimenda in silenzio, con gli occhi bassi, ma niente affatto convinti di aver commesso chissà quale misfatto. E quando p. Benedetto costrinse uno per uno tutti a prender posizione pubblica sul crimine commesso, sobbalzò sulla sedia nel constatare la determinazione, di tutti e di ciascuno, a difendere il gruppo degli "scapigliati" - si chiamavano così in segreto quei birbanti - insinuando la paura delle noie che inchiodavano invece i superiori alle poltrone, impedendo loro di percorrere la via già chiaramente segnata dai bellissimi dibattiti delle assemblee conciliari.

A questo punto p. Benedetto piantò tutti in asso e si fiondò in cella. Rimanemmo tutti di sasso. Imbarazzati. In silenzio.

A tarda sera, non vedendolo a tavola, né alla celebrazione di compieta, spedirono me in avanscoperta per cercare una mediazione possibile.

La risposta fu talmente "altra" che non parve vera.

"Bene", aveva risposto p. Benedetto, "faremo tutto come avete detto. Da domani celebreremo la messa e l´intero ufficio in italiano".


Dalle parole ai fatti. Qualcuno si scoprì all´improvviso poeta, qualcun altro traduttore, e tutti divennero finissimi intenditori di canti e di spartiti.

P. Benedetto, da parte sua, volle dare a tutti grande dimostrazione di coraggio permettendo di spostare l'altare e costruirne uno nuovo, rivolto verso il popolo. Ormai il dado era tratto. [...]


[Da Guido Innocenzo Gargano, "Camaldolesi nella spiritualità italiana del Novecento - II", Edizioni Dehoniane, Bologna, 2001, pagine 112-115]





Settimo Cielo


giovedì 21 novembre 2013

Il ministero dei Santi Angeli nella Comunione dei Santi



La Roma eterna.


Sintesi degli scritti di Mons. Piolanti (a cura di Don Stefano Carusi)


Gli Angeli compagni insostituibili dell’uomo

La solennità di tutti i Santi s’apre coll’antifona al Magnificat dei Primi Vespri e, prima ancora di glorificare i Patriarchi e i Profeti, gli Apostoli e i Martiri, gli Anacoreti e i Confessori, la Chiesa chiede l’intercessione di tutti gli Angeli Santi: “Angeli, Archangeli, Troni et Dominationes, Principatus et Potestates, Virtutes caelorum, Cherubim atque Serafim…intercedite pro nobis”.

La festa della Comunione dei Santi - quanto poco vi si pensa in questi tempi in cui il razionalismo ammorba tanto la fede quanto la pietà - rimanda ad una grande verità di nostra santa Religione : la vita della Chiesa e gli scambi fondati sulla carità tra il Cielo, la Terra e il Purgatorio, ma lo stesso ordine naturale del creato, non potrebbero andare avanti senza l’aiuto degli Angeli. Senza di essi l’edificazione del Corpo Mistico si bloccherebbe quasi come la costruzione d’un palazzo non potrebbe procedere senza supervisori al servizio dell’Architetto autore del progetto, senza messaggeri d’ordini che facciano l’andirivieni fra i diversi piani, senza esperti con maggior scienza che istruiscano il manovale ignaro. E’ quasi una necessità; non che Dio abbia strettamente bisogno di essi, ma l’ordine dell’insieme in quanto opera d’infinita saggezza quasi lo esige. Per San Tommaso tanto sono legati il mondo materiale e quello spirituale, tanto sono complementari che egli propende addirittura per la tesi teologica per cui la creazione dei due mondi - quello angelico e quello materiale - sia simultanea e ciò perché in certo modo sono fatti l’uno per l’altro; essendo parti complementari dell’unico universo uscito dalle mani di Dio e che a Lui ritorna c’è una certa convenienza a che insieme siano venuti all’esistenza[1].

Offriremo dunque qualche spunto alla riflessione sull’importanza del ministero degli angeli, seguendo anche lo spirito di Mons. Antonio Piolanti[2], il quale sempre privilegiava la visione d’insieme dei misteri divini: come l’Aquinate non vuol mai parlare degli Angeli quasi fossero un universo chiuso ed autonomo, così il Maestro della Scuola Romana invitava spessissimo a leggere la storia della salvezza sotto l’occhio della Comunione dei Santi, Santi Angeli compresi. Ed è così d’altronde - in una visione d’insieme, come lascia intendere il citato maestro - che lo sforzo teologico può liberarsi dalle catene del mero esercizio accademico, che rischierebbe di ridurlo talvolta a piacere naturale per le intelligenze più acute, tarpando piuttosto le ali alla vera assimilazione del mistero finalizzata al bene dell’anima.


Una verità consolante e metafisicamente fondata


Sgombriamo dapprima il campo dagli ostacoli che hanno seminato il razionalismo e il giansenismo di ieri e di oggi: il primo incapace di concedere l’esistenza di ciò che non vede e non dimostra con sillogismo categorico, il secondo - da buon figlio del protestantesimo - sistematico negatore della necessità della mediazione dei Santi nella nostra salvezza[3].

Basta osservare il creato con occhi puri per rendersi conto che Dio ha voluto che vi fosse una vastissima gamma di creature la cui “intensità di perfezione” per così dire non è la stessa. Che l’uomo sia intelligente, come non lo è la formica e che vi siano uomini più intelligenti di altri, che possono vantare quindi un titolo nella guida - se non nel governo - di chi è meno dotato, può essere concesso anche dal miscredente (benché talvolta non lo sia dal panteista modernista). Nella creazione naturale infatti c’è il “di più” e il “di meno”, ma tutti gli esseri sono ordinati a Dio e concorrono all’unico bene dell’universo[4]. Anche nell’universo soprannaturale, nella Comunione dei Santi, c’è il “di più” e il “di meno”, ma tutti uniti nella carità concorrono al bene soprannaturale: nello specifico gli Angeli, più dotati di noi viatori, sono lì per condurci a quel Fine che essi contemplano, ma che noi possiamo solo intravedere nella fede.

Se si esce dall’individualismo mentale, cui il liberalismo ci ha sì gravemente abituati, e se si entra con San Tommaso in una prospettiva che guarda dapprima all’armonia dell’ordine universale voluto da Dio, il mistero della Comunione dei Santi e dell’opera degli Angeli, si fa meno difficile da avvicinare. Non si guarda più al bene isolato della persona, non si privilegia il bene del singolo su quello della civitas, ma si guarda con raggio più ampio all’insieme del piano di Dio, quasi cercando di lasciarsi elevare fino a Lui, e partecipando del Suo sguardo universale si concepisce il bene delle parti solo all’interno dell’ordine. Che gli inferiori siano governati dai superiori, infatti, rientra nell’ordine della Divina Provvidenza, e ciò vale per l’universo intero, ma specialmente quando si parla degli Angeli rispetto agli uomini, afferma San Tommaso[5].

Va sottolineato inoltre che chi agisce opera dapprima su ciò che gli è più vicino ed è così che può poi arrivare ad estendere la sua opera anche su ciò che gli è più lontano[6]. E ciò nel nostro caso vale nei due sensi, tanto discendente che ascendente. Ovvero Iddio si serve di una catena di mediatori intelligenti, quindi a Lui più vicini, per giungere fino al governo delle cose più infime. Pur potendo sempre intervenire direttamente, non salta ordinariamente questa magnifica graduazione di perfezione nelle creature, di cui è l’Autore e che vuole associare alla Sua opera di governo in una sorta di meravigliosa “cascata” di ruoli ordinati.

La Divina Provvidenza dunque si serve di coloro che per natura sono più vicini a Dio: i ministri di un re sono a lui più vicini ed è nell’ordine delle cose, che gli ordini per tutte le province del regno passino da essi[7]. Allo stesso modo avviene per risalire questa discesa dal basso verso l’alto, ove la legge permane invariata: non si possono infatti troppo saltare i gradini della scala ed i sudditi passano ordinariamente dal ministro per far giungere al re le richieste. Una volta convintisi della naturalezza della graduazione di tale ordinazione si comprende che non ci si può fermare all’uomo e poi “saltare” direttamente a Dio. A ben pensare infatti fra la più elevata delle creature materiali, l’uomo, e Dio si aprirebbe una sorta d’abisso se non vi fossero quelle creature spirituali che sono gli angeli, capaci - con acutissima intelligenza e con integra volontà - d’essere i più efficaci ministri del governo di Dio, in modo particolare quando si tratta di distribuire e far circolare i doni di grazia.


Un aiuto concreto per condurci alla gloria


Nella liturgia della Santa Messa tradizionale per esempio, dopo la consacrazione, si invoca l’intervento della mano “Sancti Angeli tui”, che porti fino a Dio tutto ciò che nella Messa è stato offerto, fino all’offerta dei cuori che si sono uniti al Sacrificio eucaristico, perché ridiscendano le benedizioni e riempiano le anime dei presenti o di coloro per cui s’è pregato. Nella nuova liturgia purtroppo questo concetto è presente soltanto in uno dei Canoni a scelta (ufficialmente il primo, ma - di fatto - il meno frequente nelle celebrazioni). L’immagine infatti è delle più eloquenti e rimanda diritto alla “circolazione mistica” dei beni nella Comunione dei Santi, la quale passa dalle “mani” dell’Angelo. Non che l’infusione della grazia santificante sia veicolata dagli angeli come un regalo può esser trasferito di mano in mano, ma nel senso che i benefici derivanti dall’unione dei membri della Comunione dei Santi abbisognano d’amministratori sapienti, i quali se da una parte già contemplano Dio, sono dall’altra vicini agli uomini, di cui vogliono la salvezza e che raggiungono “agilmente”. Per esempio quando un pensiero importante ci è tornato alla mente in maniera inspiegata o quando un’ispirazione ha fatto sì che pensassimo al nostro amico che da anni non contattiamo e che aveva bisogno di una parola di conforto, non va assolutamente escluso l’influsso angelico che può mettere in rapido contatto persone molto distanti fisicamente.

Bisogna sgombrare il campo infatti da una troppo eterea visione dei citati benefici angelici. Nell’economia dell’Incarnazione infatti l’aiuto che si porta ad un’anima unita ad un corpo risponde sempre ad una logica ilemorfica, così come la vera carità risiede nella preghiera e nella mortificazione personale, ma comporta anche sovvenire concretamente al bisognoso con nutrimento materiale o al dubbioso con consiglio veridico.

Gli angeli, che esercitano una vera e propria custodia dell’anima e del corpo, preservano la nostra salute, le nostre case, ma anche le comunità religiose e le chiese, fino ai regni e alle nazioni, ma ancor più agiscono istruendo le anime e indicando loro la via della salvezza. Essi mettono in guardia dalla fallacia del demonio, illuminano le intelligenze, riportando per esempio alla memoria un evento o favorendo una sensazione corporale che non influenzerà direttamente l’intelligenza, ma almeno solleciterà l’immaginazione. L’angelo ha questo potere ed ancor più l’Angelo custode, che riceve da Dio uno speciale mandato e una speciale facoltà di vigilare ed operare su una determinata persona.

Quanto alle modalità di tale azione si ricordi che le creature spirituali possono per esempio con facilità intervenire sulla materia, l’angelo custode può farci evitare quel particolare pericolo che incombeva sulla nostra salute fisica, ma possono - in nome dello stesso principio - essere causa di buoni pensieri e di consiglio esterno.

L’orgoglio cieco del pensiero moderno invece, che tutto vuol chiudere nell’autonoma coscienza, “sacrario dell’uomo” (K. Rahner), non vuol concedere che l’intelligenza dell’uomo non è mai sola ed isolata su questa terra e specialmente per ciò che riguarda l’eterna salvezza. La nostra povera intelligenza non è un assoluto, ma stante la sua natura inferiore ha bisogno d’aiuto e di guida superiore nei giudizi, nelle scelte, nell’azione pratica, a maggior ragione se l’oggetto è soprannaturale; addirittura gli infedeli sono guidati dall’angelo custode che li consiglia perché possano dire di sì a Dio che li chiama innanzitutto a conversione, benché sempre resti la possibilità del rifiuto dell’aiuto altrui.

L’attività del pensiero dell’uomo quindi non è mai in quella solitudine cara agli immanentisti più coerenti, non può esserlo perché ha sempre bisogno d’aiuto e di sostegno nel suo lento e faticoso avanzamento discorsivo. Ciò vale, a fortiori, per l’uomo in grazia, il quale però gode d’essere unito a quella moltitudine di Santi - senza escludere le anime sante del Purgatorio - che lo segue e lo consiglia con speciale attenzione e premura; egli è in compagnia di una moltitudine di consiglieri anche se non sempre se ne rende conto. Questa consolante verità di fede, nel caso degli angeli si fonda sulla loro facoltà di sollecitare la conoscenza umana secondo le leggi di quest’ultima. L’uomo infatti ha un intelletto meno potente di quello angelico, la sua composizione col corpo fa sì che debba sempre passare dal sensibile; l’angelo quindi - nel pieno rispetto dell’ordine creato dice l’Aquinate - farà ricorso, per illuminare l’uomo su una verità che vuol trasmettergli, a delle “similitudini sensibili”[8]. Ma va ripetuto che solo raramente l’uomo si rende conto dell’origine di quel pensiero o del fatto che la conoscenza di quella verità o la possibilità di fare quell’azione siano state suggerite dagli angeli[9].

L’angelo può facilitare il riordino dei pensieri attraverso l’immaginazione, ma anche facilitare una scelta volontaria intervenendo sulle nostre passioni, che sono legate alla corporeità della nostra natura sulla quale l’angelo può agire. Si pensi per esempio alla facoltà che ha un oratore a forza di figure retoriche di suscitare le passioni di una folla e ciò solo con l’ausilio della parola, non desti quindi meraviglia che l’angelo possa sollecitare immaginazione e passioni in un senso o nell’altro. Egli può ad esempio favorire disposizioni di compassionevole misericordia verso un povero oppure di santa collera verso i nemici della Chiesa; sosterrà poi l’atto volontario - che resta sempre e solo nostro - nel senso della misericordia o dell’audacia a seconda dell’esigenza. Quanto al potere consolatorio degli angeli, che il nostro pensiero corra all’Orto degli Ulivi, ove nelle ore tremende dell’Agonia, Nostro Signore stesso volle che la Sua santa umanità fosse riconfortata - con lezione insuperata d’umiltà - da qualcuno che Gli era inferiore secondo la divinità. Gesù stesso quindi viene a dirci di ricorrere spesso con umiltà e convinzione agli angeli e specialmente al nostro Custode.


La compagnia soprannaturale


Nelle ore difficili poi, come quelle che precedono la morte, in cui la lotta coi demoni si fa più dura e in cui l’immaginazione può essere influenzata verso la disperazione (è noto che i demoni si scatenano particolarmente, ricordando all’agonizzante i peggiori peccati e tentando contro la fede e la speranza), lì si fa ancora una volta presente il conforto angelico, volto a portare quell’anima nella stessa società celeste in cui egli già vive e a strapparla a quella infernale, per la quale tanto si spendono i demoni. Ancora una volta la visione che la Chiesa suggerisce - se vogliamo uscire dalla a-sociale chiusura in sé stesso dei tempi nostri, pur nella volgare massificazione imperante - è quella di pensare spesso alla Comunione dei Santi, perché come la vita della gloria sarà sociale in compagnia degli angeli e degli uomini santi, già tale sia anche la vita dei cristiani che vivono ancora sulla terra.

Angele Dei,
Qui custos es mei,
Me tibi commissum pietate superna,
Illumina, custodi, rege et guberna. Amen.











[1] “Probabilior videtur, quod angeli simul cum creatura corporea sunt creati. Angeli sunt quaedam pars universi : non enim constituunt per se unum universum, sed tam ipsi quam creatura corporea in constitutionem unius universi conveniunt”, S. Th., Ia, q. 61, a. 3, c.

[2] Mai troppo raccomandati restano in proposito due testi dell’autore: A. PIOLANTI. La Comunione dei Santi e la vita eterna, Città del Vaticano, 1992 (pp. 297-395) e IDEM, Dio nel mondo e nell’uomo, Città del Vaticano, 1994 (pp. 231-234).

[3] S. T. BONINO, Les Anges et les Démons, quatorze leçons de théologie, Paris, 2007 (Bibliothèque de la Revue Thomiste). L’autore in un testo denso d’angelologia e di profonde riflessioni metafisiche sulla natura angelica, dedica ben due capitoli propedeutici alla comprensione dell’importanza del ruolo degli angeli (la lectio IV e V); nel secondo affronta il problema della “demitizzazione” moderna della Rivelazione in chiave razionalista, denunciandone l’approccio profondamente anti-metafisico, quindi anti-razionale (pp. 93- 109).

[4] S. Th., Ia, q. 67. Per l’ unitas ordinis nella distinzione e nell’ineguaglianza cfr. Ibidem, a. 3, c. : “quaecumque autem sunt a Deo, ordinem habent ad invicem et ad ipsum Deum”.

[5] “Hoc habet ordo divinae providentiae, non solum in angelis, sed etiam in toto universo, quod inferiora per superiora administrantur” S.Th., Ia, q. 112, a.2. c.

[6] A. PIOLANTI, La Comunione dei Santi, cit., p. 298.

[7] Ibidem, pp. 298, 299.

[8] S. Th., Ia, q. 111, a. 1, c.


[9] Ibidem, ad 3. Sulla possibilità di influire sull’immaginazione cfr. anche l’articolo 3 della medesima questione.









Pubblicato da Disputationes Theologicae