venerdì 23 maggio 2025

Quando il diritto diventa strumento dell’arbitrio mascherato da progresso



23 mag 2025

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by Aldo Maria Valli


Sulla sentenza n. 68/2025 della Corte costituzionale. 


di Daniele Trabucco*

La sentenza n. 68/2025 della Corte costituzionale costituisce un evento giuridico paradigmatico della crisi del diritto positivo contemporaneo, che, emancipandosi da ogni fondamento nell’ordine naturale, precipita nel nominalismo giuridico e, per ciò stesso, in una forma sofisticata e istituzionalizzata di nichilismo. La portata antropologica, assiologica e filosofico-giuridica di tale pronuncia, lungi dall’essere circoscrivibile a un caso particolare, segna un momento critico della storia della giustizia costituzionale italiana, rivelando una cesura ormai evidente tra l’ordinamento e la verità ontologica dell’umano.

Nel riconoscere automaticamente entrambe le donne di una coppia dello stesso sesso (la Corte dichiara incostituzionale il divieto di riconoscere il figlio da parte della madre “intenzionale”, ovvero la “partner” della madre biologica) come madri di un bambino nato da fecondazione assistita all’estero, la Corte non si limita a un’interpretazione estensiva del principio di uguaglianza o del superiore interesse del minore: essa ridefinisce ontologicamente la genitorialità, trasformandola da relazione naturale radicata nella complementarità sessuata e nella generazione biologica in una costruzione giuridico-affettiva fondata sull’intenzione soggettiva.

Tuttavia il diritto, se vuole restare ius, ossia ordinamento della giustizia, non può prescindere dalla res, dalla cosa stessa, dal dato naturale e dalla struttura della realtà. Se l’elemento naturale viene espunto, il diritto si dissolve in volontà di potenza mascherata da procedura, in manipolazione semantica istituzionalizzata.

Questa deriva è il risultato di una concezione della Costituzione come testo autonomo, chiuso in sé, capace di autolegittimarsi secondo una razionalità puramente formale e procedurale, che rinuncia a ogni fondamento ontologico e metafisico. Ora, una Costituzione priva di ordine naturale non è più una lex, bensì una somma di enunciati manipolabili, stratificati storicamente, esposti all’arbitrio ermeneutico delle Corti. La conseguenza inevitabile è il nominalismo giuridico, ossia l’idea secondo cui i concetti giuridici non rimandano più a una realtà oggettiva da riconoscere e tutelare, bensì a mere convenzioni linguistiche decise secondo il principio del consenso maggioritario o del sentire sociale dominante.

In tale prospettiva, “madre”, “padre”, “figlio”, “matrimonio”, “famiglia” non hanno più un contenuto stabile e riconoscibile: sono etichette fluttuanti, svuotate di ogni ancoraggio alla natura umana e alla sua teleologia. Il nominalismo giuridico non è un fenomeno neutro: esso è, nella sua essenza, un’espressione del nichilismo, inteso nel senso heideggeriano e nietzscheano come oblio dell’essere, come negazione di ogni struttura di senso immanente alla realtà. La Corte, credendo di agire in nome dei diritti e dell’eguaglianza, finisce in realtà per produrre un ordinamento che abbandona ogni idea di giustizia naturale e si trasforma in macchina normativa autoriflessiva, che produce significati “ex nihilo”, secondo logiche performative e funzionali. Laddove, però, tutto è possibile in nome della volontà soggettiva e del desiderio individuale, nulla è più stabile, nulla è più giusto, nulla è più vero.

La sentenza n. 68/2025 è, dunque, molto più che un atto giurisdizionale: è un gesto teoretico, un sintomo e al tempo stesso un atto costituente, che istituisce una nuova antropologia giuridica post-naturale. Il giudice costituzionale non è più custode del limite; diventa invece creatore di realtà giuridiche alternative, secondo una logica volontaristica che segna il passaggio da un diritto che riconosce all’uomo la sua natura a un diritto che lo reinventa. In questo quadro, il costituzionalismo si mostra nella sua nudità: forma postmoderna di “nihilismus juris“, una sovrastruttura che simula razionalità mentre dissolve ogni radice nel reale. Solo un recupero filosofico e giuridico del diritto naturale classico, come ordine ontologico inscritto nella struttura stessa dell’essere e dell’umano, potrà porre argine a tale deriva e restituire al diritto la sua vocazione originaria: essere misura della giustizia, e non strumento dell’arbitrio mascherato da progresso.




*professore strutturato in Diritto costituzionale e Diritto pubblico comparato presso la SSML/Istituto di grado universitario San Domenico di Roma. Dottore di ricerca in Istituzioni di Diritto pubblico nell’Universitá degli Studi di Padova


E-mail: daniele.trabucco@ssmlsandomenico.it



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