sabato 3 maggio 2025

Verso il conclave. Rimettere le cose a posto. La Chiesa non è monopolio del papa e del suo “stile”




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by Aldo Maria Valli


di padre Serafino Lanzetta

Cosa vogliano i signori cardinali? Un successore di Francesco o di Pietro? Questa è una domanda fondamentale a cui bisogna rispondere con l’ausilio della teologia e della storia della Chiesa e non semplicemente con idee personali o cordate di potere. È ormai tempo di avviare una riconciliazione interna alla Chiesa, con un chiaro aggancio all’intera Tradizione e non al suo ultimo scorcio, come si usa fare da un po’ di tempo a questa parte, dal Vaticano II in poi. L’ultimo Concilio non è l’anno zero della Chiesa, quando tutto iniziò. È un momento ecclesiale, un concilio ecumenico, uno dei ventuno concili della Chiesa, con una peculiarità magisteriale tale da essere facilmente frainteso. Si guarda sovente al Vaticano II come se fosse il Concilio di Trento o il Vaticano I e di qui l’inghippo. Se si rimane alla dizione “concilio” e al fatto che un concilio è una manifestazione solenne o straordinaria del magistero della Chiesa, allora il Vaticano II perfettamente combacia con i concili precedenti. Ma se si guarda al suo effettivo esercizio, non ci si scosta dal livello di magistero ordinario (a meno che non reiteri una dottrina precedente), come quello di un’enciclica papale, per avere un’idea. Un magistero quindi ancora in fieri, al suo primo grado e potenzialmente aperto a nuove acquisizioni o a necessari miglioramenti.

Da questa atipicità magisteriale deriva la tentazione o di “canonizzare” il Vaticano II promuovendolo a unico concilio della Chiesa, anno zero appunto, in virtù di un presunto spirito conciliare (di cui Francesco andava fiero) o di doverlo cestinare perché in rottura con il magistero precedente. Va fatto un accurato lavoro di cernita e di distinzioni teologiche che ci si aspetta da un pontificato in grado di ricucire il presente con la perennità della fede, con il suo “oggi”. Non con il passato come tempo cronologico, ma con l’oggi quale tempo kairologico: un tempo che non inizia con noi, con papa Francesco, o con un concilio che più ci piace, ma con Gesù e gli Apostoli, raggiungendoci nel nostro tempo e superandolo per aprirci le porte dell’eterno. Non si capisce perché, ma sembra che il papa, da un po’ in qua, debba essere una cassa di risonanza del Concilio Vaticano II e basta. Magari dei papi “post-conciliari” (eccetto Benedetto XVI, l’unico forse che non sarà mai canonizzato), ma non di quelli “pre-conciliari” (come si usa etichettare il tempo ecclesiale). Per garantire e mostrare l’unità della Chiesa non ci dovrebbe essere un chiaro aggancio a tutto il magistero papale? Perché aver paura di citare ad esempio Leone XIII, san Pio X, san Pio V o san Leone Magno? Erano papi di un’altra Chiesa? È questa divisione che minaccia profondamente l’unità della Chiesa. Se la Chiesa di oggi non è capace di riconoscere nella Chiesa di sempre l’unico Corpo di Cristo, in una continuità magisteriale tra ieri e oggi, non si uscirà dalla crisi di fede che attanaglia la Chiesa del nostro tempo. Occorre manifestare questa continuità nell’unica Traditio fidei e il modo più concreto è quello enunciato da san Vincenzo di Lerino nel V secolo: “Quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est”: ciò che è creduto ovunque, da sempre e da tutti. Essere parte dell’unico Corpo di Cristo, che non inizia con noi, ma che viene da Cristo attraverso gli Apostoli, con una sapienza e una dottrina ormai bimillenarie, è ciò che dà garanzia all’oggi, aiutandoci a superare la sfida della polarizzazione tra conservatori e liberali, tra dottrinaristi e pastoralisti, che poi non è una sfida teologica ma politica. La vera posta in gioco è la fede o la sua negazione, seppur ammantata di devozione per i poveri, gli ultimi e i migranti.

Non si venga a dire che la Chiesa e la fede sono una “coincidentia oppositorum” o una “complexio oppositorum” (una forma più addolcita, ma comunque tendente a conciliare gli opposti) così da dare un colpo al cerchio e uno alla botte, facendo tutti contenti e assicurando che la Chiesa va comunque avanti anche se il Papa è ondivago, più attento ai flussi e ai riflussi della storia che all’obbedienza della fede. Il massimo non è il minimo e viceversa. Chi sta in alto non può stare in basso. Hegel, oltre Niccolò Cusano, credeva nella sintesi dialettica degli opposti, mosso da Lutero che aveva fatto di Dio e della sua contraddizione il manifesto dell’umiltà della fede (del pensiero incompleto) che si rassegna davanti all’impotenza della ragione e all’incertezza della verità; di un pensiero che arriva anche alla negazione di Dio perché in fondo Egli non sarebbe ciò che è se non è contraddetto in sé stesso; non sarebbe misericordioso se non pecchiamo. La Chiesa è una sinfonia di verità e amore, non una cacofonia di suoni discordanti e contraddittori. Non si dà coincidentia o complexio che si voglia tra verità ed errore, tra bene e male, tra peccato e grazia. C’è solo opposizione, che in fondo è quella tra Dio e il suo nemico. Bisogna scegliere da che parte stare.

Che il nuovo papa si presenti alla Chiesa come successore dell’apostolo Pietro e non di Francesco, di Giovanni XXIII o di Benedetto XVI. Il papa non è monopolio di un’idea di pontificato (e di Chiesa) ma dipende da ciò che lo precede: la fede ininterrotta della Sposa di Cristo. La Chiesa precede il papa quanto alla fede che professiamo perché in fondo è Cristo che precede la Chiesa e il papa. È Cristo che fonda Pietro quale roccia della fede e così fonda la Chiesa sulla roccia inamovibile della fede e della persona di Pietro. La fede e la persona di Pietro sono edificate così a loro volta in modo stabile su Cristo. Solo se rimettiamo Cristo al centro la Chiesa ritornerà a vivere prendendo il largo nel mare di questo mondo sempre più assetato di verità e di amore. Ubi Petrus ibi Ecclesia, certamente, ma anche e sempre Ubi Ecclesia ibi Petrus. Pietro deve essere lì dove è la Chiesa perché la Chiesa sia lì dove è Pietro. La Chiesa è più ampia di Pietro, di ogni singolo papa, perché custodisce il papato, i santi sacramenti, la santa dottrina di fede e di morale, e così dà ad ogni successore di Pietro la sua vera identità, purché obbedisca a Cristo e sia docile allo Spirito di Dio.

Sarebbe anche ora, pertanto, di un papa che professasse la fede integrale della Chiesa, rifiutando gli errori e correggendo le ambiguità che si sono infittite in questo ultimo scorcio di tempo, esaminato alla luce di un tempo più lungo in cui è prevalso indiscusso o lo spirito o l’anti-spirito conciliare. Anche qui non si dà coincidentia. Non è solo in ballo un presunto cambio di paradigma morale, così come alcuni hanno battezzato l’apertura di Amoris laetitia all’etica della situazione. La viscerale opposizione a Bergoglio ha dato adito, essa stessa, a una sorta di cambio di paradigma, seppur in misura molto ridotta ma con danni alle anime: ha alimentato un nuovo sedevacantismo confuso e variegato, che altro non è che una sorta di iperpapalismo in cui il papa è posto al disopra della Chiesa, reduce di un conciliarismo esasperato in cui il Vaticano II era superiore alla Chiesa. Facciamo ordine: prima c’è Cristo, poi la Chiesa con il papa obbediente alla Chiesa e quindi il concilio a servizio della Chiesa e mai superiore al papa.

Dobbiamo ritrovare la fede vera e l’unità nella fede. Sembra merce rara ai nostri giorni chiedere che il papa professi la fede integrale. C’è chi ancora irride a tale richiesta, ma è l’unica soluzione per una vera unità ecclesiale. Senza una fede chiara e solida la Chiesa non può sussistere. Sembra anche che chiedendo una tal cosa ci si mostri nostalgici o retrogradi. In realtà, ciò di cui tutti abbiamo bisogno è questo: una guida che faccia trasparire nella sua persona il Buon Pastore, Cristo, con un bagaglio personale che non sia solo di idee provenienti dalla sua formazione teologica e umana, ma che sia la verità e l’amore pastorali di Gesù quale offerta a tutti gli uomini da salvare; che sia il bagaglio della dottrina cattolica, in ascolto dia-cronico di tutta la Traditio fidei. Solo così esso diventa non pietre ma pastus, cibo di vita, la Santa Eucaristia. E qui un discorso che si riappropri della sacralità della liturgia promanando dall’ininterrotta lex orandi della Chiesa (ovviamente non a cominciare dal Messale di Paolo VI, ma da quello formatosi a partire dagli Apostoli e dai Padri con i grandi Santi) è d’uopo e urgente. Dio non si vede più perché le nostre liturgie sono sciatte e spesso prive di fede.

Infine, sarebbe auspicabile non insistere più su stile che varia a seconda del papa di turno e dottrina, provocando così un’ennesima spaccatura tra fede e vita cristiana, espressione più plastica della spaccatura a monte tra Chiesa di oggi e Chiesa di sempre. Lo stile deve essere cattolico e perciò sovrapponibile alla dottrina di fede e di morale, quantunque rimanga accidentale e provvisorio rispetto alla fede e al suo annuncio. Provare a salvare capre a cavoli dicendo che in fondo “lo stile è l’uomo”, il papa, e che la dottrina di fede è da adattarsi allo stile, alle priorità pastorali del Papa, significa semplicemente subordinare la fede all’uomo, la dottrina allo stile. Così è facile risolvere la fede in uno “stile pastorale”, il quale mentre diluisce la dottrina si pone esso stesso come principio di azione e nuova mens cristiana, fino ad esasperazioni inaccettabili, quali ad esempio giustificare quasi come paritario il credere in Dio e l’essere atei, l’avere fede in Gesù Cristo e il seguire altre religioni. Anche il Sinodo sinodale voleva essere uno stile, un modo di essere della Chiesa di oggi. Eppure ha discusso di dottrina cattolica (il sacramento dell’Ordine, il celibato ecclesiastico, l’omosessualità eccetera) con l’intento di cambiarla, ma senza grande successo. È inevitabile che lo stile a lungo andare si imponga come dottrina e che la fede venga declassata a mero stile: fede di una volta o di oggi, si ode spesso, dipende dai gusti, dallo stile appunto. Vorrà il nuovo papa porre rimedio a tutto ciò?

corrispondenzaromana.it





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