L
’ultimo numero del nostro Bollettino[1] è dedicato all’«egualitarismo», ideologia conformista e omogeneizzante che serpeggia nella modernità da almeno due secoli. Nel nome dell’egualitarismo il maschio è equivalente alla femmina, il merito al demerito, la volontà alla ragione – e così via, in un elenco interminabile di contrari. Ma non si può dire qualcosa dell’egualitarismo senza prima tentare una definizione del concetto di «eguaglianza» e del suo contrario, che è la «diversità».
Differenza tra “eguale” e “giusto”Lasciando perdere che due bottiglie con la stessa forma sono eguali, qua interessa capire se abbia un senso l’eguaglianza tra le persone, dal punto di vista etico-morale, teologico, giuridico e politico. È meglio allora parlare di «eguaglianza sociale», che può essere definita come «la condizione per cui ogni individuo o collettività devono essere considerati alla stessa stregua di tutti gli altri, e cioè pari, uguali, soprattutto nei diritti politici, sociali ed economici»
[2].
Si tratta, con tutta evidenza, di un termine generico, come il concetto di libertà. E infatti «il dire che due enti sono eguali, senz’altra determinazione, non significa nulla nel linguaggio politico»
[3]. Bisogna quindi scendere nel dettaglio. Meglio ancora nel dettaglio (e nel linguaggio) forense, dove le cose si chiariscono meglio. Nella tradizione aristotelica e giuridica, l’eguaglianza si applica alla giustizia – può aiutare l’immagine della bilancia antica, i cui piatti allo stesso livello simboleggiano l’equità – dove, però, la giustizia si declina in almeno due forme diverse
[4].
La prima forma è la giustizia commutativa (o retributiva) e regola i rapporti sulla logica del dare-avere, del produrre-premiare, del delinquere-punire: si tratta dei rapporti, ad esempio, tra mercede e lavoro, o tra danno e indennizzo, o anche tra merce e prezzo. L’esito di questo genere di giustizia è sempre egualitario. Si potrebbe anche dire che contravviene alla giustizia commutativa quell’«ingiustizia» che «è contraria alla legge»
[5]. In questo senso, «la legge è uguale per tutti»
[6].
Si ha però anche la giustizia distributiva (o attributiva), che si fonda su tutt’altra logica. Tutto ciò, infatti, «che non è rispettoso dell’uguaglianza è contrario alla legge, ma non tutto ciò che è contrario alla legge è irrispettoso dell’uguaglianza»: esiste «pure del giusto e dell’ingiusto particolari»
[7]. È certamente giusto, in altre parole, che vi siano scontri e recriminazioni tanto se «persone uguali hanno o ricevono cose non uguali», quanto se «persone non uguali hanno o ricevono cose uguali»
[8]. C’è insomma una diseguaglianza naturale e fondativa tra le persone, secondo cui è giusta una distribuzione secondo il merito o proporzionale al valore del singolo.
Aristotele, altrove
[9], insiste su questo suo pensiero: «[…] si pensa che il giusto sia eguaglianza, e lo è, ma non per tutti, bensì per gli uguali; anche l’ineguaglianza si pensa sia giusta, e lo è, in realtà, ma non per tutti, bensì per i diseguali […]». Una cosa, quindi, è la giusta retribuzione, altra cosa è regolare, ad esempio, i rapporti di lavoro o i rapporti in seno alla famiglia, ovvero la giusta attribuzione. Vi sono infatti «assegnazioni»
[10] regolate, giuste e necessariamente diverse per la moglie rispetto al marito o per l’operaio rispetto all’impiegato. L’esito, in questo secondo caso, non è egualitario.
Ne consegue che la legge (o la regola), in generale, ha un aspetto legato all’eguaglianza e un aspetto legato alla diseguaglianza, pur rimanendo ancorata alla giustizia, perché le persone sono eguali rispetto a qualcosa e diseguali rispetto a qualcos’altro. La Dottrina sociale della Chiesa assume appunto l’eguaglianza in questo senso classico e universale, come del resto assunto dal diritto greco-romano.
Eguaglianza come ideologiaL’egualitarismo, circa quanto scritto, è allora la contestazione del diritto classico e della Dottrina sociale, ritenendo nulle le differenze tra persone. Ma ritenere ciò significa contestare la realtà stessa del mondo – e non solo rispetto ad Aristotele e al diritto greco-romano, ma anche alla stessa Rivelazione.
L’egualitarismo può essere definito come quel «sistema morale o giuridico» in cui «tutti i benefici» o «tutti gli oneri» sono «distribuiti in parti uguali a tutti»
[11]. Però proprio per il fatto che nell’ambito politico vi sono delle «regole» comuni – intese come concernenti «sempre certi benefici o oneri da attribuire a certe persone» –, se «egualitarismo significasse parti uguali di tutto a tutti, praticamente tutte le regole esistenti sarebbero non egualitarie»
[12]. Ovvero un paradosso.
È molto facile comprendere come l’egualitarismo sia divenuto parte di molte dottrine: comunismo, rivoluzione, democratismo, laicismo, ecologismo, radicalismo. Si tratta di uniformare la vita sociale mediante artifici politici e culturali, che tendono a livellare la prassi e il modo di pensare delle persone. È la stessa cultura detta laica o laicista che, a volte, si accorge del paradosso egualitarista. Secondo Norberto Bobbio – per fare un nome legato a questa cultura – le tipologie di eguaglianza sono quattro e non tutte accettabili: eguaglianza «di alcuni in qualche cosa» (scarso valore politico), «di alcuni in tutto» (i guerrieri della Repubblica platonica), «di tutti in qualche cosa» (eguaglianza giuridica), «di tutti in tutto» (soluzione comunista)
[13].
Bobbio tiene per valida solo l’eguaglianza giuridica perché, a parte le prime due, Marx «non ci offre mai una descrizione articolata della società egualitaria e delle sue istituzioni politiche»
[14]. Bobbio è sì interessato all’eguaglianza (e alle suggestioni della sinistra), ma tenendo conto del dato della realtà, secondo cui: l’egualitarismo ingenuo è caricaturale; bisogna considerare sempre anche il merito e la capacità del singolo; ha senso l’eguaglianza delle opportunità (non dei punti di arrivo); la diseguaglianza esiste e non è per nulla artificiale
[15].
Bobbio comunque non si discosta da un certo egualitarismo livellatore, che «chiede l’eguaglianza del maggior numero di individui per il maggior numero di beni», passando per l’abolizione della ricchezza e per l’istituzione di un conseguente e morigerato stile di vita tra lusso e miseria
[16].
Eppure, alla fine, anche il più convinto egualitarista deve capitolare dinnanzi ai fatti della storia e della realtà. Scrive Ermanno Vitale: «gli uomini desiderano l’eguaglianza solo quando sono in posizione d’inferiorità: ma non appena raggiungono l’eguaglianza, incominciano a lottare per vedersi riconosciuta quella presunta superiorità che prima tanto anelavano a livellare. Il pendolo tra eguaglianza e diseguaglianza che, secondo Aristotele, caratterizza il mutamento politico e in qualche modo la storia umana appare però decisamente sbilanciato a vantaggio dell’estremo della diseguaglianza»
Eguaglianza nella dignitàÈ rivelato che l’eguaglianza tra gli uomini è conseguenza della comune dignità di creature, in quanto sono «immagine e somiglianza» del Dio creatore
[17]. Questo è pure il senso di due altri passi neotestamentari: «Dio non fa preferenze di persone»
[18]; «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù»
[19].
La fede e la vita di grazia realizzano, nell’uomo e nella società, la sintesi tra eguaglianza universale e diseguaglianza particolare. Ne scaturisce una società organica e ordinata, così come disposta dalla Provvidenza. Dio provvidente ha voluto la coordinazione tra giustizia e misericordia, così come tra eguale e diverso. Tutti i concetti più importanti della Dottrina sociale – bene comune, sussidiarietà, solidarietà, proprietà privata – poggiano su una complementarietà tra eguaglianza e valorizzazione dei talenti peculiari
[20].
Il problema dell’egualitarismo non dovrebbe affatto porsi, poiché «un’affermazione eccessiva di uguaglianza può dar luogo a un individualismo dove ciascuno rivendica i propri diritti, sottraendosi alla responsabilità del bene comune»
[21].
Silvio Brachetta
[1] Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa, a cura dell’Osservatorio internazionale Cardinale Van Thuân, Cantagalli, a. XIX, n. 4/2023.
[2] Voce «Eguaglianza», in Vocabolario Treccani (online), 2a.
[3] Norberto Bobbio, voce «Eguaglianza», in Enciclopedia del Novecento Treccani, 1977.
[4] «Che, dunque, i tipi di giustizia sono più d’uno e che ne esiste una specie distinta oltre alla giustizia intesa come totalità della virtù, è chiaro: ma bisogna cercare di afferrare quale essa sia e quale natura abbia». Aristotele, Etica Nicomachea, V, 1130b, 5 ss.
[5] Ivi, V, 1130b, 10 ss.
[6] Dalla Costituzione termidoriana. Anno III della Rivoluzione francese, 1795.
[7] Aristotele, Etica Nicomachea, V, 1130b, 15 ss.
[8] Ivi, V, 1131a, 20 ss.
[9] Aristotele, Politica, III, 9, 1280a, 10 ss.
[10] «Assegnare» significa, in particolare, attribuire «un bene a una persona», o scegliere «in considerazione di una sua particolare posizione o qualifica». Voce «Assegnazione», in Vocabolario Treccani (online). E dunque si assegna un premio particolare, un lavoro particolare, una rendita particolare, ecc…
[11] Felix E. Oppenheim, voce «Uguaglianza», in Il Dizionario di Politica, a cura di Norberto Bobbio, Nicola Matteucci, Gianfranco Pasquino, Utet, Torino 2004, p. 1007. I corsivi sono dell’autore.
[12] Ibid.
[13] Ermanno Vitale, Eguaglianza e egualitarismo, oggi. Da Bobbio a Babeuf e ritorno, «Teoria politica», a. IX/2019, p. 303.
[14] Ibid.
[15] Cf. ivi, pp. 304-305.
[16] Ibid.
[17] Cf. Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, LEV, 2004, p. 53.
[18] At 10, 34
[19] Gal 3, 28.
[20] Cf. Compendio, cit., p. 114.
[21] Ivi, p. 57