venerdì 28 luglio 2023

Utero in affitto reato universale, un buon primo sì




Approvato a Montecitorio il testo che qualifica come reato la maternità surrogata, anche se commesso all’estero. Ora passa al Senato. Il Ddl è raggirabile ma la sua ratio è positiva. E ricorda che gli esseri umani non sono cose.



ALLA CAMERA

EDITORIALI 

Tommaso Scandroglio, 28-07-2023

Il testo che qualifica la pratica della maternità surrogata come reato universale è passato due giorni fa alla Camera. Ora l’attende l’esame da parte del Senato. Già oggi, ex lege 40/2004, la pratica dell’utero in affitto è reato se compiuta sul suolo italiano. Se passasse la legge, qualsiasi cittadino italiano che all’estero affittasse l’utero di una donna, per portarsi a casa un bebè, potrebbe finire dietro le sbarre. Già a suo tempo avevamo commentato il testo di legge. Qui vogliamo aggiungere qualche altra riflessione.

La ratio della bozza è da giudicarsi sicuramente in modo positivo, però, come si dice, fatta la legge trovato l’inganno. Uno dei possibili raggiri al dispositivo della legge si potrebbe realizzare in questo modo. La donna che affitta l’utero potrebbe comparire agli occhi dello Stato italiano come la compagna straniera di chi in realtà e lontano dagli occhi dei giudici italiani ha affittato l’utero, compagna che è rimasta incinta a seguito di fecondazione artificiale e che avrebbe poi deciso di non riconoscere il figlio, una volta nato, perché in rotta con il (falso) compagno. Niente utero in affitto quindi, ma solo una storia di amore da cui è nato un figlio e che poi è naufragata. In tal modo il committente-falso compagno potrebbe tornare in Italia figurando legittimamente come unico genitore. Il quale unico genitore poi potrebbe trovare una “nuova” compagna (o “nuovo” compagno, se gay), la quale non sarebbe altro che la vera partner del committente maschio, pronta ad adottare il bambino. Un giochino che si può fare anche se quest’ultima fosse la moglie (il diritto non vieta di avere amanti ingravidate).

Altro escamotage valido solo per i conviventi, etero o omo che siano. La legge che verrà punisce unicamente i cittadini italiani. Basta quindi che uno dei membri della coppia sia straniero e il gioco è fatto: quest’ultimo/a si reca in un Paese dove è legale la maternità surrogata per i single oppure non è vietata per i single (seppur in quest’ultimo caso le garanzie per diventare padre o madre siano assai più fragili). Il/la finto/a single, avuto il bambino, torna in Italia con il neonato che potrà essere adottato dal vero partner (a patto che non sia il marito o la moglie) rimasto sul suolo patrio. Trucchi forse non esperibili in tutti gli Stati dove è legale o meramente tollerata la maternità surrogata, ma che in qualche nazione un po’ più permissiva possono dare i loro frutti. Insomma, con un po’ di impegno è possibile farla franca.

Nessuna legge è perfetta, soprattutto sul piano dell’efficacia, ossia sul piano della produzione concreta degli effetti previsti dal testo di legge. Ciò detto, questo Ddl da una parte restringe di molto il raggio d’azione di chi voleva diventare genitore affittando la cavità uterina delle donne all’estero e, su altro fronte, lancia un messaggio chiaro di carattere antropologico: le persone non sono cose. Non lo è innanzitutto il nascituro, nemmeno quando – caso più teorico che reale – il bambino fosse donato e non venduto. Perché i bambini non si vendono né si regalano. I bambini non sono pacchi, nemmeno pacchi-dono.

Nella maternità surrogata il bambino è un prodotto che, prima del processo di filiazione per conto terzi, può essere selezionato in base alle caratteristiche somatiche e caratteriali, scegliendo la donna che venderà l’ovocita; può essere eliminato con l’aborto se è difettoso; può essere sostituito entro due anni dalla nascita se muore; può essere ritirato in deposito se i committenti tardano a recuperarlo causa guerre, epidemie o per problemi di lavoro.

Non è una cosa la donna che affitta le sue viscere, spesso spinta dalla disperazione. Perché la donna gestante diviene un oggetto quando le si attacca un transponder per sapere dove si trova, quando le si impone un certo regime alimentare e un certo stile di vita, vietandole addirittura di avere rapporti sessuali durante la gravidanza, quando non le viene permesso di sapere alcunché sul bambino che porta in grembo. È una cosa che, in alcuni contratti, deve essere mantenuta in vita qualora fosse in coma fino a quando il bimbo non vedrà la luce (cosa assai giusta), per poi staccarle la spina perché non più utile (cosa assai ingiusta).

Sono cose anche gli stessi committenti che, scegliendo di pagare per diventare genitori, non potranno mai diventarlo, perché scadranno al rango di acquirenti, degradando la paternità e la maternità, nonché la stessa filiazione, ad un affare economico, con contratti, terze parti gestanti, intermediari e avvocati.

Il Ddl che è passato mercoledì alla Camera ricorda a ciascuno di noi tutto questo. E non è poco.






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