venerdì 7 luglio 2023

Se la Chiesa di Cristo non parla di “società cristiana”, chi lo farà?






Di Germán Masserdotti, 7 LUG 2023

Le parole sono importanti. Per vari motivi. In primo luogo perché le parole dovrebbero – meglio, devono – essere rappresentative della realtà. Così, se determinate parole non vengono più adoperate, si potrebbe ritenere che le rispettive realtà abbiano cessato di esistere. Facciamo un esempio: se a nostro figlio non parliamo della giustizia, della fedeltà matrimoniale, del rispetto per gli adulti, è logico concludere che per essi queste cose non esistano. Inoltre, se noi, i loro genitori, non parliamo loro di queste cose, chi altri lo farà?

Questo è anche il caso di una espressione scomparsa dal linguaggio della Dottrina sociale della Chiesa, quella di “Civiltà cristiana”. Si potrà leggere, di tanto in tanto, “Civiltà dell’amore”, però, senza negare la corrispondenza tra le due, non si può certo dire che abbia lo stesso significato di “Civiltà cristiana”. A questa espressione si collegano quelle di “Cristianità” e di “Ordine sociale cristiano”, anch’esse oggi completamente scomparse. In tutti i tre casi il riferimento a Cristo è obbligato. C’è una spiegazione del disuso di queste espressioni?

Tre esempi potranno essere utili a questo proposito. Il primo è il Radiomessaggio del 1 settembre 1944 di Pio XII. A cinque anni dall’inizio della Seconda guerra mondiale, Pio XII domanda: “Ai funesti e dolorosi errori del passato ne seguiranno altri non meno deplorevoli, e il mondo oscillerà indefinitamente da un estremo all’altro? Oppure si fermerà il pendolo grazie all’azione di saggi governanti, con direttive e soluzioni che non contraddicano il diritto divino né si oppongano alla coscienza umana e soprattutto cristiana?”. E continua: “Dalla risposta a questa domanda dipende la sorte della civiltà cristiana in Europa e nel mondo. Civiltà che, senza nessun pregiudizio per ognuna delle forme peculiari e così varie della vita cittadina, nelle quali si manifesta l’indole propria di ogni popolo, si incardina in esse e in esse fa rivivere i più alti principi etici: la legge morale inscritta dal Creatore nei cuori degli uomini (cf. Rom 2,15), il diritto naturale che deriva da Dio, i diritti fondamentali e l’intangibile dignità della persona umana, e, per meglio piegare le volontà alla sua osservanza, infonde in ogni uomo, in tutto il popolo e nella convivenza delle nazioni energie superiori che nessun potere umano è in grado di conferire, mentre, a somiglianza delle forze della natura, preserva dei germi velenosi che minacciano l’ordine morale, impedendo la rovina” (n. 9). E aggiunge subito: “Occorre che la civiltà cristiana, senza annullare o indebolire gli elementi sani delle più diverse culture native, le armonizzi nelle cose essenziali, creando in questo modo un’ampia unità di sentimenti e di norme morali, fondamento massimamente solido di vera pace, di giustizia sociale e di amore fraterno tra tutti i membri della famiglia umana” (n. 10). Nel paragrafo successivo afferma: “Gli ultimi secoli hanno visto, con una di queste evoluzioni piena di contraddizioni da cui la storia è stata segnata, da un lato, sistematicamente minati i fondamenti della civiltà cristiana; dall’altro il suo patrimonio diffondersi costantemente in tutti i popoli. L’Europa e gli altri continenti vivono ancora, in diverso grado, delle forze vitali e dei principi che l’eredità del pensiero cristiano ha loro trasmesso, come in una spirituale trasfusione di sangue” (n. 11). Poco dopo aggiunge: “La chiaroveggenza, l’impegno, la forza, il genio inventivo, il sentimento di carità fraterna di tutti gli spiriti retti e onesti determinano in che modo e fino a che grado sarà dato al pensiero critiano di mantenere e reggere l’opera gigantesca della restaurazione della vita sociale, economica e internazionale in una prospettiva che non contrasti con il contenuto religioso e morale della civiltà cristiana” (n. 13). Infine, osserva: “Per questo inviamo a tutti i nostri figli e figlie di tutto il mondo, così come a quanti che, pur non appartenendo alla Chiesa, si sentono uniti a Noi in questa ora di scelte forse irrevocabili, l’urgente esortazione a pesare la straordinaria gravità del momento e di porre al disopra della collaborazione con altre divergenti tendenze ideologiche e forze sociali, suggerita spesso da motivi puramente contingenti, la fedeltà al patrimonio della civiltà cristiana e la sua valorosa difesa dalle correnti atee e anticristiane come chiave di volta che mai può essere sacrificata per nessun beneficio transitorio, per nessuna mutevole combinazione” (n. 14).

L’insieme e ognuno di questi testi meriterebbero una nota a parte. Se la matematica non sbaglia, nel Radiomessaggio Pio XII usa cinque volte l’espressione “Civiltà cristiana”.

Il secondo esempio riguarda Giovanni XXIII. Facendo una ricerca nel sito della Santa Sede si potrà constatare che l’espressione appare con una certa frequenza nei suoi documenti. Per esempio: “Amiano la Spagna, la cui purezza di costumi, così come le sue bellezze e i suoi tesori d’arte, abbiamo pututo ammirare nei viaggi con cui abbiamo percorso le sue terre. Per questo ci rallegriamo che la Spagna, che ha portato la fede a tante nazioni, voglia oggi continuare a lavorare perché il Vangelo illumini le strade che segnano il corso attuale della vita, e perché essa, che si vanta giustamente di essere la culla della civiltà cristiana e faro di espansione missionaria, continui e perfino superi queste glorie, rimanendo fedele alle esigenze dell’ora presente nella diffusione e realizzazione del messaggio sociale del cristianesimo, senza i cui principi e dottrina facilmente si screpola l’edificio della convivenza umana” (Mensaje con motivo de la consagración de la Basílica de la Santa Cruz del Valle de los Caídos, 5 giugno 1960).

Però, in terzo luogo, è certo che, come observa Stefano Fontana, l’espressione “Civiltà cristiana”, allo stesso modo della parola “cristianità”, non viene più usata nei documenti successivi al Concilio Vaticano II (cf. Fontana, S., La Dottrina politica cattolica. Il quadro completo passo dopo passo, Verona, Fede&Cultura, 2023, p. 15). Si tratta di un fatto che dà da pensare. Quale sia la motivazione dei redattori dei documenti non lo sappiamo. Il paradosso è che tanto il Concilio Vaticano II come la sua posterità continuano a confessare la centralità del mistero di Cristo. Basta ricordare la Dichiarazione Dominus Iesus della Congregazione per la Dottrina della Fede del 6 agosto 2000.

È dottrina rivelata che tutte le cose devono essere ricapitolate in Cristo (cf. Ef 1, 10), comprese quelle sociali e politiche, da cui consegue che un ordine sociale ricapitolato in Cristo è, logicamente, una Civiltà cristiana. Il Catechismo della Chiesa cattolica nel numero 2105 proclama la Regalità sociale di Cristo. Come scrive Fontana, le espressioni “cristianità” e “civiltà cristiana” “sono tuttora valide, in quanto esprimono il principio della regalità sociale di Cristo, a cui la Chiesa non può rinunciare” (Fontana, p. 15).

Da ultimo, una domanda a modo di preoccupazione. Se la Chiesa di Cristo non parla di Civiltà cristiana chi lo farà?

Germán Masserdotti






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