di Pierfrancesco Nardini, 13/11/2021
Una prassi sempre più diffusa nei confessionali è quella di assolvere il penitente senza però attribuirgli una penitenza, ossia «l’opera buona imposta dal confessore a castigo e a correzione del peccatore, e a sconto della pena temporanea meritata peccando» (n. 382, Catechismo di San Pio X in seguito Cat.).
Questo, seppur non invalidi la Confessione, è comunque un danno che il penitente subisce.
La Confessione toglie la pena eterna (in caso di peccato mortale), ma non toglie tutta la pena temporanea. Solo in presenza della cosiddetta contrizione perfetta (molto difficile) le preghiere o quant’altro indicato al penitente riescono a toglierla tutta (cf. nn. 381 e 384 Cat.).
Questo lo sappiamo per certo. Il Concilio di Trento, infatti, condannava chi affermava il contrario: «se qualcuno afferma che dopo aver ricevuto la grazia della giustificazione, a qualsiasi peccatore pentito viene rimessa la colpa e cancellato il debito della pena eterna in modo tale che non gli rimanga alcun debito di pena temporale da scontare sia in questo mondo sia nel futuro in purgatorio, prima che possa essergli aperto l’ingresso al regno dei cieli, sia anàtema» (Sess. VI, can. 30).
La spiegazione di questo è semplice.
La gravità di un’offesa si valuta in base all’oggetto. Un’offesa è tanto più grave, e quindi difficile da riparare, quanto più importante ne è l’oggetto. Un conto è, ad esempio, offendere una persona qualunque, altro è offendere chi ha una carica pubblica (il Codice penale prevede delle aggravanti per reati contro pubblici ufficiali e incaricati di pubblici servizi).
Ora, se questo vale nelle relazioni fra uomini, tanto più vale nei rapporti con Dio.
Egli è «l’Essere perfettissimo» (n. 2 Cat.), che non ha difetto e limiti, «è potenza, sapienza e bontà infinita» (n. 3 Cat.). È quindi infinito, eterno (n. 8 Cat.).
L’uomo, di contro, per il suo essere creatura, ha limiti oggettivi che lo rendono un essere finito.
È chiaro allora che l’offesa fatta dall’uomo a Dio assume una gravità infinita, è «moralmente infinita» (Dizionario di Teologia Dommatica, Parente-Piolanti-Garofalo, Ed. Studium, 1952). È qualcosa che l’uomo non può riparare totalmente con le sole sue forze. L’azione più meritevole fatta da un uomo è nulla rispetto all’infinito valore delle azioni più piccole di Dio.
Alla luce di quanto detto, si comprende perché la penitenza sacramentale attribuita al penitente non riesce a togliere tutta la pena temporanea, ma solo una sua parte, e a volte anche minima.
Sappiamo, poi, che «l’anima (…) se ha qualche peccato veniale o qualche debito di pena, va in purgatorio, finchè abbia soddisfatto» (n. 99 Cat.). Questo perché alcuna macchia, anche minima, può avere l’anima che sta in Paradiso, al cospetto della Purezza infinita. Per quanto detto, dunque, sembra molto probabile che un’anima passi dal Purgatorio prima di arrivare in Paradiso.
E questo è il motivo per cui nei tempi passati si attribuivano pene molto severe: per aiutare l’anima del penitente a lavarsi il più possibile dalla macchia temporanea.
Si comprende allora anche, di conseguenza, perché il non assegnare alcuna penitenza comporti un danno per il fedele: già non aiutano quelle blandissime che si usa dare al giorno d’oggi, immaginiamo cosa comporti non attribuirne.
Lasciar uscire il penitente dal confessionale senza avergli dato una penitenza significa non fargli togliere nulla della pena temporanea che ha a suo carico dopo il peccato. Significa, quindi, non aiutarlo a diminuire il più possibile il tempo che la sua anima passerà nel Purgatorio, tenerlo lontano ancor per più tempo dal Paradiso.
Se non è un danno questo…
Magari non gravissimo come altri, ma comunque è un danno: il minor tempo che l’anima passa nella grazia della visione beatifica di Dio, il bene più grande.
Anche l’attuale Codice di Diritto Canonico evidenzia l’importanza dell’attribuzione della penitenza da parte del confessore premurandosi di stabilire: «il confessore imponga salutari e opportune soddisfazioni» (Can. 981).
L’aggettivo usato, “opportune”, è di duplice significato, a parere di chi scrive: la soddisfazione è opportuna (quindi opportuno attribuire penitenze) perché è giusto riparare verso Dio, ma lo è anche per il fedele, che così si purifica anche di tutta la pena temporanea possibile.
Si può affermare, tra l’altro, con ampio margine di sicurezza, che il confessore che non attribuisca una penitenza al fedele incorra in un peccato.
Il ragionamento porta, infatti, a pensare che contribuire in qualche modo alla maggior sofferenza di un’anima (nel Purgatorio questo succede, non è una passeggiata) comporti una responsabilità.
Come detto altre volte, anche questo, la non attribuzione di una penitenza, non è altro che l’effetto di un minor, se non addirittura nullo, valore attribuito da alcuni alla Confessione in generale ed alla necessità di riparare le offese subite da Dio.
Dio è Verità, Bontà e Bellezza
Il Cammino dei Tre Sentieri
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