domenica 19 dicembre 2021

Manzoni coltivò i fiori del bene










Marcello Veneziani

Sul piano letterario, il 2021 è stato dominato da due bicentenari terribili: la nascita di Charles Baudelaire, il poeta maledetto de I Fiori del Male e la nascita di Fedor Dostoevskij, lo scrittore tormentato de I Demoni. Per dare un lieto fine a un anno segnato dai paradisi infernali del poeta francese e del sottosuolo dannato dello scrittore russo, ho curato un’antologia di Alessandro Manzoni dedicata non a caso a I fiori del bene (editore Vallecchi, p.278, 18 euro); uscita in questi giorni e Natale è il tempo più adatto.

Manzoni preferì dedicarsi a una visione edificante della realtà e scrivere libri educativi, “a fin di bene”. Per questo è un autore dimenticato pur nella sua grandezza. È l’anti-Baudelaire, non scende agli inferi e nei territori oscuri e allucinati del male per conquistare i paradisi artificiali. Al contrario, Manzoni pensa che il bene faccia bene a chi lo compie prima che a chi lo riceve; e che generi bene.

Il bene come dirittura morale, come fede e devozione, il bene come amore e saggezza, buon senso e carità; il bene come amor di Dio, della patria e della famiglia. Il bene come fiducia nei verdetti della storia. Un bene che fiorisce in versi o in prosa. In Manzoni anche il bello è soggetto pur sempre al bene, le qualità morali hanno la priorità sui requisiti estetici. Tutta la sua opera è illuminata dal materno soccorso della Divina Provvidenza. Anche la sciagura, alla fine, lavora a fin di bene, tramite quella categoria manzoniana che è la Provvida sventura, che appare già nel coro di Ermengarda dell’Adelchi (“fosti collocata dalla provvida sventura tra gli oppressi”) ma si ritrova nell’arco dell’opera manzoniana. La provvidenza modifica le umane intenzioni e produce conseguenze impreviste che spesso rovesciano le premesse e le finalità dei singoli protagonisti. Il tempo è piegato all’eterno, la storia è guidata dalla metastoria, la mano divina corregge i destini umani con clemenza, a patto che essi lo abbiano meritato, abbiano pregato e creduto. Manzoni è profondamente vichiano nel suo richiamo alla Provvidenza; ammira di Vico “quelle formule splendide e potenti” che sono “la ricompensa del genio che ha lungamente meditato”.

Nei Promessi sposi la mano divina agisce nella storia e sulla sorte dei personaggi; interviene, converte, punisce e guida anche le vite più umili ed inermi. Il cammino travagliato degli eventi e delle esistenze è alla fine coronato dal bene. La visione manzoniana è proiettata verso il lieto fine, osservò Rocco Montano. È lo stesso Manzoni a dire al suo figliastro Stefano Stampa che per I promessi sposi “sarà probabilmente criticato…Ma anche a me piace più il lieto fine”. Cos’è il lieto fine se non l’apoteosi dei Fiori del bene? Chi ha agito nel bene alla fine sarà premiato, ricompensato dall’intervento divino. A ben vedere, il trionfo del cristianesimo sul paganesimo, la sua maggiore aderenza all’animo umano, è proprio nella promessa del lieto fine, la prospettiva del paradiso, la speranza d’immortalità. Una vita rivolta “a fin di bene”, per i cristiani finisce bene. Al “lieto fine” non si sottrae nemmeno Dante: la Divina Commedia ha il suo lieto fine in paradiso; come scrisse il poeta a Cangrande della Scala. Il lieto fine dantesco, a differenza di quello manzoniano, è ultraterreno, trascendente.

Il lieto fine non cancella il travaglio e la tragedia nella vita, ma dà un senso, una prospettiva, una luce; converte il destino in provvidenza.

I fiori del bene sono disseminati nell’opera manzoniana, anche nelle liriche e nelle tragedie, e nei suoi saggi, a partire dalle Osservazioni sulla morale cattolica, che sono il distillato di una filosofia del bene, in opposizione allo spirito laico, ateo e protestante. Non ci sono i Promessi sposi nell’antologia che ho curato, ma le altre sue opere, i suoi scritti sulla morale, sulla fede, sull’Italia e sulla lingua, sulla rivoluzione francese, sul romanticismo, sul pensiero; più un mio ampio saggio introduttivo. In Manzoni il giudizio storico è sottoposto al giudizio morale ma senza pretese perentorie, assolute. È centrale nel suo pensiero la forza morale, i personaggi storici e letterari delle sue opere passano al vaglio del bene e del male. Nella moralità s’incontrano la fede e l’agire civile.

Hanno prevalso però I Fiori del Male nella letteratura e nel pensiero, e forse nell’epoca, fino a intaccare la vita e le relazioni umane. Baudelaire ha fatto scuola anche in chi non lo ha amato e seguito; spleen e darkness, il poeta maledetto e il pensiero negativo, l’angoscia e la nausea, la scissione dell’estetica dalla morale e del dandy dal “buon uomo”; la morte di Dio e l’avvento del nichilismo hanno prevalso sulla filosofia del bene manzoniano e sulla sua impronta cattolica, morale e devota. I fiori del male sono stati il sigillo della modernità su vari piani: nel raccontare il male di vivere, interiore e individuale, storico e collettivo; nella pretesa di sradicarlo e annientarlo; di rappresentare la parte lesa, le vittime, o all’opposto di godere i suoi piaceri proibiti o esecrati. E nel figurare l’artista o lo scrittore come poeta maledetto che vive e descrive l’oscurità, privato della luce e della grazia, errante e sradicato.

Manzoni ha rappresentato nella sua opera l’altro cammino, rivolto al bene.

È questa la ragione principale del suo declino postumo, della sua emarginazione nei nostri anni, unita al rifiuto della sua visione ritenuta paternalistica, moralistica, edificante; ma è soprattutto il rigetto della sua fede cristiana e provvidenziale. Né fiori né opere di bene…

MV, Panorama (n.51)








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