La redazione
Il filosofo americano Tristram H.
Engelhardt è certamente uno dei più importanti bioeticisti al
mondo, direttore del “Journal of Medicine and Philosophy” e docente di
Filosofia presso la Rice University. In questi giorni è uscito il suo ultimo
volume: “Dopo Dio. Morale e bioetica in un mondo laico” (Claudiana 2014),
nel quale -come è stato ben recensito- raggiunge il
culmine del suo pensiero, o meglio della sua critica alla possibilità di fare
affidamento alla ragione per la costruzione di una morale “laica”.
Egli ad esempio scrive che «una corretta
argomentazione razionale non è in grado di fornire un
fondamento canonico alla morale o alla bioetica laiche […]. Ho osservato,
altresì, che la cultura laica oggi procede senza alcun riferimento a Dio e ho
spiegato le ragioni per cui, di conseguenza, non possono
esistere né una morale laica comune né una bioetica laica canonica»
(p. 26). E’ un tema che il celebre filosofo ha già trattato in suo precedente
libro: “Viaggi in Italia” (Le lettere 2012) nel quale, ha scritto: «al
centro dell’attenzione ci sono le questioni filosofiche laiche fondamentali
concernenti la capacità, o meglio l’incapacità, della
riflessione morale laica di dare fondamento alle proprie pretese. Il libro non
analizza con sufficiente ampiezza la svolta profonda prodotta nella cultura
dominante dell’Occidente dal fatto di essere diventata una cultura dopo Dio. Che
cosa comporti la perdita di un significato ultimo, di un orientamento
trascendente, è problema che ancora attende di essere affrontato
compiutamente».
Nel suo ultimo volume riprende e amplia questa tesi: «Il fatto più
significativo è lo sganciamento della morale e dell’autorità dello stato da
qualsiasi allusione a un significato ultimo. Poiché la cultura laica dominante
del nostro tempo si colloca dopo Dio, la riflessione morale
laica non può che occuparsi di ogni cosa come se essa non venisse da nessuna
parte, non andasse da nessuna parte e non avesse alcuno sbocco finale. Deve
trattarsi, cioè, di una morale e di una struttura politica costruite come se
moralità, vita morale, strutture politiche e stati fossero in ultima analisi
privi di significato. Il punto non è semplicemente che in un
universo senza Dio non esiste alcuna sanzione necessaria nemmeno per atti di
malvagità enormi. Tutto è in definitiva assolutamente privo di senso. La forza
di questa completa e impenetrabile opacità è ancora in attesa di essere
adeguatamente misurata e affrontata» (p.46).
In un suo recente intervento ha ribadito: «Senza fondamenti, e senza
una prospettiva divina, non si può dimostrare che abbiano una
priorità razionale cogente né la comunità anonima di tutti gli individui, né la
comunità di coloro che amiamo e a cui restiamo fedeli. Una volta separate dal
proprio ancoraggio in Dio e/o nell’essere (il che significa in una metafisica),
tutte le morali e le bioetiche secolari diventano più o meno chiaramente
narrative morali particolari, socio-storicamente condizionate, che affermano
configurazioni particolari di intuizioni morali che si muovono nella dimensione
del finito e dell’immanente.
A differenza delle affermazioni di obblighi morali
fondati su una comune origine divina, che potrebbero essere riconosciute persino
da un ateo come putativamente fondate nell’essere – nonostante l’ateo consideri
falsa tale pretesa – la morale secolare contemporanea è necessariamente
contingente e storicamente condizionata.
Tale sradicamento e tale
contingenza hanno implicazioni drammatiche riguardo alla forza
delle pretese normative avanzate dalla teoria morale contemporanea dominante di
stampo secolare su questioni come il significato morale di autonomia,
uguaglianza, uguaglianza di opportunità, diritti umani, giustizia sociale e
dignità umana». Queste implicazioni drammatiche vengono riassunte dal
filosofo americano nella definizione di “stato secolarizzato fondamentalista”,
con le sue morali e le sue bioetiche: «La rottura della cultura contemporanea
dalla cristianità tradizionale è legata anche all’emergenza degli stati
fondamentalisti secolarizzati», ha affermato.
Ma la critica di Engelhardt non è soltanto
rivolta ai tentativi laici di fondare una morale che prescinda da Dio («una
visione canonica laica della pienezza umana e della condotta umana appropriata
non può essere colta in forma adeguata se non facendo riferimento a
Dio», p. 38) ma anche alla “legge naturale” e al
cattolicesimo, il quale avrebbe sbagliato a voltare le spalle a
Gerusalemme in favore di Atene, ovvero avendo deciso di abbracciare la filosofia
e la ragione per la giustificazione delle sue affermazioni. Engelhardt afferma
invece che la fede non può che reggersi sull’incontro diretto con Dio e non
sulla conoscenza di Dio e della morale che la ratio consente di dispiegare.
Questo progetto, secondo il filosofo, sarebbe fallito e per
questo nelle nostre società si sarebbe passati da un’idea della morale come
scienza del corretto agire a un’idea della morale come (semplice) questione di
stile di vita (declassamento): parla così di «collasso del progetto
etico-filosofico occidentale, elaborato in Grecia nel v secolo a.C., riproposto
nel Medioevo e destinato a diventare, attraverso il cattolicesimo romano, uno
dei cardini della cultura occidentale del Medioevo, della modernità e
dell’illuminismo. La speranza, concepita dall’antica Grecia e abbracciata dal
cristianesimo del Medioevo occidentale, di fondare l’etica in una razionalità
morale univoca e filosoficamente giustificata è definitivamente sfumata» (p.
45).
Evidenziati i limiti radicali della filosofia
morale, Engelhardt afferma che in un mondo post‐moderno e post‐cristiano,
quindi, in cui sarebbe fallito il progetto di legare fede e
ragione e in cui Dio e i fondamenti sono respinti, lo spazio dei
credenti non è quello di essere assorbiti dalla cultura laica dominante, ma la
riscoperta delle autentiche radici della fede del Cristianesimo
ortodosso, il quale conserverebbe il richiamo alla genuina spiritualità
cristiana: il bene non può essere conosciuto attraverso la ragione e a
prescindere da Dio, ma solo a partire dall’incontro con Lui.
Se è decisamente condivisibile
la prima parte del suo pensiero, ovvero la sottolineatura dell’infondatezza di
una morale “laica” fabbricata dagli uomini, o dalla maggioranza di essi, che
prescinde da un ordine superiore (ne abbiamo già parlato anche noi: Ultimissima 30/01/12 e Ultimissima 03/07/12), la seconda parte non
la riteniamo affatto corretta.
Esiste una legge comune nel
cuore di ogni uomo che, se usata correttamente, è capace di guidarlo verso il
bene anche con il solo uso della ragione. Certo, privati della
fede è un cammino tortuoso, faticoso e difficile ma non impossibile. Come ha affermato Pio XII:
«Benché la ragione umana, assolutamente parlando, con le sue forze e con la
sua luce naturale possa effettivamente arrivare alla
conoscenza, vera e certa, di Dio unico e personale, che con la sua Provvidenza
sostiene e governa il mondo, e anche alla conoscenza della legge naturale
impressa dal Creatore nelle nostre anime, tuttavia non pochi sono gli
ostacoli che impediscono alla nostra ragione di servirsi con efficacia
e con frutto di questo suo naturale potere». Ha continuato, «si deve dire
che la Rivelazione divina è moralmente necessaria affinché quelle verità che in
materia religiosa e morale non sono per sé irraggiungibili, si
possano da tutti conoscere con facilità, con ferma certezza e senza alcun
errore».
Le conclusioni pratiche di Engelhardt è che lo
Stato, impossibilitato a risolvere razionalmente le questioni etiche e
bioetiche, non debba propendere per nessuna concezione morale.
Tuttavia, come ha rilevato il filosofo Giacomo
Samek Lodovici dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, «se lo
Stato è totalmente neutrale dal punto di vista etico, se anche il divieto di
usare violenza non è un principio morale, allora non è moralmente
biasimabile un soggetto che lo trasgredisce quando può farlo, evitando
conseguenze per lui dannose». Questa è una delle contraddizioni in cui cade
il filosofo americano, l’altra è certamente che chi non crede in Dio dovrà fare
più o meno ciò che crede utilitaristicamente opportuno, senza
che gli altri o la legge morale possano interferire. Engelhardt, infatti,
negando un sostegno razionale alle sue posizioni etiche non fa altro che
accomodarsi al pluralismo etico, sconfinando in una pigra
neutralità dominata da assenza di valori.
Questo, ad esempio, lo ha portato ad affermare la
negatività di aborto, eutanasia ed infanticidio ma sostenendone la
liceità. Lo ha fatto ad esempio nel suo “Manuale
di bioetica” (Il Saggiatore 1999, pp.155-161) scrivendo: «non tutti gli
umani sono persone. Non tutti gli umani sono autocoscienti, razionali e capaci
di concepire la possibilità del biasimo e della lode. Feti, infanti, ritardati
mentali gravi e malati o feriti in coma irreversibile sono umani, ma non
sono persone. Sono membri della specie umana, ma di per sé non hanno lo
status di membri della comunità morale laica. Non possono né biasimare né essere
biasimati, né lodare né essere lodati; non sono in grado nemmeno di fare
promesse, di concludere contratti o di accordarsi su un atto di beneficenza. Per
queste ragioni, in termini laici generali non ha senso parlare di
rispetto dell’autonomia per feti, infanti o adulti gravemente ritardati
che non sono mai stati razionali. Essi non possiedono un’autonomia suscettibile
di essere lesa dagli altri. Chi li tratti senza riguardo per
ciò che non possiedono e non hanno mai posseduto non li priva di nulla che possa
avere una dignità morale laica generale».
Come ha sottolineato anche il prof.
Antonio Allegra, docente di Storia della filosofia presso
l’Università per stranieri di Perugia, «in uno scenario in cui il riferimento
di Dio appare spesso difficile, rinunciare alle armi della razionalità è mossa
dalle conseguenze ulteriormente devastanti […]. La difficoltà a
procedere in un quadro pluralista che ha rinunciato ai fondamenti filosofici, e
le conseguenze incongrue che ne derivano, sono evidenti proprio
grazie alle specifiche posizioni di Engelhardt» sulla bioetica.
UCCR 21 novembre 2014
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