Di Carlo Bellieni
Ma si semplificano le cose anche negli adulti: dopo l’arresto cardiaco c’è un periodo di tempo da far passare per decretare la morte, ma questi tempi si possono anche accorciare alla bisogna se si è già decretato che la vita comunque non merita ulteriori chances. «Nei protocolli per questo tipo di donazione di organi» spiegava (Agosto 2008) un editoriale del New England Journal of Medicine «i pazienti che non sono in morte cerebrale ma su cui è in corso una sospensione dei trattamenti di supporto vitale, vengono monitorizzati per cogliere l’insorgenza di arresto cardiaco» e «sono dichiarati morti dopo 2-5 minuti dall’arresto cardiaco e gli organi vengono rimossi». Continua così l’editoriale: «Sebbene tutti concordino che molti pazienti possano essere ancora rianimati dopo 2-5 minuti di arresto cardiaco, i sostenitori di questi protocolli dicono che possono essere considerati morti perché è stata presa la decisione di non rianimarli (…)». Molti obietteranno che non si dovrebbero togliere gli organi e provocare così la morte. «Ma – si risponde – nelle moderne rianimazioni le decisioni etiche sono già la causa terminale di morte». E come si poteva immaginare, questa speciale attenzione è ricaduta anche sui neonati, in cui, avverte James Bernat, sempre sul NEJM, il periodo di osservazione prima di partire con l’espianto scenderebbe a 75 secondi. Questo certo non accade in Italia, ma come è facile scivolare quando si inizia ad andare su un piano inclinato. Il Mail Online del 3 ottobre così titola: «Il numero di pazienti con malattia mentale triplica in Olanda e i dottori mettono in guardia che il suicidio assistito è fuori di controllo»: 3.600 persone eutanasizzate con malattia terminale, ma anche un centinaio con malattia psichiatrica, con un aumento del 150% negli ultimi sette anni. Anche la rivista Current Opinion in Anesthesiology di aprile 2014 spiega i rischi aperti dall’eutanasia per le persone fragili mentalmente.
Non siamo certo noi fautori di un accanimento terapeutico: le cure hanno un limite perché lo scopo della medicina non è prolungare la vita, ma prendersi cura, cosa che significa anche non far cose senza senso. Ma ci domandiamo tre cose. La prima riguarda chi decide in caso di eutanasia infantile: quanto ha senso sospendere le cure non solo sulla base dei dati oggettivi, ma sul parere dei genitori? La cosa a prima vista sembrerebbe ragionevole, se non si tiene conto del fatto che i genitori non hanno le conoscenze mediche e non le possono imparare in poche fiammanti sedute, che possono avere un conflitto di interessi col figlio o fra di loro, e che soprattutto sono sotto grave stress, cosa che controindica prendere decisioni irreversibili.
Non a caso il Journal of the American Medical Association
pubblicava in maggio un articolo dal titolo: «Eutanasia Pediatrica in Belgio: Sviluppi Inquietanti». Sempre riguardo i bambini, ci domandiamo quanto conti l’oggettività dei segni clinici. Per i bambini, secondo il protocollo di Groningen, una delle categorie per cui è prevista l’eutanasia è quella con sofferenza insopportabile a giudizio dei genitori e dei medici. E qui viene da domandarsi perché, avendo strumenti per valutare oggettivamente il dolore, ci si debba rifare al parere soggettivo dei genitori, che pur dovendo sempre essere informati al massimo e protagonisti delle cure, hanno i limiti di cui sopra. E perché si includa nel novero delle forme di sofferenza insopportabile quelle che possono portare a una qualità di vita 'bassa', come la spina bifida, concetto messo in discussione proprio dai medici stessi che curano la spina bifida e recentemente da un’indagine tra i medici austriaci. Il problema di cosa sia poi 'sofferenza insopportabile' rischia facilmente di sfuggire di mano: un’indagine tra i medici europei mostra che ne esiste una grossa percentuale – con l’Italia in coda fortunatamente – che pensa che la vita con disabilità fisica sia peggio della morte.
Infine dovremmo chiederci quanto questo dibattito per la corsa ad un’eutanasia sempre più rapida e agevole non sia una scorciatoia per non parlare del disagio della famiglie e del paziente: insomma, ti do la maniera di morire, ma non ci venite a far perder tempo parlando su come vivere meglio: quanti studi parlano della depressione nelle persone con malattia cronica e quante spiegano che questa depressione non è spesso curata o viene curata male? Per non parlare del problema sociale ed economico che grida vendetta: famiglie abbandonate a spese insostenibili di fronte alle quali la morte sembra la via più percorribile… almeno per gli Stati.
Non che la malattia grave e cronica non sia un dolore fortissimo, ma che nulla si faccia per aiutare queste persone a non essere sole è ingiusto e indegno.
Sembra allora che, aperta la breccia con il concetto dell’eutanasia per chi sta morendo e soffre, poi il concetto vada espandendosi: nell’affrettare ancor più la morte, nel dare la morte a chi non può chiederla e nel darla non a chi ha un dolore in atto ma una (neanche certa) bassa qualità di vita futura. Insomma, una volta partiti per la strada dell’autodeterminazione e non per quella di un arresto delle cure inutili su basi oggettive, il rischio è che i deboli, i bambini, i disabili e le loro famiglie si trovino – come in tanti altri settori – con minori tutele.
© Avvenire 8 nov 14
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