Mons. Juan José Perez-Soba
Intervento del professor Juan José Pérez-Soba sul recente Sinodo straordinario sulla famiglia che s’è tenuto a ottobre. Sacerdote spagnolo, Pérez-Soba è professore ordinario di Teologia pastorale del matrimonio e della famiglia presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e famiglia di Roma. «Criticare la “Familiaris Consortio” di Karol Wojtyla – diceva al “Foglio” lo scorso febbraio – rientra in una visione in cui la Chiesa sta sempre dietro al mondo, mentre la Chiesa deve proporre qualcosa che salvi il mondo». Insieme con il collega Stephan Kampowski, ordinario di Antropologia filosofica presso lo stesso Istituto, ha da poco pubblicato il libro “Il Vangelo della famiglia nel dibattito sinodale oltre la proposta del cardinal Kasper” (Cantagalli).
di monsignor Juan José Perez-Soba
Un mese dopo la conclusione del primo Sinodo sulla famiglia con il titolo “Le sfide pastorali della famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”, da quanto è accaduto sorgono molte domande.
In primo luogo, si percepisce un grande silenzio. Dopo un’alluvione costante di notizie, a stento s’è sentita un’eco posteriore. Ci sono state dichiarazioni valutative da parte di alcuni protagonisti del Sinodo, ma in generale di profilo basso e senza creare nuove aspettative per la prossima assemblea sinodale. Mi chiedo dunque: cosa è successo? Come dobbiamo valutare questo primo Sinodo? La Chiesa come deve prepararsi per il prossimo? A malapena abbiamo ricevuto qualche luce, a tal proposito. Mentre l’anno scorso, a una settimana dalla convocazione del primo Sinodo, già veniva presentato ai mezzi di comunicazione il questionario che sarebbe stato il sentiero del cammino sinodale che il Papa desiderava, ora, invece, si attende qualche indicazione con una certa tensione.
Il quadro dell’interpretazione che ci resta è esiguo, il che è preoccupante per una questione come la famiglia, con tante ripercussioni sociali e tanto esposta a ogni tipo di campagna mediatica. Questa inquietudine è ancora maggiore dopo il bombardamento continuato di notizie sul Sinodo che abbiamo vissuto nei mesi precedenti. La conseguenza è una certa disillusione che prende la forma sociologica di una lotta tra “progressisti” e “conservatori”, ma nella quale la vera questione del Vangelo della famiglia è del tutto assente.
La ricerca di un’interpretazione. Anche il testo che dovrebbe essere la base per qualunque interpretazione posteriore del Sinodo, il discorso del Papa Francesco alla conclusione dello stesso (18 ottobre), non ci offre molte piste. In questo documento a stento si trova menzionata la famiglia: l’unica affermazione in cui si parla del matrimonio e della famiglia è quando s’afferma che s’è discusso sul tema “senza mettere mai in discussione le verità fondamentali del sacramento del matrimonio.
L’indissolubilità, l’unità, la fedeltà e la procreazione, vale a dire l’apertura alla vita”, e cita come fonti il diritto canonico (cc. 1055-1056) e il Concilio (GS 48). Sembra che il Pontefice non abbia trovato questioni da evidenziare nel risultato finale del Sinodo.
La domanda è chiara: per questo risultato c’era bisogno di un Sinodo?
Di più, la lettura attenta della Relatio finale acuisce questa domanda. È certo che si tratta di un testo necessariamente breve e di compromesso tra le diverse posizioni che sono state presentate in Aula ma, almeno, qualche lettore cerca in quel documento qualche novità incisiva sulla famiglia e la pastorale. Invece, trova semplicemente o mere indicazioni generali espresse in forma esortativa o, tutt’al più, una descrizione di discussioni che non portano a nulla.
Non si può dubitare che il discorso del Papa a conclusione del Sinodo sia importante, articolato, e parli con chiarezza dei temi che a lui preme mettere in risalto e che hanno come segno d’interpretazione diretta ciò che è accaduto al Sinodo come il Pontefice l’ha visto e valutato. Il discorso ruota attorno a due temi: come venire a capo di una discussione nella Chiesa e la relazione tra il Papa e il Sinodo che è espressa in una forma lontana da ogni accenno di sinodalismo. Sono temi seri che permettono una certa comprensione di ciò che è accaduto. Tutto questo è certo, ma tra questi temi principali non ci sono né la famiglia né il matrimonio. Sembra che quello che hanno dibattuto i padri sinodali sia stata dunque un’altra questione. Deve essere compresa bene questa prima conclusione. È chiaro che si è parlato e discusso molto di famiglia, ma non è così evidente dove abbia portato questa discussione. Questo è uno dei presupposti fondamentali per qualsiasi dialogo: non si parla solo di un argomento, ma c’è un interesse prioritario che aiuta a orientarlo e che permette qualche aggiunta in proposito. Ma non sembra che questo argomento sia stato in realtà la famiglia. Dobbiamo cercare di capire che cosa sia accaduto in verità.
L’ideologia che occulta la realtà. In questo senso, emerge allora una possibile chiave interpretativa del Sinodo che ha a che fare precisamente con l’ultima delle “tentazioni” sottolineate dal Pontefice: “La tentazione di dimenticare la realtà”. Questo è “dire tante cose senza dire niente”. In concreto sembra che, a partire dalla situazione difficile del matrimonio e la famiglia, alcuni hanno voluto dirimere altre questioni, che in realtà non interessano la famiglia, per cui questa non è stata altro che un pretesto. Parlando della famiglia, si può in fondo dibattere su altro, per cui, in realtà, non si fanno progressi sull’aiuto di cui necessitano le famiglie.
Si tratta, senza dubbio, d’una grave tentazione, che si inquadra soprattutto nella enorme difficoltà di giungere a una visione reale della famiglia. Uno degli aspetti su cui aveva posto la propria attenzione l’Instrumentum laboris previo (n.45) era stato quello di cogliere nei giovani un interesse percepibile per la famiglia, malgrado una cultura che la denigra o che in più d’una occasione ha mostrato di volerla distruggere. Questo dato è constatato da tutte le indagini sociologiche che, da una parte, attestano che la famiglia è l’istituzione più apprezzata dalle persone; dall’altra, evidenziano il suo rigetto culturale e istituzionale. Si osserva allora una profonda frattura fra la realtà della famiglia come desiderio delle persone e una cultura che presenta modelli apparenti che ostacolano la realizzazione di ciò che davvero desiderano i giovani.
Constatare questa frattura è il modo migliore per scoprire l’esistenza di un modo ideologico di parlare della famiglia che si concentra non sulla situazione familiare, ma sulle difficoltà che la stessa ideologia causa alle famiglie. Si osserva qui la forza enorme di questa ideologia che appaga la speranza di molti e induce tanti uomini a intraprendere cammini che in verità non desiderano. Senza dubbio alcuno, scoprire questa frattura è un principio pastorale di primaria importanza poiché il dialogo del pastore deve dirigersi al cuore delle persone e non alle ideologie che vanno per la maggiore. Di più, la Chiesa può approfittare di questo fatto affinché tanti uomini possano realizzare la vita piena cui aspirano e che quella nebbia esteriore ideologica rende più complessa.
Possiamo allora essere sorpresi dell’assenza totale nella relazione finale di qualunque menzione del fatto fondamentale della pressione ideologica, come se non fosse qualcosa di rilevante per la pastorale del matrimonio e della famiglia. Non parlare di una ideologia è il modo migliore affinché la sua influenza sia maggiore. Come diceva Karl Marx, l’ideologia ha la funzione di nascondere un interesse inconfessabile. A chi non se ne accorge, gli si deve far presente che una persona si mette una maschera per nascondere il volto affinché l’inganno che si determina sia il minore possibile. Invece, non incontriamo alcuna traccia di tale denuncia nel Sinodo sulla famiglia, neppure nella sua analisi culturale, nella quale si parla dell’ambiguità della cultura occidentale davanti alla famiglia.
In definitiva, stupisce la mancanza di coscienza di questo cammino pastorale privilegiato. La Chiesa ha sperimentato nel corso della sua storia molte volte l’influenza delle ideologie; ha anche dovuto vincere la tentazione di pensare che qualunque presa di posizione debba essere di partenza ideologica e che non può rimanere bloccata in idee precostituite. La Chiesa è stata capace di superare questa provocazione per il suo modo profondo di sperimentare la realtà delle persone, poiché partecipa di come Gesù Cristo, il Buon Pastore, punta al cuore degli uomini e può così leggere il piano di Dio in lui. Con ciò, non ha disdegnato l’importanza delle mediazioni culturali, che sono parte di quella realtà, ma è stata fermento di purificazione delle culture alla luce del Vangelo. Non parlare di ideologia per favorire un dialogo è una cattiva strategia di partenza. Ciò che pretende qualche ideologia è che la si prenda come interlocutrice diretta, perché così ha il cammino spedito per dare una “patente di realtà” alle sue idee.
Già Socrate, con la sua arte provetta della maieutica, fu un maestro dal quale appresero i primi cristiani per saper evitare con perspicacia l’ideologia che si nascondeva nella posizione sofista e che impediva qualunque accesso alla realtà dell’uomo concreto. Non possiamo perdere il suo insegnamento in una situazione come l’attuale nella quale uno sciame di posizioni ideologiche turba dal principio l’accessibilità alla famiglia reale. Non parlare di ciò significa già assumere una posizione iniziale inadeguata. Purtroppo, è ciò che verifichiamo nei documenti emanati dal Sinodo. Nessuna volontà di parlare di qualcosa tanto evidente è già un modo di preferire un avvicinamento ideologico a una realtà pastorale che, per quanto la riguarda, chiede a gran voce un aiuto per smascherare le pressioni ideologiche di cui soffre.
La famiglia come un pretesto nella relazione Chiesa-mondo – Possiamo concludere allora con una constatazione pratica: per l’ideologia pansessualista attuale, parlare di famiglia non è altro che un pretesto per altre cose. Lo usa sempre per dissolvere la famiglia. Ci troviamo davanti a una sfida pastorale di massima importanza, e si deve mettere tutto l’impegno per non cadere nelle reti ideologiche che circondano la questione del matrimonio e della famiglia. E’ necessario che questo requisito iniziale sia chiaro per qualunque dialogo che si proponga riguardo a questi temi.
Sotto questa luce primaria interpreteremo meglio il contributo di questo Sinodo. Il metodo da usare per venirne a capo deve essere l’analizzare quei dati che ci ha offerto, che sono i due documenti resi pubblici e le proposte dei circoli minori che presentavano le loro correzioni al primo di quei documenti. La percepibile differenza tra i due testi a partire dalle correzioni incisive frutto del lavoro dei padri sinodali è un principio essenziale per comprendere il modo in cui si è giunti a capo di questo Sinodo. Stupisce per questo la valutazione di Antonio Spadaro nella Civiltà Cattolica, dove passa sotto silenzio questo cambiamento così chiaro: non menziona neanche l’inclusione eccezionale di due nuovi redattori per la relazione finale, che è una delle ragioni più chiare del cambiamento.
Come buon letterato, il direttore della rivista gesuita compara le variazioni tra i testi come se fossero prima di tutto di genere letterario. Così il documento definitivo: “ un testo di mediazione meno sbilanciato sulle sfide e più rigoroso e attento a tenere insieme tutti gli elementi del discorso. Il tono e lo stile generale è più da ‘documento’ rispetto alla versione precedente”. Perché tace il fatto evidente di cambi profondi di orientamento resi necessari per le forti critiche dei circoli minori? Parla di trasparenza come motivo alla base della decisione di pubblicare i testi di questi circoli, ma non chiarisce l’origine della stessa. A partire da questi “silenzi” possiamo chiederci realmente quale criterio pastorale abbia guidato questi cambiamenti. Perché non si dice con chiarezza ciò che qualche lettore nota a prima vista, che si tratta di due documenti molto diversi? Possiamo qualificare questa forma di lavoro sinodale come “un cammino reale e realistico” quando si omettono realtà evidenti nella sua valutazione?
Lo scrittore gesuita ci aiuta a rispondere a queste domande poiché, senza necessità di fare alcun riferimento al cambiamento, certamente suggerisce una ragione di fondo: “Tra le righe è possibile cogliere soprattutto atteggiamenti differenti nel comprendere il rapporto della Chiesa con la storia e il mondo, un tema di profonda ispirazione conciliare”. Finalmente il nostro autore serve di interprete del Sinodo, appare quindi una ragione di verità: la posizione della Chiesa nel mondo. Per tanto, non sarà che è questo il tema di cui alcuni hanno parlato nel Sinodo e la famiglia è stata il pretesto? Non è un’affermazione azzardata, quella che faccio: questa sembra essere l’opinione personale dell’articolista giacché, quando vuole vivacizzare la preparazione del prossimo Sinodo, ci dice che è essenziale che “la Chiesa, a tutti i suoi livelli, si interroghi non solamente su questa o quella questione particolare, ma grazie ad esse anche sul modello ecclesiologico che incarna. Esso ci fa comprendere il compito della Chiesa stessa nel mondo e il suo rapporto con la storia”. Cioè, in occasione del dibattito sulla famiglia – un buon pretesto – si cerchi come cambiare il modello della Chiesa, che è ciò di cui si tratta in verità.
Il nostro autore, come buon conoscitore della redazione dei documenti, ce lo dice con tutta chiarezza: ciò di cui in verità per lui s’è trattato in ultima istanza nel Sinodo sono “i modelli della relazione Chiesa mondo”, e che questo tema è quello che ha mediatizzato l’avvicinamento ai temi sulla famiglia. Si comprende allora che questo modo di parlare di “modelli” si è esteso implicitamente a un’accettazione dei “modelli familiari” nel documento citato. Sembra ovvio che un’opzione simile è il miglior modo di incorporare il linguaggio “ideologico” culturale dentro la Chiesa. Forse per questo il contributo reale pastorale del primo Sinodo, nonostante i cambiamenti della Relatio finalis, è così debole e in generale si muove come mera esortazione o come menzione di disposizioni generali.
In verità, per alcuni la famiglia è stata un pretesto di discussione ideologica per cambiare il “modello di Chiesa”. E’ un “nuovo modello” che s’è cercato di introdurre nei testi, benché non si sia parlato esplicitamente di ciò. Tutto rimane celato dinnanzi all’apparente libertà in cui s’è svolto il dibattito, ma poi sembra essere messo in ombra il punto fondamentale, poiché, come è caratteristico della ideologia, è essenziale che non sembri esplicito che passi senza essere respinto. Tutto ciò sembra una manipolazione e una mancanza di trasparenza che alcuni hanno fatto presente nel dibattito sinodale.
Se questi vogliono che il tema vero del Sinodo sia altro, distinto dalla famiglia, credo sarebbe molto positivo che fosse chiara la loro posizione, e che fosse qualcosa che si discutesse prima. Altrimenti i dibattiti posteriori possono essere di nuovo manipolati già che, senza tal presupposto, parlano linguaggi differenti.
Questa opzione ideologica, come possiamo intuire dal modo in cui si esprime Spadaro, si riflette soprattutto nella redazione del primo documento. Così lo scrittore gesuita descrive con accenti d’ammirazione la relazione: “Leggendola, molti hanno avuto l’impressione che davvero il Sinodo abbia guardato in faccia la realtà, nominandola, anche negli aspetti più problematici. Si è accolta dunque l’esistenza concreta delle persone, più che parlare in astratto della famiglia come dovrebbe essere”. La ragione di ciò si deve secondo l’autore al fatto che non si è potuto parlare dei problemi esistenti nella società, invece di rimanere sull’ideale del matrimonio. Questo è sì necessario, ma è sufficiente affinché si parli concretamente di questi problemi? Un tale realismo lo espone dicendo: come “linguaggio più fresco” e adatto ai tempi. Ma a chi si dirige questo linguaggio? Alla famiglia reale o alla ideologia sociologica? E’ ciò che dobbiamo vedere in concreto.
Credo che chi ha scritto il primo testo sinodale (quello novatore poi emendato) non abbia valutato adeguatamente le conseguenze di questo passo. La famiglia vista da una posizione ideologica rimane non protetta e si apre il cammino volto a peggiorare radicalmente i problemi che la opprimono. Se si impone il linguaggio ideologico ambientale del nostro tempo, si turba lo sguardo reale verso le persone. Se si dialoga, ma con le ideologie, a pagare sono le persone concrete.
Faccio due esempi che mi sembrano molto chiari e rispondono alle domande precedenti. Il primo è la frase che dice: “Le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana” (n. 50). E’ una chiara prova di un’affermazione ideologica. Dalla realtà pastorale, invece, si direbbe: “Tutte le persone, oltre la propria inclinazione sessuale, hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana”. E’ un’affermazione talmente limpida che smaschera il contenuto ideologico della prima. Apporta qualcosa di buono in quanto persona, precisamente, perché il fatto di avere una tendenza omosessuale non lo “identifica”, dal momento che questo stesso sarebbe un principio reale di discriminazione. Altrimenti, una comunità che non conterà sulle persone omosessuali non potrebbe essere completa, mancando di un apporto importante. Indubbiamente, chi ha scritto questo punto ignora il modo reale di accompagnare le persone omosessuali, poiché infatti si procede sempre in maniera molto diversa. Tutto comincia con l’apprezzamento come persone, per aiutarle nel loro cammino affinché siano padroni di sé e capaci di vivere la propria sessualità con libertà e autocontrollo alla luce della fede. Così non stiamo parlando a una ideologia culturale, ma di qualcosa al di fuori di essa e si sentono per tanto molto più liberi.
L’altra espressione manifestamente ideologica è quella che dice “una sensibilità nuova della pastorale odierna consiste nel cogliere la realtà positiva dei matrimoni civili e, fatte le debite differenze, delle convivenze. Occorre che nella proposta ecclesiale, pur presentando con chiarezza l’ideale, indichiamo anche elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più a tale ideale”. Da come è stata redatta, sorge subito una domanda: è giusto parlare del Vangelo come di un mero ideale? Sembra che si sia parlato di “ideali sociali” considerati sociologicamente, dove l’ideale evangelico è uno tra gli altri. Questo è l’esempio di un dialogo che punta alle ideologie sociali preoccupate dai “modelli” e dalla sua valorizzazione, non ai cuori delle persone concrete che desiderano altro. Come si può cadere in questa trappola? Vedere il positivo di una mancanza non è il cammino per aiutare a uscire da essa, la questione è aiutare a riconoscere il positivo di ciò che le persone concrete desiderano, perché lì parla Dio. Il testo riflette in verità la visione di quanti hanno lavorato poco nella pastorale familiare, dal momento che chi ha parlato realmente con queste coppie sa che la proposta chiara della verità del Vangelo le smuove, favorendo molte conversioni. Questa sì che è una “conversione pastorale”.
Sono due casi nei quali si vede che questo preteso dialogo pastorale “realista”, per trattarsi di un “caso difficile”, in verità si dirige a posizioni ideologiche che lasciano da parte il desiderio reale delle persone concrete alle quali sono state date indicazioni e che devono essere appoggiate e guidate dal realismo della grazia che rende possibile vivere il Vangelo. Sì, non possiamo mai dimenticare che “tutto è possibile per chi crede” (Mc 9,23). Questi dialoghi “ideali” e sociologici non aiutano pastoralmente e, anzi, sono fonte di nuovi problemi per la pastorale familiare. E c’è da ringraziare allora che nel documento finale questi due “esempi” siano scomparsi e che il modo di presentare il Vangelo come un “ideale” molto difficile da raggiungere, anche.
La tentazione della “mondanità spirituale” – Non è una questione secondaria quando si pone la famiglia in mezzo al gioco delle ideologie; il danno che riceve è immenso, dal momento che intacca i desideri più intimi delle persone. E’ il cuore di ognuno quello che deve essere illuminato dalla fede e dal Vangelo.
Per questo, si può dire che dirigere il dialogo pastorale con le ideologie della cultura, e non con le persone concrete, è uno degli esempi peggiori della “mondanità spirituale” sulla quale ammonisce Papa Francesco nell’esortazione Evangelii Gaudium in modo molto severo (nn. 93-97). Il primo soggetto della stessa può essere la Chiesa in quanto istituzione, alla quale dobbiamo ricordare che la tentazione, grande tentazione, potrebbe essere stata presente nelle proposte di alcuni nel Sinodo. La tentazione “è cercare, anziché la gloria del Signore, la gloria umana e il benessere” (n. 93). Sì, “Dio ci liberi da una Chiesa mondana sotto drappeggi spirituali o pastorali” (n. 97). Risulta istruttivo vedere che la fonte alla quale De Lubac attinge per descrivere questa tentazione, Dom Vonier, proponeva come esempio più chiaro la caduta in una ideologia. Dobbiamo evitare questa terribile riduzione alla mondanità che si cela in presunte motivazioni spirituali. Come indica bene Papa Francesco, si tratta di tornare alla realtà concreta delle persone bisognose, a ciò che in verità vivono e soffrono le famiglie, a ciò che può salvare la Chiesa da tale tentazione. In definitiva, che la famiglia non sia un pretesto, ma un autentico Vangelo.
FONTE: ilfoglio.it
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