sabato 5 aprile 2014

La questione del soggettivismo – di P. Giovanni Cavalcoli, OP




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Una delle questioni più gravi per la cultura odierna è la questione della verità. Molti credono che l’esprimere giudizi veraci, oggettivi ed irreformabili sia impossibile e che quindi sia un’illusione. Non possiamo superare l’apparenza soggettiva, per cui non siamo neppure tenuti a farlo. Non possiamo raggiungere un essere extramentale o una realtà extrasoggettiva, ammesso che esista.




di P. Giovanni Cavalcoli, OP

Il fenomenismo e la fenomenologia in ciò sono d’accordo. E’ impossibile nei giudizi rispecchiare fedelmente ed esattamente una realtà in sé, valida per tutti. Non possiamo essere totalmente oggettivi, imparziali e spassionati. Era già in fondo la convinzione propria del modernismo già segnalata nella Pascendi di S.Pio X.

Secondo questa visuale non esistono giudizi disinteressati o totalmente oggettivi, neppure nei resoconti di fatto, neppure le tesi della scienza, neppure le sentenze del giudice in tribunale, neppure gli insegnamenti del Magistero della Chiesa, neppure le dottrine o i racconti della Sacra Scrittura, di un S.Paolo o un S.Giovanni, ma ogni giudizio suppone un intervento o influsso del soggetto, per il quale io non mi attengo solo all’oggetto nella sua purezza, non posso essere del tutto oggettivo ed imparziale, ma in forza della natura dello stesso conoscere, interferisco con l’oggetto, ci metto o aggiungo all’oggetto qualcosa del mio, qualcosa di soggettivo, un po’ come pensava Kant, per il quale la materia dell’oggetto proviene dalla cosa in sé, ma la forma proviene dal soggetto.

Il giudizio è sempre un giudizio interessato, di parte. Il filosofo Jürgen Habermas[1] insiste in modo speciale in questa tesi. Chi crede di essere oggettivo, è un illuso. Chi si vanta di esserlo è un ipocrita presuntuoso. Non esiste un puro amore per la verità, ma in qualunque tesi, in qualunque pronunciamento c’è sempre un interesse soggettivo, magari implicito o inconfessato.

Nel pronunciarmi su qualunque cosa dovrei sempre sottintendere un “secondo me” e non posso dire sic et simpliciter “le cose stanno così”. Chiunque dice perentoriamente che le cose stanno in un certo modo, lo dice sempre perché ha un interesse, più o meno confessabile, a dire così, ma non perché sia capace di dire come effettivamente le cose stanno in se stesse.

Così similmente per Hans Georg Gadamer[2] la conoscenza si riduce ad “interpretazione”, dal che scaturisce il cosiddetto “circolo ermeneutico”, per il quale non solo l’oggetto influisce sul soggetto, ma esiste anche un influsso del soggetto sull’oggetto, sulla base della “precomprensione” (Vorverständnis), che Gadamer desume dalla gnoseologia di Heidegger, secondo una specie di andirivieni che comporta un’influenza reciproca tra soggetto ed oggetto.

Così per questi autori, anche nel maggior sforzo di obbiettività, che pur è doveroso, io inevitabilmente non mi adatto del tutto alle cose o non posso sapere come sono in sé, ma in qualche modo concorro a costituirle[3], sostengo insomma una tesi preconfezionata o apriori, perchè fa parte della mia soggettività e pertanto mi piace o mi conviene, e quindi per interessi miei o perchè miro ad un dato scopo o perchè sono mosso da un dato impulso – uno “sfizio” o un “pallino”, come si dice volgarmente – o voglio emergere ed affermarmi sugli altri o perchè voglio apparire originale o un genio o voglio sottrarmi a qualche incarico pesante o fastidioso o non voglio riconoscere le mie responsabilità o per qualunque altro motivo, magari sordido, estraneo alla tomistica adaequatio intellectus ad rem.

Nel soggettivismo non mi metto a pura disposizione dell’oggetto lasciando solo a lui la parola, ma ho bisogno di aggiungere o mescolare il mio io nella stessa costituzione ontologica dell’oggetto. Come dice Husserl, ho bisogno non di ascoltare o guardare l’oggetto così com’è, così come “si “offre” o “appare”, ma di “costituirlo” o “dargli senso”. Non “lascio essere” l’oggetto, come dice Heidegger, ma lo “pongo in essere”, come dice Fichte.

In questa visuale, chi avesse la pretesa, nel giudicare, di evitare ogni interesse personale soggettivo per elevarsi a un punto di vista superiore, universale ed assoluto, sovratemporale e sovraspaziale, sarebbe un presuntuoso, “fuori della storia”[4], vagante tra le nuvole, che dimentica le condizioni del conoscere e del giudicare umano, col risultato di imporre agli altri come universale ed oggettivo solo la sua particolare visione mutevole e relativa, indebitamente elevata ad universalità, un atteggiamento che viene riprovato e condannato come ideologico. Da qui il disprezzo per la metafisica, scienza che sommamente spazia nell’eterno e nell’universale.

In queste condizioni, per il soggettivista, non ci sarebbe verità, ma solo “ideologia”. La verità non è mai la verità di tutti o per sempre, ma sempre la mia o la nostra verità, qui ed ora, che si differenzia o addirittura contrappone alla verità degli altri, i quali hanno pari diritto ad esprimere la loro soggettiva verità, senza che io abbia il diritto di impormi su di loro come se io fossi nel vero e loro fossero nel falso. Non si dà vittoria del vero sul falso, ma solo opposizione o, come si dice, “dialettica” o “dialogo” tra opinioni opposte.

Vero e falso non sono mai assoluti, ma sono sempre relativi al singolo soggetto o ad un dato ambiente storico-culturale. Ciò che è vero per me può essere falso per te. Ciò che era falso ieri può esser vero oggi. Per questo non ti posso condannare, ma posso solo condannare ciò che per me è condannabile.

Da qui alcuni teologi, come per esempio Rahner, deducono che in base a questa nuova concezione della verità, la quale secondo Rahner scaturirebbe dalla “svolta al soggetto” operata da Cartesio per la filosofia e da Lutero per la teologia, il Magistero della Chiesa non dovrebbe più condannare una dottrina, perchè Roma esprime solo la sua visione soggettiva, ma non è in grado di capire la verità di coloro che la pensano diversamente da lei o anche contro di lei. Le vecchie condanne non valgono più. Roma si era sbagliata o comunque i tempi sono cambiati.

Una medesima proposizione, sempre secondo Rahner, può avere significati opposti a seconda di come viene interpretata, per cui è vera per chi la sostiene, anche se è falsa per chi le è contrario. Verità ed errore dunque stanno assieme senza che sia possibile fare una netta distinzione oggettivamente valida per tutti e ponendosi da un punto di vista superiore e neutrale. Questo avviene in ogni campo della ragione come in quello della fede. Gli arbitri esistono solo nelle partite di calcio, ma sono impossibili in filosofia e teologia.

Propriamente parlando, però, non è qui in gioco la questione del “punto di vista”. Infatti, inteso bene, il concetto di punto di vista non comporta nessun soggettivismo, ma rispetta l’oggettività della verità. Il punto di vista rettamente inteso non determina affatto il contenuto dell’oggetto nel suo insieme, ma semplicemente fa riferimento a un certo modo di vederlo in rapporto alle condizioni del vedente.

Se il mio punto di vista è diverso dal tuo, non vuol dire che entrambi non vediamo il vero, ma vuol dire che io ne vedo un aspetto e tu ne vedi un altro. Ma se tu ti mettessi dal mio punto di vista, vedresti la stessa cosa. La cosa in sé dunque resta sempre quella per entrambi, cambia solo il modo di vederla. Ma il modo non incide assolutamente sul contenuto. E’ per aver ridotto il contenuto (“materia”) del sapere al suo modo (“forma”) che Kant è caduto nel soggettivismo.

E’ chiaro che, per esempio, una medesima casa, vista da fuori e vista da dentro appare diversa. Non si tratta di cose diverse, ma di aspetti diversi della medesima cosa. Entrambi infatti possiamo conoscere oggettivamente la medesima casa. Se io mi metto dal punto di vista dell’altro vedo come vede lui il medesimo oggetto.

Il punto di vista non si riferisce a ciò che io vedo ma come lo vedo. Oppure posso dire che vedo due oggetti diversi non perchè si tratti di due cose diverse, ma perché vedo una medesima cosa sotto due aspetti diversi. Se mi trovo nel salotto della casa posso vedere il medesimo salotto che vedo attraverso una vetrata dall’esterno della casa.

Ma si tratta del medesimo salotto. Invece nel soggettivismo c’è la convinzione sbagliata che il mio io, la mia soggettività, il mio interesse o la mia volontà o una forma apriori esistente nel mio intelletto dia forma alla cosa stessa che vedo o che conosco. La cosa sarebbe dunque il risultato di una sintesi tra quello che è oggettivo e quello che è soggettivo. La forma o modo del sapere determina la forma dell’oggetto. Solo la materia dipende, grazie all’esperienza, dal di fuori, ossia dalla cosa in sé. Questa è la concezione di Kant.

Ma presto con Fichte nascerà una visione ancora più soggettiva, per la quale non solo la materia dell’oggetto ma l’oggetto o cosa in sé nella sua realtà o forma totale è determinata dal soggetto pensante, che la “pone” (setzt)[5], sicché l’essere dell’oggetto viene totalmente a coincidere con l’essere-pensato-da-me. Non c’è quindi una cosa in sé fuori di me, come ancora pensava Kant, ma tutto il contenuto del conoscere è in me posto da me. La cosa non è un ente fuori di me, ma è semplicemente il “non-io posto dall’io nell’io”. Tutto si risolve nell’Io.

L’atto riflessivo dello spirito, principio della coscienza, da cui nasce il concetto dell’“io”, era ben noto ai medioevali, discepoli di S.Agostino e di Platone; anch’essi distinguevano l’ex parte subiecti, il soggettivo, e l’ex parte obiecti, l’oggettivo, distinzione che corrispondeva al quoad nos e al quoad se, ossia l’oggetto per noi e l’oggetto in sé. Per esempio si diceva: Dio in sé è semplice, ma noi lo concepiamo come se fosse composto. Oppure: il sole in sé è grande, ma a noi appare piccolo.

Tuttavia il subiectum non era necessariamente la mente, la res cogitans di Cartesio, quello che la filosofia moderna chiama “soggetto”, per indicare la persona, ma era un termine generale logico-metafisico per indicare un supporto o sostegno (sub-iectum, da sub-iaceo, “sto-sotto”). Per questo non si usava in senso assoluto ma in senso relativo, come “soggetto-di”. Soggetto di una forma, soggetto di un atto, soggetto di una potenza, soggetto di una qualità, soggetto di un’azione, soggetto di un accidente, ecc.

Il soggetto è diventato un assoluto con Cartesio, per il quale la mente non è soggetto del pensare inteso come potenza o facoltà di pensare, che può anche non essere in atto[6]. Ma la mente è stata concepita come pensare o pensante in atto (res cogitans), per cui non aveva più senso distinguere un soggetto da una potenza o da un atto. Non c’è nulla “sopra” il soggetto, ma il soggetto è tutto.

Ma Cartesio non si rese conto dell’errore gravissimo che commetteva confondendo implicitamente la mente umana con quella divina, perché solo questa è un pensare sussistente, solo la mente divina, nella sua assoluta semplicità, è pensiero-soggetto, mentre la mente umana può al massimo, quando è in atto di pensare, essere pensiero di un soggetto. Dio non è soggetto di nulla ma è puro Soggetto. Ora con Cartesio appunto l’uomo diventa puro soggetto (res cogitans).

Invece bisogna dire che la mente umana non è un soggetto, ma è in un soggetto che appunto è l’uomo. La mente umana è una facoltà atta o capace di pensare, ma è mente anche se non pensa[7]. In tal modo Cartesio, seppure alla lontana, preparava il panteismo moderno di Hegel e Gentile.

Con Cartesio la ragione e il pensiero non sono più una proprietà, un accidente (per quanto essenziale) dell’anima o della mente, ma diventano addirittura sostanza stessa della mente e alla fine si identificano con l’uomo stesso o con il singolo o con l’io come spirito o autocoscienza, cosa che avverrà per conseguenza logica nell’idealismo moderno fino ad Heidegger e a Rahner. Il pensiero umano diventa un soggetto sussistente alla pari del pensiero divino.

Inoltre il soggettivo dei medievali non indica necessariamente quello che oggi chiamiamo soggettivismo, che è quel tipico chiudersi arrogante e miope dell’io in se stesso, che si pone al centro di tutto, il quale nasce con Lutero e Cartesio. Il soggettivismo è una cattiva condotta del soggetto, è il soggetto che erige se stesso, “si autotrascende” al rango di Assoluto, come vedremo appunto nel “Soggetto assoluto” di Fichte e di Schelling. E’ una falsa teoria del soggetto nell’attività conoscitiva e di conseguenza nella condotta morale.

Il subiectivum nel conoscere, secondo la gnoseologia scolastica, è semplicemente la normale parte che il soggetto ovvero la mente ha nel costruire o formare l’atto del conoscere o nel determinarne il modo. Questa soggettività ben regolata non nuoce affatto all’oggettività, ossia alla verità della conoscenza, ma ne è precisamente la condizione di possibilità.

Si tratta dell’operazione astrattiva, conseguente all’esperienza sensibile, della concettualizzazione e del giudizio. L’importante è che la mente non abbia la pretesa di aggiungere nulla di suo al contenuto del conoscere o non sia così scettica dal credere di non poter rappresentare l’oggetto o la cosa così com’è. Questa convinzione, invece, che si trova già negli Antichi – pensiamo agli scettici, ai sofisti e agli accademici – aumenterà enormemente nella filosofia moderna per il fatto che con Lutero e Cartesio i gnoseologi, vedi per esempio anche Berkeley e gli empiristi inglesi dei secc.XVII-XVIII, tendono a ridurre il contenuto reale ed oggettivo del conoscere alla rappresentazione soggettiva (senso o intelletto), elaborata dal soggetto. Da qui nasce il soggettivismo come difetto nel senso moderno. Lo stesso fenomeno del nominalismo medioevale è già una manifestazione di soggettivismo.

Ad ogni modo, non c’è dubbio che è caratteristica dell’età moderna, e ciò non è privo di meriti, a cominciare da Lutero e Cartesio, il porre in primo piano la questione della coscienza soggettiva o, come si dirà poi, del “soggetto”. Mentre l’oggetto appare sempre meno l’obiectum dei medioevali, che poteva essere anche un ente spirituale, sempre più quello che sarà il moderno “oggetto”, si configura come la cosa materiale esterna. Si comincia a dire: la persona è un “soggetto”, non è una cosa, non è un “oggetto”.

L’oggettività, a partire da Kant, non è più tutta la verità, ma riguarda solo i fenomeni sensibili, e non dipende dalla cosa in sé, ma è costruita dall’intelletto, ossia, come si dirà più tardi, dal soggetto. La verità della persona o del singolo è chiamata “soggettività”, sopratutto a partire da Kierkegaard. Essere “oggettivi” non è più sinonimo di essere nel vero, ma significa solo fare attenzione ai fatti materiali, riguardo alla scienza dei fenomeni. L’io soggettivo, soprattutto col romanticismo, come espressione del sentimento, diventa un pregio, una qualità dello spirito, soprattutto del poeta, ma anche del filosofo, è la verità. Ma qui comincia l’equivoco del soggettivismo che ci trasciniamo come palla al piede ancora oggi.

Da qui un rovesciamento dei valori. Se nel medioevo il soggettivo doveva essere ordinato all’oggettivo, la potentia all’obiectum come fine, ossia l’intelletto all’essere, e la volontà al bene, così come alla fine la creatura è ordinata al Creatore, con la modernità il primato va al soggettivo, che sarebbe bensì la persona o lo spirito o la coscienza, rispetto all’oggettivo, che si limita alla natura esterna sensibile e al mondo circostante.

Senonchè però questo “soggettivo” non è altro che il cogito cartesiano ossia in fondo l’uomo, il quale da allora comincia un cammino di espulsione dell’oggettivo, ossia del reale, sicché al termine Dio stesso come causa del reale viene espulso dall’orizzonte del pensiero e l’uomo diventa Soggetto assoluto al posto di Dio.

Così quel Dio che per il medioevale è un obiectum, ossia oggetto dell’intelletto ed esiste oggettivamente ossia realmente, per i moderni è assurdo – e si comprende – concepire Dio, puro Spirito come un “oggetto”, che per loro, dopo Kant, è solo cosa materiale, natura fisica e fenomeno. E’, se vogliamo, una questione di linguaggio, ma non è solo questo: l’uomo, l’io, la coscienza tendono dopo Cartesio a gonfiarsi e ad avanzare la pretesa di essere padroni dell’essere, sino a che non si giungerà al panteismo e all’ateismo del sec.XIX, dei quali non ci siamo ancora liberati. Molti non si rendono conto di quanto con ciò siamo andati fuori strada e credono che si tratti del volto della modernità.

Viene così in piena luce la distinzione fra la coscienza oggettiva e la coscienza soggettiva, anche se in fondo tale distinzione la troviamo già nelle parole del Signore, quando da una parte dice che chi non è con Lui è contro di Lui (coscienza oggettiva), ma chi non è contro di Lui è per Lui (coscienza soggettiva). La prima è la coscienza in quanto orientata alla norma morale oggettiva, dalla quale ricava la sua infallibilità; invece la seconda è la coscienza in quanto soggetto fallibile in buona fede o per ignoranza invincibile. Ne parla anche S.Tommaso[8], il quale insegna che anche la coscienza errante in buona fede obbliga, sicché se uno non la segue, pecca, mentre, se la segue è innocente, anche se essa è obbiettivamente errata. Sta qui il principio della libertà di religione.

Non si possono negare i progressi della psicologia dal medioevo a questa parte. Non si può negare neppure la conquista moderna della libertà di coscienza, insegnamento del resto già implicitamente contenuto nel Vangelo. Ma per l’affermazione di questi valori e quindi per una sana modernità non c’è bisogno del soggettivismo dei Lutero, dei Cartesio, dei Kant, dei Fichte, degli Schelling e degli Hegel, oggi riproposto da Rahner.

Dobbiamo invece tornare sui nostri passi, dopo i magni passus extra viam, e ritrovare il punto a partire dal quale abbiamo cominciato ad andare fuori strada illudendoci di trovare la verità: questo punto, come la Chiesa ci dice da sette secoli, sono i princìpi di S.Tommaso d’Aquino. E’ per questo che la Chiesa da allora sino ad oggi, compreso il Concilio Vaticano II, non ha cessato di riproporre l’esempio dell’Aquinate, non perché da allora il pensiero non sia avanzato; è avanzato, ma ha bisogno di essere radicato in quei princìpi, perché da essi derivano logicamente, anche se di fatto quei progressi sono stati elaborati da una cultura non tomista o che addirittura si opponeva alla dottrina di S.Tommaso.




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[1] Cf Conoscenza e interesse [1968], Laterza, Bari, 1970
[2] Cf Verità e metodo 2, tr. it di R. Dottori, Bompiani, Milano 1996.
[3] Da notare che già Fichte non nega l’esistenza della cosa in sé, solo che per lui è costituita dall’azione dell’io.
[4] Vedi per esempio l’impostazione di Walter Kasper.
[5] Questa è la cosiddetta “tesi” dalla quale partirà la dialettica hegeliana con la “antitesi” e la “sintesi”.
[6] Per esempio l’embrione o il dormiente o il demente hanno la facoltà di pensare, ma non la esercitano.
[7] Gli embrioni hanno la mente, sono esseri umani, benchè non pensino.
[8] Summa Theologiae, I-II, q.19, aa.5-6.




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