La proibizione ai laici di toccare il calice e tutti gli arredi sacri fu imposta da San Sisto I Papa (? – 125 ca.), del quale, per entrambi i calendari liturgici, vecchio e nuovo, la festa cade il 3 aprile. Benché il suo nome riconduca al numero sei, in realtà egli fu il settimo erede di San Pietro. Figlio di pastori romani, divenne sacerdote e fu eletto con i voti del clero nel 115.
L’esigenza di quella proibizione nacque, come sempre accade, dalla volontà di alcuni di avvicinarsi alla cose sacre seppure indegni, agendo in un ambito esclusivo dei ministri di Dio. Perciò questa sacra tradizione si è perpetrata nel tempo. Tuttavia, sia la rivoluzione operata dai novatori con la riforma liturgica seguita al Concilio Vaticano II, sia gli aggravanti abusi liturgici ad essa succeduti hanno fatto sì che i laici non solo entrino nel recinto sacro dell’altare, il presbiterio (da presbitero = sacerdote), riservato al clero officiante, ma sono spesso autorizzati a comunicare i fedeli, i quali loro stessi prendono fra le mani le sacre particole.
In quel tempo governava l’Imperatore Adriano (76-138), un originale sovrano-filosofo, amante della cultura e dell’arte greca. Benché pagano, egli fu contrario alle persecuzioni. Scrisse, infatti, ad un suo proconsole in Africa: «Se uno fa delle accuse dimostrando che i cristiani sono rei di delitti contro le leggi, tu puniscili secondo il loro delitto; ma, per Ercole! Se qualcuno mette avanti, per punirli, un semplice pretesto, tu devi decidere secondo la gravità e punire costui».
Papa Sisto fu soprattutto attento allo sviluppo del culto: lo precisò in regole e norme che resteranno come sigillo nella tradizione liturgica cristiana. Inoltre gli stava molto a cuore che tutte le comunità cristiane comunicassero fra di loro e pare che già sotto il suo Pontificato abbiano preso avvio le prime diatribe fra Oriente ed Occidente circa la data della celebrazione della Santa Pasqua.
A Sisto I viene fatta risalire anche l’introduzione del triplice cantico «Sanctus», chiamato Trisagio, posto dopo l’introduzione del prefazio. Il termine Trisagio deriva da agios (santo) e da treis (tre): «Dio tre volte santo». Nell’Antico Testamento esso costituiva una definizione della Santissima Trinità, perché è come si dicesse: «Santo è Dio Padre, Santo è Dio Figlio, Santo è Dio Spirito Santo», ma per conoscere questo bisognava sapere leggere, avere dimestichezza delle Scritture, perciò essere dotti. Fu così che il Sommo Pontefice lo fece sapere a tutti i fedeli introducendolo nella Santa Messa subito prima della consacrazione e della transustanziazione.
Tutte le Chiese, a qualunque liturgia appartengano, qualunque rito seguano, hanno questo Trisagio che è il cantico angelico che Isaia udì quando ebbe la visione celeste e, dopo di lui, San Giovanni, come l’Apostolo stesso racconta nell’Apocalisse (4,8). Afferma Dom Prosper Guéranger (1805-1875), il grande abate benedettino di Solesmes: «Che dicono dunque gli Angeli? Sanctus, Sanctus, Sactus Dominus Deus Sabaoth. Celebrano la Santità di Dio. Ma come la celebrano? Nella maniera più perfetta: adoperano il superlativo, dicendo per tre volte di seguito che Dio è veramente santo. (…) Perché applichiamo a Dio la triplice affermazione della santità? Perché la santità è la principale delle perfezioni divine: Dio è santo per essenza» (P. Guéranger, La Santa Messa, De Vita contemplativa-Francescane dell’Immacolata, Città di Castello 2008, p. 103).
Il Trisagio lo ritroviamo nel Te Deum: «Tibi Cherubim et Seraphim incessabili voce proclamant: Sanctus, Sanctus, Sanctus Dominus Deus Sabaoth» («Santo, Santo, Santo il Signore Dio degli eserciti»): gli eserciti che stanno agli ordini dell’Onnipotente nulla hanno da temere in quanto tutte le guerre, tutte le prove e tutti gli ostacoli potranno essere vinti trionfalmente grazie al loro Dio. Spiega ancora l’Abate Guéranger: «Dunque, Dio è santo e forte, tanto forte quanto santo e tanto santo quanto forte» (Ivi, p. 104).
Questo Romano Pontefice, che cantò e fece cantare fino a noi e ai nostri posteri la santità di Dio nel Santo Sacrificio, non morì martire e il suo riposo, nell’attesa della Resurrezione, non è presso la tomba di San Pietro, bensì ad Alatri (Frosinone), nella cattedrale di San Paolo, dove lo si celebra patrono della città.
© CORRISPONDENZA ROMANA 27/03/2014
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