Il Papa, in quanto supremo pastore della Chiesa universale, ha il pieno diritto di rimuovere dalla sua carica un vescovo o un cardinale, anche insigne. Celebre fu il caso del cardinale Louis Billot (1846-1931), uno dei maggiori teologi del Novecento, che il 13 settembre 1927 rimise il berretto cardinalizio nelle mani di Pio XI, con il quale era entrato in contrasto sul caso dell’Action Française, e finì la sua vita, quale semplice gesuita, nella casa del suo ordine a Galloro. Un altro caso eclatante è quello del cardinale Josef Mindszenty, che fu rimosso da Paolo VI dalla carica di arcivescovo di Esztergom e Primate di Ungheria, per la sua opposizione alla ostpolitk vaticana. Molti vescovi inoltre, negli ultimi anni, sono stati destituiti per essere stati coinvolti in scandali finanziari o morali. Ma se nessuno può negare al Sovrano Pontefice il diritto di dimettere qualsiasi prelato, per le ragioni che ritenga più opportune, nessuno può togliere ai fedeli il diritto che essi hanno, come esseri razionali, prima ancora che come battezzati, di interrogarsi sulle ragioni di queste destituzioni, soprattutto se esse non siano esplicitamente dichiarate. Questo spiega lo sgomento di molti cattolici di fronte alla notizia, formalmente comunicata dalla Sala Stampa vaticana l’8 novembre, del trasferimento del cardinale Raymond Leo Burke dalla sua carica di prefetto della Suprema Segnatura Apostolica a Patrono dell’Ordine di Malta. Quando infatti, come in questo caso, lo spostamento concerne un cardinale ancora relativamente giovane (66 anni) e avviene da una posto della massima importanza ad un altro puramente onorifico, senza neppure rispettare il pur discutibile principio promoveatur ut amoveatur, ci si trova evidentemente di fronte ad una punizione pubblica. Ma in questo caso è lecito chiedersi quali sono le accuse mosse contro il prelato in questione. Il cardinale Burke, infatti, ha svolto in modo encomiabile il ruolo di Prefetto della Suprema Segnatura Apostolica ed è stimato da tutti come un eminente canonista e un uomo di profonda vita interiore, ed è stato recentemente definito da Benedetto XVI come «un grande cardinale». Di cosa è colpevole? Gli osservatori vaticani delle più diverse tendenze hanno risposto a questa domanda con chiarezza. Il cardinale Burke sarebbe reo di essere «troppo conservatore» e in disaccordo con Papa Francesco. Dopo la sciagurata relazione del cardinale Kasper al Concistoro straordinario del 20 febbraio 2014, il cardinale americano ha promosso la pubblicazione di un libro in cui cinque autorevoli porporati e altri studiosi esprimono le loro rispettose riserve verso la nuova linea vaticana, aperta all’ipotesi della concessione della comunione ai divorziati risposati e al riconoscimento delle unioni di fatto. Le preoccupazioni dei cardinali sono state confermate dal Sinodo di ottobre, in cui le tesi più arrischiate, sul piano dell’ortodossia, sono state addirittura raccolte nella sintesi dei lavori che ha preceduto la relazione finale. L’unica ragione plausibile è che il Papa abbia offerto su di un piatto la testa del card. Burke al cardinale Kasper e, per lui, al cardinale Karl Lehmann, ex presidente della Conferenza episcopale tedesca. È noto a tutti, infatti, almeno in Germania, che chi ancora tira le fila del dissenso tedesco contro Roma è proprio Lehmann, antico discepolo di Karl Rahner. Il padre Ralph Wiltgen, nel suo libro Il Reno si getta nel Tevere, ha messo in luce il ruolo di Rahner nel Concilio Vaticano II, a partire dal momento in cui le conferenze episcopali svolsero un ruolo determinante.
Le conferenze episcopali erano dominate infatti dai loro periti teologici e poiché tra esse, la più potente era quella tedesca, decisivo fu il ruolo del suo principale teologo, il gesuita Karl Rahner. Padre Wiltgen lo riassume efficacemente, descrivendo la forza della lobby progressista raccolta in quella che egli chiama l’«Alleanza europea». «Poiché la posizione dei vescovi di lingua tedesca era regolarmente fatta propria dall’Alleanza europea e dato che la posizione dell’Alleanza era a sua volta generalmente adottata dal Concilio, bastava che un solo teologo facesse adottare le proprie idee dai vescovi di lingua tedesca perché il Concilio le facesse sue. Questo teologo esisteva: era il padre Karl Rahner della Compagnia di Gesù». Cinquant’anni dopo il Vaticano II, l’ombra di Rahner aleggia ancora sulla Chiesa cattolica, esprimendosi ad esempio nelle posizioni pro-omosessuali di alcuni suoi discepoli più giovani di Lehmann e Kasper, come il cardinale arcivescovo di Monaco Reinhard Marx e l’arcivescovo di Chieti Bruno Forte. Papa Francesco si è espresso contro le due tendenze del progressismo e del tradizionalismo, senza peraltro chiarire che cosa comprendano queste due etichette. Ma se a parole egli si distanzia dai due poli che oggi si affrontano nella Chiesa, nei fatti ogni comprensione è riservata al “progressismo”, mentre la scure si abbatte su quello che egli definisce “tradizionalismo”. La destituzione del card. Burke ha un significato esemplare analogo alla distruzione in atto dei Francescani dell’Immacolata. Molti osservatori hanno attribuito al cardinale Braz de Aviz il progetto di dissoluzione dell’Istituto, ma oggi è a tutti evidente che papa Francesco condivide pienamente quella decisione. Non si tratta della questione della Messa tradizionale, che né il cardinale Burke né i Francescani dell’Immacolata celebrano regolarmente, ma del loro atteggiamento di inconformità alla politica ecclesiastica oggi dominante. D’altra parte il Papa ha lungamente intrattenuto i rappresentanti dei cosiddetti “Movimenti popolari”, di orientamento ultramarxista, che si sono riuniti a Roma, dal 27 al 29 ottobre, ed ha nominato nello scorso luglio, consultore del Pontificio Consiglio per la Cultura un sacerdote apertamente eterodosso quale il padre Pablo d’Ors. C’è da chiedersi quali saranno le conseguenze di questa politica, tenendo presente due princìpi: quello filosofico dell’eterogenesi dei fini, per il quale certe azioni producono effetti contrari alle intenzioni, e quello teologico dell’azione della Provvidenza nella storia per cui, secondo le parole di san Paolo, «omnia cooperantur in bonum». (Rom. 8,28). Tutto nei disegni di Dio coopera al bene. Il caso Burke e il caso Francescani dell’Immacolata come, su un piano diverso, il caso della Fraternità San Pio X, sono solo le spie di un malessere diffuso che fa veramente apparire la Chiesa come una barca alla deriva. Ma se anche la Fraternità San Pio X non esistesse, i Francescani dell’Immacolata fossero dissolti o “rieducati” e il cardinale Burke ridotto al silenzio, la crisi della Chiesa non cesserebbe di essere grave. Il Signore ha promesso che la Barca di Pietro non affonderà mai non grazie all’abilità del timoniere, ma per la Divina assistenza alla Chiesa, che vive si può dire tra le tempeste, senza mai lasciarsi sommergere dalle onde (Mt 8, 23-27; Mc 4, 35-41; Lc 8, 22-25). I cattolici fedeli non sono scoraggiati: serrano le fila, volgono gli occhi al Magistero continuo e immutabile della Chiesa, che coincide con la Tradizione, cercano forza nei Sacramenti, continuano a pregare e ad agire, nella convinzione che nella storia della Chiesa, come nella vita degli uomini, il Signore interviene solo quando tutto sembra perduto. Ciò che ci viene chiesto non è una rassegnata inazione, ma una lotta fiduciosa nella certezza della vittoria. E nei confronti del cardinale Burke, anche in vista delle nuove prove che certamente lo attendono, ci sentiamo di ripetere le parole che il prof. Plinio Corrêa de Oliveira rivolse il 10 febbraio 1974 al cardinale Mindszenty, quando «le mani più sacre della terra scossero la colonna e la gettarono al suolo spezzata. Se l’arcivescovo è caduto perdendo la sua diocesi, la figura morale del buon pastore che dà la vita per il suo gregge è cresciuta fino alle stelle». Corrispondenza Romana 30 dic 14
Intervento del dott. Renzo Puccetti, vicepresidente Ass. Vita è, tenuto il 28/12/2014 nella parrocchia di San Biagio, diocesi di Pisa.
Cartello “PACE” ai piedi dell’altare.
La scorsa settimana sono stato colpito da un cartello posto ai piedi dell’altare in una chiesa non troppo lontana. Sul cartello era scritta la parola “PACE”. Il corpo delle lettere conteneva delle immagini: un uomo armato, lo scoppio di una bomba, un bambino affamato extracomunitario.
Nel 2014 l’agenzia ONU per i rifugiati calcola che nel Mediterraneo sono morti 3.419 migranti. Gli aborti in Italia nel 2013 sono stati 102.644, un numero pari a 30 volte i migranti morti nel mediterraneo. Dal 1978 al 2013 sono stati 5.538.322 gli aborti effettuati legalmente in Italia. Immaginate che siano scomparsi tutti gli abitanti di 6 regioni: Trentino, Umbria, Marche, Abruzzi, Molise, Basilicata.
Nel mondo ogni anno muoiono 11 milioni di persone per fame. Ma nel mondo ogni anno si effettuano anche 44 milioni di aborti, 84 al minuto, una cifra 4 volte più alta del numero spaventoso di morti per fame.
Matthew White ha scritto un libro intitolato “Il libro nero dell’umanità. La cronaca e i numeri delle cento peggiori atrocità della storia”. L’autore ha calcolato che a partire dalla seconda guerra Persiana nel 480 a.C. fino alla seconda guerra nel Congo terminata nel 2002, sono 445 milioni le persone morte a causa di tutte le guerre.
Negli ultimi 40 anni sono stati effettuati nel mondo 1.720.000.000 aborti. Gli esseri umani uccisi per aborto in 40 anni sono pertanto 4 volte più numerosi dei morti per guerra in 2482 anni di storia dell’umanità. Si muore per aborto con una frequenza 245 volte maggiore di quanto non avvenga a causa della guerra.
Il 10 dicembre 1979 veniva conferito il premio Nobel per la pace a Santa madre Teresa di Calcutta. Lo accettò dicendo queste parole: «L’aborto è il peggior male e il peggior distruttore della pace. [...] Molti si preoccupano dei bambini dell’India e dell’Africa, che muoiono di fame e malattie, ma milioni muoiono per espressa volontà delle madri. L’aborto distrugge la pace: se una madre può uccidere il proprio bambino, che cosa impedisce a me di uccidere voi e a voi di uccidere me? Niente».
Al numero 2274 del Catechismo della Chiesa Cattolica si legge: “L’embrione, poiché fin dal concepimento deve essere trattato come una persona, dovrà essere difeso nella sua integrità, curato e guarito, per quanto è possibile, come ogni altro essere umano”.
Nell’omelia della vigilia di Natale Papa Francesco ha infatti accomunato i bambini “uccisi prima di vedere la luce” ai “bambini sfollati, abusati, sfruttati sotto i nostri occhi e il nostro silenzio complice”. Ai “bambini massacrati sotto i bombardamenti anche là dove è nato Gesù”. E il suo giudizio è stato chiaro: “Ancora oggi il loro silenzio impotente grida sotto la spada di tanti Erode, sopra il loro sangue campeggia oggi l’ombra degli attuali Erode”. Tre giorni fa abbiamo celebrato il Natale. Abbiamo ricordato che non ci fu posto per Gesù nell’albergo. Pare che oggi non ci sia posto per Gesù concepito nei cartelli posti nelle chiese.
Vi esorto a rompere quel silenzio complice che ci ha rimproverato Papa Francesco. Nei nostri cartelli, nelle nostre menti, nei nostri cuori accogliamo il Dio che si è fatto carne accogliendo questi fratelli più piccoli ed inermi. Non ci sono classifiche, non ci sono morti di serie A e morti di serie B. Il perdono non può raggiungere chi non si pente, ma per pentirsi serve la consapevolezza del peccato e la consapevolezza è facile a svanire se non ci viene ricordata.
La distruzione della famiglia
Ma l’attacco all’uomo non si esaurisce a questo. In fin dei conti molti scampano alla mattanza dell’aborto. E a questi, che sorprese ha preparato il principe di questo mondo?
Ha iniziato col distruggere la prima rete di relazioni disinteressate poste a protezione dell’uomo, la famiglia. Voglio citare ancora una volta un aneddoto: un’amica avvocato ha assistito nell’aula del tribunale ad un tremendo litigio tra marito e moglie che si stavano separando. Litigavano per l’affidamento del figlio, ma vi è un piccolo particolare: nessuno dei due lo voleva. Nel 1971 si contarono 11.796 separazioni, nel 2012 sono state 88.288.
Nel 1964 vi furono 417.486 matrimoni, nel 2013 sono stati 145.571. Ovviamente tutto questo è stato ed è ancora oggi presentato come l’accoglienza nei costumi e nelle leggi dell’aspirazione alla libertà dell’uomo. Ma attenzione, non è forse vero che dentro di noi non c’è solo bene, non siamo angeli, ma alberga anche un’attrazione per ciò che sappiamo essere male e che pur tuttavia desideriamo? Non c’è in noi quella concupiscenza descritta da San Paolo nella lettera ai Romani: “non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio”? Che cosa ci proteggeva dal compiere quel male e trasformarci così in dei malvagi? La fede in Dio, sì, ma l’hanno tolta dicendo che Dio non esiste, che siamo figli del caso e della necessità. La legge morale naturale; ma anche questa è stata tolta, dicendo che non esiste una natura umana, perché l’uomo è un prodotto della cultura. La legge civile e penale. Ma neppure di questo muro è rimasto in piedi un mattone.
Allora che cosa muoverà l’uomo se non i propri desideri e le proprie passioni e pulsioni? Se non è più necessario che l’uomo e la donna assumano un impegno irrevocabile l’un con l’altra, se questa capacità diventerà così sconveniente e desueta da scomparire per atrofia da mancato uso, come gli uomini e le donne diventeranno capaci di prendersi impegni di questo genere con i figli, con i genitori, con la comunità?
Il sociologo Zygmut Bauman lo chiama “amore liquido” ed è una delle tante espressioni della società liquida, senza forma, o meglio, con una forma data dal contenitore, cioè da chi può orientare il pensiero e le preferenze.
L’ideologia “gender” (genere)
Per avere dominio incontrastato il pifferaio magico ha bisogno di esseri dipendenti da ciò che lui può dargli o negargli. Fai assaggiare la droga ad un giovane, ne proverà prima il piacere, poi, un po’ alla volta, ne diventerà dipendente, comincerà a stare male se non può averla, ne avrà bisogno, fino a che farà qualsiasi cosa per avere la sua dose. Ed infatti vedete quanta lena per legalizzarla. Ovviamente con quella patina di presentabilità che va sotto il nome di riduzione del danno. Ma c’è un’altra droga che hanno iniziato a mettere in giro. Si chiama sessualizzazione precoce. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato un documento ufficiale intitolato “standard per l’educazione sessuale in Europa”. A pagina 38, vi sono le direttive per i bambini da 0 a 4 anni; si dice che si devono dare informazioni ai bambini di questa età sul piacere derivante dalla masturbazione e competenze sulla loro identità di genere. Genere si riferisce per l’OMS a “ruoli, comportamenti, attività e attributi costruiti socialmente”. Cioè si devono educare i bambini da 0 a 4 anni che un maschio può essere femmineo e una femmina mascolina. In Svizzera sono già entrate in vigore per gli asili e le elementari le sex boxes, scatole del sesso, dove i bambini possono maneggiare genitali maschili e femminili riprodotti in peluche. In Germania il signor Mertens l’8 agosto 2013 è stato messo in galera. La stessa cosa toccherà alla moglie, per ora risparmiata perché allatta il figlio più piccolo. Cos’hanno fatto di così grave i Mertens? Si sono rifiutati di mandare a lezione di educazione sessuale la figlia in cui non solo si mostra ai bambini come funziona il sesso dei maschi e delle femmine, ma li si mette davanti a tutta la “varietà” delle pratiche sessuali. Si dice anche ai bambini, fin dalle elementari, che il loro genere non è determinato e che non possono sapere se sono maschietti o femminucce, che devono pensarci su.
In America l’avvocato William Baer è stato arrestato perché in una riunione con gli insegnanti della figlia adolescente dove protestava per questo genere di lezioni, ha violato la regola dei due minuti di tempo assegnati a ciascun genitore. In Italia è stato bloccato in extremis, grazie alla denuncia dei Giuristi della vita il cui presidente sarà a Pisa nel mese di febbraio per una conferenza, il tentativo di inondare di questi contenuti le scuole italiane attraverso dei libretti distribuiti dall’UNAR, l’Ufficio Nazionale anti Discriminazioni Razziali, che, con la scusa della lotta al bullismo, intendeva promuovere l’ideologia gender nelle scuole di ogni ordine e grado. Ma non si pensi che con questo successo si sia riusciti a fermare lo tsunami che si sta per abbattere sui nostri figli. Il sindaco di Roma, in una cerimonia pubblica altamente simbolica, ha trascritto i nomi di persone dello stesso sesso nel registro dei matrimoni. Il prefetto di Roma ha prima intimato di cancellarli, poi ha agito d’autorità. Molti sindaci hanno imitato il collega romano ed il tentativo è evidente: avere il fatto compiuto per spingere il parlamento a varare il matrimonio omosessuale. Non lo si chiamerà all’inizio così, come è avvenuto in Inghilterra, ma sarà solo temporaneo. Dopo un po’ arriverà tutto, compresa l’adozione da parte di coppie omosessuali e la manifattura dei figli con la fecondazione eterologa, già sdoganata dalla nostra Corte Costituzionale.
Già approvata alla Camera, giace in commissione giustizia al Senato la legge contro l’omofobia, la cosiddetta legge Scalfarotto, dal nome del politico che l’ha progettata. Così come essa è congeniata, dire che i bambini devono avere un papà e una mamma potrà essere considerata un’affermazione omofoba, e come tale essere perseguita legalmente con una pena che può arrivare fino a sei anni di reclusione.
Sul cartello posto ai piedi dell’altare, della pace violata ferendo l’innocenza dei bambini, negando il loro diritto di avere un papà ed una mamma non c’era neppure l’ombra.
Nessuno in chiesa porta un bazooka, nessuno fa lo scafista, nessuno possiede una Rolls Royce, nessuno vive nei paesi in guerra, nessuno è direttamente chiamato in causa da un cartello come quello che ho visto; a ben vedere quel cartello è comodo, perché non interpella la nostra responsabilità. Ma tutti siamo uomini e donne, padri e madri, fratelli, zii, amici, padrini e madrine. Tutti siamo chiamati difendere la vita, la famiglia e l’educazione dei bambini e facendo così difendere la pace.
Termino con una citazione: “La cosa più saggia del mondo è gridare prima del danno. Gridare dopo che il danno è avvenuto non serve a nulla, specie se il danno è una ferita mortale”. (Gilbert Keith Chesterton) Il male non è un fumo, pensa, parla e agisce attraverso uomini. Vegliamo come i pastori di Betlemme affinché il ladro nella notte non ci rubi il tesoro di verità, bontà e bellezza che ci è stato tramandato attraverso la fede dei nostri padri.
Editoriale "Radicati nella fede" - Anno VIII n° 1 - Gennaio 2015
Finalmente è arrivata. È arrivata come dono natalizio quasi inatteso, tanto la si è aspettata. È arrivata come benefico dono per chi ne vuole approfittare. Che cosa è arrivata, direte voi? ma l'edizione in lingua italiana de “La Riforma Liturgica Anglicana” di Michael Davies!
In questi anni ne abbiamo dato ampi stralci su questo bollettino e sul nostro blog, ma mancava la pubblicazione completa della traduzione italiana. Ora, grazie a Dio, c'è.
Questo primo editoriale dell'anno vuole essere semplicemente un sentito invito, perché molti prendano in mano questa bella opera e si immergano nella sua lettura. Lo facciamo con calda decisione, perché per noi fu fondamentale l'incontro con le pagine di Davies. Non possiamo dire che costituirono l'unica motivazione del nostro passaggio al rito antico, ma certamente contribuirono a rischiararne definitivamente le ragioni.
Sì, perché di ragione si tratta. Nel Cattolicesimo ci si muove per delle ragioni, si decide, si sceglie e si opera in un senso o in un altro per delle ragioni, che l'intelligenza illuminata dalla Grazia riconosce. Non è il sentimento o il gusto personale che determinano l'agire, ma la ragione. Ecco perché nella Chiesa non si sacrifica mai la Dottrina. Non c'è divario tra Dottrina e Santità, tra Dottrina e Carità, tra Dottrina e Preghiera, tra Dottrina e Fede! Il neo- modernismo popolare di oggi, di bassissimo livello, ha introdotto di fatto questo divario, per cui molti dicono che importante è vivere bene; non importa come e cosa credi, non è importante la dottrina. C'è, nel vissuto della Chiesa di oggi, una disistima della Dottrina, a favore del fare esperienza di fede: ma come si può fare esperienza vera di Dio se, disistimando la Dottrina, ci si riduce a vivere “cose religiose” disancorate dalla Rivelazione di Dio?
Perdonate la digressione, ma è solo per ribadire che nel testo di Davies vi sono offerte, in modo chiaro e sintetico, le ragioni per compiere passi decisivi verso la Tradizione. Lo diciamo ancora una volta, dopo averlo ripetutamente scritto su queste pagine: l'abbandono della retta fede, l'abbandono dell'unità cattolica, la perdita del sacerdozio e dei sacramenti, non sempre avviene in modo immediato ed esplicito, può avvenire subdolamente e gradatamente, a causa di graduali riforme del rito della Messa e degli altri sacramenti; e queste graduali e subdole riforme non dichiareranno mai qualcosa di esplicitamente eretico, ma taceranno sempre più aspetti fondamentali del dogma cattolico. E cosa capiterà ai cristiani, che per amore di tranquillità non rifiuteranno in modo chiaro questo processo di decadenza? Capiterà una graduale trasformazione della loro fede, così graduale da non avvedersene. Non se ne accorgeranno! Sicuri della loro volontà di restare cattolici, ma non mossi dalle ragioni, cioè non vigilando intellettualmente, con la ragione, sulla Dottrina, non si accorgeranno nel tempo di essersi trasformati, fino a diventare un'ombra di quello che erano. Prima erano semplicemente cattolici, poi diventeranno vagamente religiosi, regredendo fino ad una religione naturale, al naturalismo; sperando che non perdano del tutto la fede in Dio.
Se non ci sono le ragioni, questo e altro può capitare!
Fu il caso dell'Inghilterra dopo lo scisma, lo sapete bene... e se non lo sapete ancora, leggete Davies. Fu il caso dell'Inghilterra, ma sarà solo il suo caso? Questo lo si deve capire con la ragione fortificata dalla grazia.
Per questo vi invitiamo a leggere “La Riforma Liturgica Anglicana”. Ma, leggendo, cerchiamo di cogliere la logica di questo grande lavoro di Davies. Non cerchiamo solo qualche notizia che solletichi la nostra passione per la Tradizione o il nostro scandalo per le innovazioni.
No, cerchiamo la logica che guida questa illuminante indagine: la Dottrina comanda nella Fede. Non si può sperare di restare cattolici, di permanere nella grazia, senza mantenere la retta Dottrina. Per questo la Chiesa con il suo Magistero, nei secoli, ha difeso e diffuso la retta Dottrina; per questo ha fatto i catechismi; per questo ha tanto lavorato perché il popolo non rimanesse nell'ignoranza, ma conoscesse la Rivelazione di Dio. Ma, ancora prima, per questo, rivelandosi, Dio ha parlato alla ragione degli uomini!
La Dottrina prevale sempre, non è mai sostituibile, non è barattabile con altro, neanche con ciò che sembra santo e spirituale, ma che, se non è dottrinalmente sano, santo non è in verità. Non ci può essere preghiera gradita a Dio che non rispetti la Dottrina cattolica, che scaturisce dalla Rivelazione di Dio. Non ci può essere nessuna azione santa, gradita a Dio, nessuna opera santa nella Chiesa, che taccia o ometta qualche aspetto della Dottrina cattolica! E questo è vero anche nell'azione per eccellenza, nell'opera per eccellenza, che è la Santa Messa.
Questo è vero per tutti.
Per quelli che si modernizzano facilmente, sempre preoccupati di non restare indietro con i tempi, per i cattolici che amano il moderno, per intenderci.
Ma è vero, verissimo, anche per i conservatori, che brontolano sulle novità che li turbano, ma che, non andando a cercare le ragioni del loro turbamento, non facendo un lavoro serio sulla Dottrina, restano deboli. E siccome non si può vivere tutta la vita brontolando, presto o tardi si adattano alle riforme ambigue, illudendo se stessi che non cambieranno mai la loro fede. E mentre si illudono, si sono già adattati a molte ambiguità.
Allora, buona lettura dell'opera di Davies; buon lavoro per scoprire le ragioni dell'amore alla Tradizione.
E ricordiamo sempre che la Dottrina non è mai barattabile.
Queste pratiche non sono esplicitamente proibite nel Messale, ma non corrispondono nemmeno a una sana liturgia
Padre Henry Vargas Holguín
La pratica di prendersi per mano al momento di recitare il Padre Nostro deriva dal mondo protestante. Il motivo è che i protestanti, non avendo la Presenza Reale di Cristo, ovvero non avendo una comunione reale e valida che li unisca tra loro e con Dio, considerano il gesto di prendersi per mano un momento di comunione nella preghiera comunitaria.
Noi nella Messa abbiamo due momenti importanti: la Consacrazione e la Comunione. È lì – nella Messa – che risiede la nostra unità, è lì che ci uniamo a Cristo e in Cristo mediante il sacerdozio comune dei fedeli; il prendersi per mano è ovviamente una distrazione da questo. Noi cattolici ci uniamo nella Comunione, non quando ci prendiamo per mano.
Nell'Istruzione Generale del Messale Romano non c'è nulla che indichi che la pratica di prendersi per mano vada effettuata. Nella Messa ogni gesto è regolato dalla Chiesa e dalle sue rubriche.
È per questo che abbiamo parti particolari della Messa in cui inginocchiamo, parti in cui ci alziamo, altre in cui ci sediamo ecc., e non c'è alcuna menzione nelle rubriche che parli del fatto che dobbiamo prenderci mano al momento di recitare il Padre Nostro.
Si deve quindi evitare questa pratica durante la celebrazione della Messa. Se qualcuno vuole farlo può (a mo' di eccezione) con qualcuno di assoluta fiducia, senza forzare nessuno, senza dar fastidio a nessuno e senza volere che questa pratica diventi una norma liturgica per tutti.
Bisogna tener conto del fatto che non tutti vogliono prendere la mano del vicino, e cercare di imporlo è qualcosa che va a detrimento della preghiera, della pietà e del raccoglimento.
Un'altra cosa molto diversa è la preghiera comunitaria al di fuori della Messa; quando si recita fuori dalla Messa non c'è alcuna opposizione se si prende la mano di qualcuno, perché è un gesto emotivo e simbolico.
Questo, come altri atteggiamenti, non è altro che l'esaltazione del sentimento. L'essere in comunione con qualcuno non consiste tanto nel prendere qualcuno per mano quando si recita il Padre Nostro, ma nel fatto di essere confessato, di essere in stato di grazia e soprattutto nell'essere preparato all'Eucaristia.
Se il gesto di prendersi la mano fosse necessario o importante o conveniente per tutta la Chiesa, i vescovi o le Conferenze Episcopali avrebbero inviato già da molto tempo una richiesta a Roma perché questa pratica venisse impiantata. Non lo hanno fatto, né credo che lo faranno mai.
Un'altra cosa che vedo molto quando si recita il Padre Nostro è che la gente alza le mani come fa il sacerdote. Nemmeno questo va bene, perché non spetta ai laici durante la Messa compiere gesti riservati al sacerdote o pronunciare le parole o le preghiere del sacerdote confondendo il sacerdozio comune con il sacerdozio ministeriale.
Solo i sacerdoti stendono le mani, e la cosa migliore è che i fedeli restino o preghino con le mani giunte perché la fede interiore è ciò che conta, è quello che Dio vede.
I gesti esterni nella Santa Messa da parte dei sacerdoti servono a far sì che i fedeli – in primo luogo – vedano che il sacerdote è l'uomo designato che intercede per loro.
Stendere le braccia nella preghiera era già abituale nella Chiesa delle origini, ma nel contesto di un circolo di preghiera, o nella preghiera in privato o in un altro incontro non liturgico.
I gesti nella Messa sono precisi sia nel sacerdote che per i fedeli; ciascuno fa i propri e i fedeli non devono copiare quelli dei sacerdoti. I gesti dei fedeli nella Messa sono le loro risposte, il loro canto, le loro posizioni.
Sia prendere la mano di qualcuno che alzare le mani recitando il Padre Nostro sono, nei fedeli, pratiche non liturgiche, che pur non essendo esplicitamente proibite nel Messale non corrispondono nemmeno a una sana liturgia.
I fedeli non devono ripetere né con parole né con azioni ciò che dice e fa il sacerdote la cui funzione è presiedere l'assemblea liturgica.
[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]
Ma se proprio vuoi una regola, ecco cosa ti posso dire: sii saldo nella fede, non per timore dei peccati, ma perché è molto piacevole per un uomo intelligente vivere con Dio [Vladimir Sergeevič Solov’ëv, I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo]
Durante la sua seconda visita apostolica in Germaia, San Giovanni Paolo II disse nel lontano 1984: «… oggi il mondo sta vivendo il XII capitolo del Libro dell’Apocalisse dell’Apostolo Giovanni». Affermazione che dovrebbe indurci ad un preciso quesito: se il Santo Pontefice si esprimeva trent’anni fa a questo modo, oggi, in quali termini si esprimerebbe? Come però i fatti dimostrano, pare che da un po’ di tempo a questa parte gli Augusti Pontefici è più facile proclamarli santi e beati anziché ascoltarli e seguirli, venerando in essi e nel loro sommo magistero il mistero ed il dogma di fede del mandato conferito dal Verbo di Dio a Pietro [cf. Mt 16, 14-18]. È infatti noto e risaputo: fare una bella cerimonia di canonizzazione in fondo non costa niente. Come non costa mettere in piedi fondazioni dedicate a San Giovanni XXIII, a San Giovanni Paolo II, al Beato Paolo VI. Qualche banca con un consiglio di amministrazione composto da massoni sempre lieti di foraggiare a botte di soldi la spocchia incontenibile di qualche vescovo e cardinale, allo scopo di colpire e di distruggere quanto meglio possibile la Chiesa da dentro, in giro per l’Italia si trova sempre, ciò che paiono invece scarseggiare sono vescovi e cardinali che facendosi carico di tutti i pericolosi rischi del caso accettino di essere linciati dalla piazza non più disposta ad ascoltare e recepire certi messaggi evangelici. O peggio: ad essere dilaniati all’interno dello stesso mondo ecclesiale per avere invitato l’esercito sempre più fitto di modernisti e di apostati a mettere in pratica ciò che certi santi e beati pontefici esortano a praticare attraverso gli atti del loro magistero, scritto per la gloria di Dio e per la salvezza dell’uomo, non per la gloria dell’uomo, che di secolo in secolo è capace di usare come pretesto Dio, la sua Chiesa e tutti i suoi Santi per la propria vanità.
Oggi che abbiamo sofisticati mezzi di comunicazione in grado di trasmettere immagini in tempo reale, il ricordo della cerimonia di beatificazione, poi quella di canonizzazione di Giovanni Paolo II, dovrebbe indurre a riflettere, perché mai s’erano visti sino a prima tutti i principali responsabili della condizione di degrado in cui oggi versa la Chiesa di Cristo immortalati dalle televisioni internazionali come stars a quello che loro stessi chiamavano «grande evento», intrisi di mondano clericalese e privi ormai di adeguati linguaggi ecclesiali. A festeggiare il nuovo beato e santo pontefice hanno così sfilato, in rosso e violaceo sulle passerelle d’onore, anche tutti coloro sui quali incombe la responsabilità d’aver gettato la Sposa di Cristo sul marciapiede come una prostituta. Gli stessi a causa dei quali il Sommo Pontefice Benedetto XVI farà atto di rinuncia al ministero petrino pochi anni dopo, dichiarando di non essere più in grado, per età e per mancanza di forze fisiche, di reggere certe situazioni, che in altre parole equivale a dire: l’incapacità di far fonte a certe persone, posto che “situazioni” — semmai a qualcuno sfuggisse — vuol dire “persone”, ossia coloro che siffatte situazioni le hanno generate e che tutt’oggi le reggono in piedi facendo uso del peggiore autoritarismo e delle peggiori vessazioni verso coloro che osano denunciare il male solo perché desiderano risollevare la propria amata sposa dal marciapiede dove questi scellerati l’hanno gettata, non certo per l’inutile piacere di denunciare il male fine a se stesso.
Alla cerimonia di beatificazione di Giovanni Paolo II, per reale paradosso legato come tale a quel mistero del male che ci insidia sin dall’alba dei tempi, in pratica s’è assistito a questo: … come se coloro che avevano assassinato il diacono Stefano a colpi di pietre [Cf. At 6, 8-12; 7, 54-60], pochi anni dopo lo avessero dichiarato protomartire, partecipando primi avanti a tutti alla sua cerimonia di beatificazione e magnificando a giornali, televisioni e ad un nugolo di vaticanisti privi di memoria storica, la eroicità delle sue virtù. E pensare che molti romantici sono convinti che le meretrici esercitano il proprio antico mestiere solo dentro i lupanare e non certo dentro i palazzi ecclesiastici. Io che però sono sacerdos in aeternum e che sono nato col peccato originale lavato dal Battesimo al quinto giorno di vita, le cose tendo a vederle in altro modo, forse con meno romanticismo e più realismo, anche per quanto riguarda l’esercizio dell’antico mestiere del meretricio, un mestiere tanto diffuso quanto trasversale …
Solov’ëv è scomparso all’alba del Novecento, secolo nel quale s’era affacciato dopo aver vissuto i travagli dell’Ottocento e profetando il futuro che si sarebbe aperto; un futuro fatto di tanti “ismi“: filosofismi, liberalismi, modernismi, comunismi, psicanalismi, sociologismi, teologismi …Egli si colloca quindi nel mondo della belle époque, in anni in cui l’uomo era certo del sorgere di un mondo felice, ispirato dalle nuove grandi spinte di un progresso tecnologico che giunge talora a vere e proprie forme di idolatria della tecnologia; una tecnologia in nome della quale spesso, il pensiero moderno, ha cercato di sfrattare l’idea stessa di Dio dalla società contemporanea. Il tutto all’ombra orientata e ispirata dalla nuova religione del progresso, del principio evangelico di carità divenuta mecenatismo svuotato di sentimenti e di sostegni metafisici, in un mondo sicuro di marciare verso una èra illuminata dalla libertà di una nuova sicurezza sociale.
Nel primo decennio del Novecento il mondo fu toccato da un episodio che scosse l’opinione pubblica: l’affondamento del Titanic inabissatosi alle ore 2.20 nella notte tra il 14 e il 15 aprile del 1912 in acque temperate attorno a zero gradi. Di 2.223 passeggeri 1.523 persero la vita morendo per assideramento. Tutti erano provvisti di salvagente ed avrebbero potuto salvarsi grazie ai soccorsi, che quando giunsero poterono solo raccogliere centinaia di corpi che galleggiavano nelle acque gelide.Questo disastro, considerato il più grande nella storia della navigazione, ha prodotto una copiosa letteratura, alla quale s’è poi unita la cinematografia.
Il Titanic fu a suo modo espressione di un uomo certo di dominare sulle leggi della natura; invincibile e sicuro di dare vita a cose indistruttibili, inattaccabili.C’è poi un forte elemento simbolico, per dirla con un celebre maestro e col suo celebre allievo divenuti poi avversari: Sigmund Freud e Carl Gustav Jung: il ghiaccio. Questo titano inaffondabile e invincibile creato da un uomo auto proclamatosi altrettanto invincibile, non è colpito dalla calda passione del sole ma dal ghiaccio, dal gelo al quale aveva iniziato a dare vita l’uomo moderno che può fare a meno di Dio. E mentre i maestri del moderno pensiero spingevano i locomotori verso barriere di ghiaccio, Solov’ëv non si lascia ammaliare e preannunzia in modo lucido e profetico i mali che sarebbero nati dalle metastasi che l’uomo stava mettendo in circolo; mali che poi, alla concreta prova dei fatti, ad uno ad uno si sono avverati.
Discorrendo nel 1880 sul Secondo discorso sopra Dostoevskij, sembra quasi che Solov’ëv intuisca le brutalità del Comunismo che dopo la Rivoluzione di Ottobre del 1917 principieranno a ripercuotersi sull’umanità, dando al mondo un assetto del tutto diverso dopo la fine della Prima Guerra Mondiale. L’uomo viene spersonalizzato nel progetto sociale e politico del Socialismo Reale, divenendo da protagonista biblico dell’umanità creata a immagine e somiglianza di Dio, anonimo ingranaggio vittima di una ideologia creata a immagine e somiglianza di un uomo socialmente e umanamente corrotto, attraverso il quale si giungerà ai noti processi di disumanizzazione portati avanti da Lenin e soprattutto da Stalin.
Nella sua ultima pubblicazione, I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo,opera compiuta la domenica di Pasqua del 1900, è impressionante rilevare la chiarezza con cui Solov’ëv prevede che il secolo XX sarà l’epoca delle ultime grandi guerre, delle discordie intestine e delle rivoluzioni [Cf. Ed. Marietti pag. 184]. Dopo di che afferma che tutto sarà pronto perché perda di significato la vecchia struttura in nazioni separate e quasi ovunque scompaiano gli ultimi resti delle istituzioni monarchiche [pag. 188]. Si arriverà così alla Unione degli Stati Uniti d’Europa [pag. 195]. È invero stupefacente la perspicacia con cui Solov’ëv descrive la grande crisi che colpirà il Cristianesimo negli ultimi decenni del Novecento, raffigurata attraverso l’Anticristo che riuscirà ad influenzare e condizionare un po’ tutti. In lui, come qui è presentato, non è difficile ravvisare l’emblema della religiosità confusa e ambigua di questi nostri anni: egli — seguita a narrare Solov’ëv — sarà un convinto spiritualista, un ammirevole filantropo, un pacifista impegnato e solerte, un vegetariano osservante, un animalista determinato e attivo. Sarà, tra l’altro, anche un esperto esegeta: la sua cultura biblica gli propizierà addirittura una laurea honoris causa della facoltà di Tubinga. Soprattutto, si dimostrerà un eccellente ecumenista, capace di dialogare con parole piene di dolcezza, saggezza ed eloquenza [pag. 211].Nei confronti di Cristo non avrà un’ostilità di principio [pag. 190]; anzi ne apprezzerà l’alto insegnamento. Ma non potrà sopportarne — e perciò la censurerà — la sua assoluta unicità [pag. 190]; e dunque non si rassegnerà ad ammettere ed a proclamare che egli sia risorto e oggi vivo.
In queste righe prende forma la critica al Cristianesimo dei “valori”, delle “aperture” e del “dialogo”, dove pare rimanga poco spazio al mistero della Persona del Verbo di Dio fatto Uomo, crocifisso per noi e risorto. Tutto appare assorbito nelle melasse sentimentali delle tenerezze vaporose. Certo abbiamo di che riflettere, se pensiamo alla militanza di fede ridotta ad un’azione umanitaria di tipo socio-culturale; al messaggio evangelico identificato nel confronto irenico con tutte le filosofie e con tutte le religioni; alla Chiesa di Dio scambiata per un’organizzazione di promozione sociale nella quale si moltiplicano “eventi” costruiti su strategie di marketing. Siamo sicuri che Solov’ëv non abbia davvero previsto ciò che è effettivamente avvenuto e che non sia proprio questa l’insidia odierna più pericolosa per la “nazione santa” redenta dal sangue di Cristo? È un interrogativo molto inquietante che proprio per questo non dovrebbe essere eluso; ed invece proprio per questo viene rifiutato, a volte anche in modo violento, dentro la Chiesa e fuori dalla Chiesa.
Solov’ëv ha compreso a fondo il XX secolo, forse siamo noi che non abbiamo capito lui, o più semplicemente non vogliamo capirlo per una chiusura reattiva-difensiva, tanto da non avergli mai prestato ascolto. Lo dimostrano molti atteggiamenti odierni di numerosi cristiani che si reputano colti ed impegnati sul versante ecclesiale, o che si reputano “cristiani adulti”. Proviamo solamente a pensare alle forme sempre più esasperate ed esasperanti di individualismo egoistico determinanti i nostri costumi e le nostre leggi attraverso le quali è progressivamente sovvertito l’ordine naturale. Basta solo analizzare quella cultura del gender che sta assumendo sempre più i connotati di una devastante dittatura, con tanto di censure ai sensi di legge e di condanne dei tribunali a carico di soggetti riconosciuti rei di avere espresso attraverso la libertà di pensiero e di parola un pacifico dissenso, considerato però non più diritto alla libertà di pensiero e di parola bensì reato, se in qualche modo tocca la potente mafia sociale e politica dei sodomiti, che già in più Stati hanno imposto protocolli attraverso i quali si insegnano i “valori” delle peggiori perversioni sessuali sin dalle scuole elementari, camuffati sotto la falsa etichetta luciferina di “diritto alle diversità”. In certi Paesi della decadente Europa ammalata d’odio verso se stessa e verso le proprie radici cristiane che progressivamente si sta consegnando all’Islam, chi afferma che quella proprinata da certe potenti mafie di pederasti e di lesbiche incattivite è una venefica cultura di morte che ci porterà al collasso, come già accaduto nel corso della storia a molte antiche civiltà sprofondate dalla gloria alla totale decadenza e per questo spazzate via, finisce ormai condannato per omofobia. Per seguire col pacifismo spesso mutato in violento pacifondismo, con la non-violenza spesso mutata in aggressione ideologica intrisa di sprezzo verso gli altri. Gli ideali di pace e di fraternità non sono più letti in chiave evangelica ma illuministica e come tali strutturati sul furore giacobino, vale a dire in chiave ideologica anti-cristiana, col conseguente risultato che dinanzi alle aggressioni ed alle peggiori prepotenze i nostri non pochi pastori smidollati finiscono subito col cedere, corrono a trattare, o come Esaù svendono la legittima primogenitura per un piatto di lenticchie [Cf. Gen 25, 29-34], lasciando senza alcuna difesa i deboli e gli oppressi, in modo del tutto particolare se sono cattolici e cristiani perseguitati a causa della loro fede, dentro la Casa di Dio e fuori dalla Casa di Dio.
In tutto questo si collocano certi potenti filoni della moderna teologia che dopo avere confuso il concetto metafisico di assoluto inteso come assolutezza della fede, col concetto socio-politico del tutto diverso di assolutismo, hanno proceduto ad una vera e propria de-costruzione e distruzione del dogma, dopo avere minato quel concetto di assolutezza della fede in virtù del quale Cristo è per noi il Verbo di Dio incarnato, morto è risorto, che come tale rappresenta il centro del nostro presente, del nostro essere e divenire futuro, quindi il fine ultimo escatologico del nostro intero umanesimo.
Cosa dire della virtù teologale della Carità, la più importante, come la definisce San Paolo [Cf. I Cor 13, 13], alla quale a poco a poco si è sostituito uno dei concetti più cari alla cultura massonica: la solidarietà? Non mi ripeto e mi limito a rimandare al mio articolo sulla neolingua in cui parlo delle parole svuotate del loro significato e riempite d’altro, il tutto sulla scia di un dramma odierno che a volte pare irreversibile: abbiamo perduto il nostro linguaggio, che è quello metafisico, per andare incontro non a “parole nuove”, ma a concetti senza senso che minano i fondamenti della nostra fede, che per esprimersi ha bisogno di chiare e precise parole [vedere qui], di un vocabolario comune che ci permetta di ricercare la perfezione nell’unità [Cf. Gv 17, 20-21.23]. Quale è invece quella concreta realtà ecclesiale che molti nostri vescovoni e cardinaloni fingono di non vedere, per evitare di dover correre quanto prima ai ripari? Narrata da chi come me vive molto da dentro la vita ecclesiale come membro del Collegio Sacerdotale, la desolante realtà è questa: se mettiamo assieme tre o quattro preti scopriremo che ciascuno di loro ha un “suo” linguaggio, una “sua” ecclesiologia, una “sua” pastorale … e tutto questo finisce spesso per tradursi in una “sua” dottrina. In una sola cosa questi preti saranno uniti da un nefasto elemento comune — ed in tal caso mi permetto di dire eccetto il sottoscritto — : nello spirito clericale, nella malitia clericorum, perché quando si mina e si distrugge lo spirito ecclesiale sorge al suo posto il peggio dello spirito clericale. Se poi prendiamo come paradigma la Diocesi delle Diocesi, quella di Roma, sede della Cattedra Episcopale di Pietro, ed andiamo in giro per le parrocchie durante la celebrazione delle Sante Messe, scegliendone per esempio dieci a caso sparse per l’Urbe, scopriremo in esse dieci preti che celebrano il Sacrificio Eucaristico in dieci modi diversi, alcuni mossi pure dall’evidente spirito del …”emo’ che m’envento pe’ stupì “? Sorvoliamo del tutto su certi gruppi neocatecumenali e carismatici che ormai hanno di fatto dei “riti” propri, inclusi riti propiziatori, sciamani e sincretistici finiti nel rituale cattolico; ma sorvoliamo allo stesso modo anche su certi cosiddetti tradizionalisti, nell’ambito dei quali il numero di coloro che “adorano” gli accidenti esterni della sacra liturgia anziché le sostanze immutabili ed eterne del Memoriale Vivo e Santo, è purtroppo molto alto. Insomma: sembra talvolta di essere in un campo aperto senza possibilità alcuna di riparo con le granate che piovono da tutte le parti.
Il Novecento, dopo una rivoluzione sessuale che ha manifestato un tripudio di egoismo, che non ha liberato affatto la donna ma l’ha resa veramente “oggetto” più di quanto storicamente e socialmente sia mai stata e che ha scisso la sessualità dall’amore umano, è infine giunto a livelli tali di perversione istituzionalizzata da rendere difficile trovare adeguati eguali storici, persino andando a prendere a prestito le immagini di Sodoma e Gomorra, che però non rendono l’idea, soprattutto non rendono “giustizia” alcuna alla realtà del nostro presente.
Il Novecento è stato anche il secolo più oppressivo della storia, privo di rispetto per la vita umana e privo di misericordia; e certi istinti ormai in circolo da un secolo nel sangue delle nuove generazioni non si eliminano con inviti cinetelevisivi alla tenerezza, perché il lavoro che si richiede è molto più complesso, ma soprattutto più drastico, perché basato su un rischio che non si può evitare di correre: il non piacere alle masse ed alle elites di potere. Per non parlare della misericordia vera, quella correttamente intesa, recepita e praticata secondo il Mistero della Rivelazione, esposta e riassunta in numerosi passi dei Vangeli, prendiamone solo uno tra i diversi:
«Se il tuo occhio destro è motivo di scandalo cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna. E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geenna» [Mt 5, 29-30]
Se però all’interno della Chiesa contemporanea qualcuno è davvero convinto che dinanzi ad un corpo assalito da un devastante diabete degenerativo che ha generato una cancrena al piede, sia invece molto misericordioso non amputarlo, perché non è bene privare un essere umano di un arto, in tal caso è presto detto: ci si preparari alla inevitabile conseguenza della cancrena che da lì a breve assalirà anche tutti gli altri arti del corpo.
Il Novecento è stato il secolo che ha assistito allo sterminio degli ebrei, che non è stato il solo, anche se pochi ricordano il genocidio degli armeni a cavallo della prima guerra mondiale. Nessuno commemora le decine e decine di milioni di uccisi sotto il regime sovietico e pochi si avventurano a fare il conto delle vittime sacrificate nelle varie parti del mondo all’utopia comunista. Nel corso di questo secolo si è imposto a intere popolazioni l’ateismo di Stato, mentre nell’Occidente secolarizzato si è diffuso un ateismo edonistico e libertario, fino ad arrivare all’idea grottesca della “morte di Dio”.
Solov’ëv è stato profeta e maestroinattuale e inascoltato, a lungo relegato nella letteratura visionaria. In realtà è stato un appassionato difensore dell’uomo schivo ad ogni filantropia. È stato un apostolo infaticabile della pace e avversario del pacifismo. Auspicò l’unità tra i cristiani e fu duramente critico verso ogni irenismo. Fu innamorato della natura ma totalmente distaccato dalle odierne infatuazioni ecologiche, o per dirla in breve: fu amico innamorato della Verità rivelata del Verbo di Dio e nemico ostile di ogni ideologia e di ogni socio-teologia pseudo religiosa. Queste sono le guide di cui oggi abbiamo estremo bisogno, assieme alla vera misericordia. Non abbiamo bisogno, né mai un corpo infetto da arti in cancrena sarà salvato con l’acqua distillata della vaporosa tenerezza, ma solo con la grande misericordia del bisturi …
Molti Paesi un tempo roccaforti del cattolicesimo si stanno ormai scristianizzando rapidamente. C'è da piangere al pensiero che queste terre sono state conquistate alla fede grazie al sangue di innumerevoli martiri e adesso le stiamo perdendo; purtroppo non sarà facile ricondurle a Cristo, forse ci vorranno secoli.
Pensiamo ad esempio alla diocesi di Evreux (Francia). Osserviamo i numeri: nel 1950 i preti diocesani erano 312, mentre secondo gli ultimi dati disponibili sul sito della diocesi il loro numero è precipitato a 83 dei quali solo 68 sono in attività! La percentuale dei cattolici era al 96% della popolazione residente, ora è crollata all'incirca al 70% (molti ormai non battezzano più i bambini). Ma il dato che sconvolge di più è quello del numero delle parrocchie che nel 1950 erano 582 e oggi sono scese a 31 con un saldo negativo di 551. La causa di ciò sta nel tracollo del numero dei preti, perché le poche decine di parroci ancora in attività non erano sufficienti a gestire le centinaia di parrocchie del passato.
I numeri non sono né tradizionalisti né modernisti, sono dati di fatto dei quali è necessario prenderne atto. Se il presente è drammatico, il futuro della diocesi di Evreux appare ancora più tragico. Degli 83 preti diocesani attualmente in vita, solo una ventina hanno meno di 60 anni. Considerando il bassissimo numero di vocazioni, tra dieci o vent'anni, l'intera diocesi conterà solo una manciata di preti. E pensare che erano 312!
Insomma, quando dico che la situazione è drammatica non è un'esagerazione. E' come se uno tsunami avesse travolto molte diocesi dell'orbe cattolico. Fortunatamente gli istituti legati alla liturgia tradizionale godono di un abbondante afflusso di nuove vocazioni, le quali, se Dio vorrà, dovranno rievangelizzare nuovamente le diocesi terremotate dalla terribile crisi che ha colpito il cattolicesimo negli ultimi decenni.
Il Vescovo Thomas Paprocki della diocesi di Springfield in Illinois ha dato direttiva a tutti i parroci della sua diocesi di spostare i tabernacoli nelle loro chiese di nuovo al centro del santuario.
In una lettera pastorale “Ars celebrandi et adorandi” il vescovo Paprocki espone la ricca tradizione e gli insegnamenti della Chiesa in materia di celebrazione e venerazione per l’Eucaristia.
Mons. Paprocki racconta anche il movimento deplorevole negli ultimi decenni che ha visto il Santissimo Sacramento relegato a “cappelle laterali”, che a volte sono niente di più che ripostigli convertiti.
Dispone Mons. Paprocki:
“Mi riferisco a chiese e cappelle della nostra diocesi, in cui i tabernacoli che erano già al centro del santuario, ma sono stati spostati, devono essere restituiti al più presto possibile al centro del santuario in accordo con il progetto architettonico originale . Tabernacoli che non sono al centro del santuario o comunque non in uno spazio visibile, importante e nobile devono essere spostati al centro del santuario; tabernacoli che non sono al centro del santuario, ma sono in uno spazio visibile, importante e nobile possono rimanere. “
Mons. Paprocki ricorda anche ai fedeli che il segno corretto di rispetto per il nostro Signore nel Santissimo Sacramento è genuflettersi. Egli incoraggia anche la più frequente esposizione eucaristica e l’adorazione, così come le processioni eucaristiche pubbliche per le strade.
È possibile affermare che, senza alcun dubbio, la ragion d’essere dei segni propri della Liturgia derivano dalla natura umana, considerata nella sua realtà ad un tempo corporea e spirituale; essa deriva anche dal mistero dell’Incarnazione, grazie al quale l’accesso al Dio invisibile diventa possibile attraverso l’umanità reale di Gesú Cristo. Infatti, come l’umanità di Cristo è lo strumento dell’azione salvifica del Verbo, i segni liturgici contengono e trasmettono la potenza salvifica di Dio; per mezzo di essi la grazia di Dio è comunicata o intensificata in tutti coloro che hanno già ricevuto la giustificazione, l’adozione divina e l’incorporazione nella Chiesa. È certo che la comprensione dei segni liturgici è inclusa nella partecipazione cosciente e fruttuosa alla Liturgia; tuttavia, anche se questi segni esercitano comunque, con la loro semplice presenza, un ruolo pedagogico nei confronti di coloro che li percepiscono con una coscienza limitata dal punto di vista del loro contenuto, essi esigono la presenza di una mistagogia permanente e di una formazione, basate sulla catechesi liturgica, tali da permettere sia ai fedeli sia ai ministri di progredire nella conoscenza del mistero che viene celebrato. Questa precisazione è particolarmente importante quando si è alla presenza di un rito che non è celebrato abitualmente, come per esempio del rito delle ordinazioni o della dedicazione di una nuova chiesa. Niente è piú nocivo alla partecipazione spirituale dei fedeli ad una celebrazione liturgica, dell’atteggiamento troppo frettoloso o distratto del celebrante, o del compimento meccanico dei suoi gesti liturgici.
Vi sono tre termini, derivati da una preghiera tradizionale, che riassumono bene l’atteggiamento che dovrebbe essere proprio di ogni celebrante: “degno”, “attento”, “devoto”, tant’è vero che lo stesso celebrante è un segno. In quanto persona consacrata e strumento dell’azione di Cristo glorioso, che è l’autore principale delle azioni sacramentali, il ministro ordinato, al pari del fedele laico deputato in base alle norme del diritto, deve lasciare trasparire il mistero che viene celebrato, in modo tale che la comunità possa essere in grado di percepire che il ministro non è un attore di teatro, né un funzionario, ma un credente attento alla presenza ineffabile di Colui che non può essere visto con gli occhi della carne, ma che è piú reale di tutto ciò che appartiene all’universo dell’esperienza sensibile.
“Degna” Una celebrazione liturgica “degna” dev’essere innanzi tutto impregnata della bellezza del luogo in cui si svolge, e degli oggetti del culto che vi sono impiegati, anche se si tratti di una bellezza semplice ed essenziale. Essa comporta anche l’accuratezza dei paramenti liturgici e la qualità dei vasi sacri. Di contro, se una tale celebrazione riveste un aspetto teatrale, essa non può essere considerata come veramente “degna”; infatti, lungi dall’essere uno spettacolo, una celebrazione liturgica ha una dimensione innanzi tutto religiosa e spirituale. Infine, questa nozione della dignità include la necessità che le celebrazioni siano accompagnate con dei movimenti appropriati alla Liturgia, dei movimenti cioè che siano compiuti senza fretta, con una certa posatezza ed eleganza, ma senza affettazione.
“Attenta” Una celebrazione liturgica dev’essere poi “attenta”, il che esige uno sforzo particolare da parte del celebrante, affinché, nella misura del possibile, eviti le distrazioni, soprattutto quelle volontarie. Quest’aggettivo “attenta” permette di insistere sulla volontà del celebrante di concentrare il suo spirito, il che esige una disciplina dei sensi atta ad evitare di lasciarsi distrarre dai tanti oggetti che cadono sotto il suo sguardo e distolgono la sua attenzione. La musica, evidentemente, non costituisce in sé un ostacolo per questa attenzione, poiché essa fa parte integrante della partecipazione del coro e dei fedeli; l’attenzione esige anche il silenzio, e cioè innanzi tutto il “silenzio interiore”, o, se si vuole, un cuore placato e calmo, il che a sua volta implica evidentemente il silenzio esteriore, del clero, dei chierichetti e dei fedeli.
“Devota” Infine, la celebrazione dev’essere “devota”, il che significa che è necessaria un’attitudine intrisa di rispetto, di amore di Dio, di senso religioso e di attenzione nei confronti di ciò che è “l’unica cosa necessaria” (Lc 10, 42). In francese l’aggettivo “devoto” può essere reso col termine “pio”. È possibile definire questo termine nel modo seguente: “una persona devota è quella che è cosciente che la sua vita non ha alcun senso se non è collegata intimamente a Dio”; in altri termini, si tratta dell’attitudine di colui che vuol vivere in maniera totalmente coerente con la sua consacrazione battesimale, seguendo il programma che San Paolo riassume in poche parole: “Se viviamo, viviamo per il Signore; se moriamo, moriamo per il Signore. Vivi o morti, noi apparteniamo al Signore” (Rom 14, 8). Questo significa che una persona devota è “totalmente votata al Signore”. Colui che partecipa ad una azione liturgica non dovrebbe giungere alla celebrazione senza una adeguata pausa, passando cioè immediatamente dalle preoccupazioni profane, anche se buone e rispettabili, alla preghiera comunitaria. È necessario rispettare un certo lasso di tempo, anche breve, caratterizzato dal silenzio, dal raccoglimento e dalla preghiera. Un esempio eclatante, a riguardo, è quello dei monaci che prima di entrare nella chiesa del monastero per celebrarvi l’Ufficio Divino anche chiamato Liturgia delle Ore restano in piedi e in silenzio nel chiostro, allo scopo di raccogliere il loro spirito prima di iniziare la salmodia. La stessa finalità hanno in vista le preghiere che il celebrante recita nel rivestire i paramenti liturgici, appena prima della celebrazione.
In conclusione, si può affermare che le riflessioni appena esposte derivano dalla prima tra le disposizioni richieste per una partecipazione autentica alla celebrazione liturgica: la fede, che sola svela i diversi significati, molto ricchi, dei segni liturgici; la fede, che sola permette al ministro ordinato di calarsi nel ruolo sacro di strumento di Cristo e di servitore del suo Corpo, la Santa Chiesa; la fede, che sola, consente alle persone di non trascurare i segni liturgici come superflui, ma di lasciarsi umilmente ammaestrare da essi.
All’epoca in cui G. K. Chesterton scriveva il brano riportato di seguito non era ancora accaduto l’inimmaginabile. Ma egli scrive testi che appaiono profetici ed il suo genio sta nell’usare una sorprendente e sottile schermaglia di parole e immagini al posto dell’apologetica.
G. K. Chesterton (Trad. dall’inglese di G. Sodi-Cosgrave, Il Frontespizio ottobre 1934, annata XII, pp. 8-9).
Le discussioni teologiche sono sottili ma non magre. In tutta la confusione della spensieratezza moderna, che vuol chiamarsi pensiero moderno, non c’è nulla forse di così stupendamente stupido quanto il detto comune: “La religione non può mai dipendere da minuziose dispute di dottrina”. Sarebbe lo stesso affermare che la vita umana non può mai dipendere da minuziose dispute di medicina.
L’uomo che si compiace dicendo: “Non vogliamo teologi che spacchino capelli in quattro”, sarebbe forse d’avviso di aggiungere: “e non vogliamo dei chirurghi che dividano filamenti ancora più sottili”.
È un fatto che molti individui oggi sarebbero morti se i loro medici non si fossero soffermati sulle minime sfumature della propria scienza: ed è altrettanto un fatto che la civiltà europea oggi sarebbe morta se i suoi dottori di teologia non avessero argomentato sulle più sottili distinzioni di dottrina. Nessuno scriverà mai una Storia d’Europa un po’ logica finché non riconoscerà il valore dei Concili, della Chiesa, quelle collaborazioni vaste e competenti che ebbero per scopo di investigare mille e mille pensieri diversi per trovare quello unico della Chiesa.
I grandi Concili religiosi sono di un’importanza pratica di gran lunga superiore a quella dei Trattati internazionali, perni sui quali si ha l’abitudine di far girare gli avvenimenti e le tendenze dei popoli. I nostri affari di oggi stesso, infatti, sono ben più influenzati da Nicea ed Efeso, da Trento e Basilea, che da Utrecht o Amiens o, Versailles. In quasi tutti i casi vediamo che la pace politica ebbe per base un compromesso: la pace religiosa invece si fondava su di una distinzione. Non fu affatto un compromesso dire che Gesù Cristo era vero Dio e vero Uomo, come fu invece un compromesso la decisione che Danzica sarebbe stata in parte polacca ed in parte tedesca: era bensì la dichiarazione di un principio la cui perfetta pienezza lo distingueva sia dalla teoria ariana, sia da quella monofisita. E questo principio ha influito e influisce tuttora sulla mentalità di Europei, da ammiragli a fruttivendole, che pensano (sia pure vagamente) a Cristo come a qualcosa di Umano e Divino nello stesso tempo. Mentre il domandare alla fruttivendola quali siano per lei le conseguenze pratiche del Trattato di Utrecht, sarebbe meno che fruttuoso.
Tutta la nostra civiltà risulta di queste vecchie decisioni morali, che molti credono insignificanti. Il giorno in cui furono portate a termine certe note contese di metafisica sul Destino e sulla Libertà, fu deciso anche se l’Austria dovesse o no somigliare all’Arabia, o se viaggiare in Ispagna dovesse essere lo stesso che viaggiare nel Marocco. Quando i dogmatici fecero una sottile distinzione fra la sorta di onore dovuto al matrimonio e quello dovuto alla verginità, stamparono la civiltà di un intero continente con un marchio di rosso e di bianco, marchio che non tutti rispettano, ma che tutti riconoscono, anche mentre l’oltraggiano.
Nello stesso modo, allorché si stabilì la differenza tra il prestito legale e l’usura, nacque una vera e propria coscienza umana storica, che anche nello spettacoloso trionfo dell’usura, nell’età materialistica, non si è potuto distruggere. Quando San Tommaso D’Aquino definì il diritto di proprietà e nello stesso tempo gli abusi della falsa proprietà, fondò la tradizione di una schiatta di uomini, riconoscibili allora e ora, nella politica collettiva di Melbourne e di Chicago: e ciò staccandosi dal comunismo coll’ammettere i diritti della proprietà, ma anche protestando, in pratica, contro la plutocrazia.
Le distinzioni più sottili hanno prodotto i cristiani comuni: coloro che credono giusto il bere e biasimevole l’ubriachezza; coloro che credono normale il matrimonio e anormale la poligamia; coloro che condannano chi colpisce per primo ma assolvono chi ferisce in propria difesa; coloro che credono ben fatto scolpire le statue e iniquo adorarle: tutte queste sono, quando ci si pensa, molto fini distinzioni teologiche.
Il caso delle statue è particolarmente importante in questo argomento. Il turista che visita Roma è colpito dalla ricchezza, quasi sovrabbondanza, di statue che vi si trovano, or bene, il fatto dell’importanza dei Concili diviene ancora più impressionante quando tutto l’avvenire artistico di una terra dipende da una sola distinzione, e la distinzione stessa da un solo Uomo. Fu il Papa, solo, che rilevò la differenza tra venerazione delle immagini e idolatria. Fu lui solo a salvare tutta la superficie artistica dell’Europa e di conseguenza l’intera carta geografica del mondo moderno, dall’essere nuda e priva dei rilievi dell’Arte. Nel difendere quest’idea, il Pontefice difendeva il San Giorgio di Donatello e il Mosè di Michelangiolo, e com’egli fu forte e deciso in Roma così il David sta gigantesco su Firenze, ed i graziosi putti dei Della Robbia sono apparsi come squarci di azzurro e nubi nel Palazzo di Perugia, e nelle celle di Assisi. Se dunque una tale distinzione teologica è un filo sottile, tutta la Storia dell’Occidente è sospesa a quel filo; se non è che un punto di affermazione, tutto il nostro passato è in equilibrio su di esso.