di Carlo Bellieni
Una certezza che emerge da anni di contatto con pazienti piccolissimi è che quando il rapporto con il malato è a senso unico, sicuramente è un rapporto non corretto. In altre parole, con il tempo si impara che sia il paziente che il medico hanno bisogno l’uno dell’altro. E non in senso “moralista”, ma in senso pratico: quante cose si imparano quando si ascolta chi soffre... quante cose si vedono quando si va oltre la routine e la somministrazione rituale di medicine... Si vedono segni e sintomi che prima sfuggivano. Uno sguardo e un silenzio mostrano un disagio o un esito positivo, più di certe analisi. E da questo, il passaggio ad un vantaggio “morale” per il medico è presto fatto. Di fronte alla sofferenza di un bambino non si può non ridimensionare le proprie visioni sulla vita, orientarle in modo giusto, lavorare più alacremente: imparare ad essere dei medici migliori.
Insomma: il malato è una risorsa. Non solo il medico è utile a chi sta male, ma il vantaggio è reciproco. Sembra un paradosso. Mi ricordo che i primi passi che mi hanno portato a buoni risultati nel campo dell’analgesia del neonato nacquero proprio dalla sfida che quei piccoli bambini che mi chiedevano una fatica che talvolta era davvero forte, nascondessero una positività per me. E fu così che iniziò una cosa strana: un rapporto fatto di parole e piccoli gesti verso questi piccoli pazienti, che troppo facilmente viene da trattare con distacco e freddezza; l’osservazione stupefacente fu che quando si stava con loro, accarezzandoli, dando loro qualche goccia di zucchero, si poteva eseguire un doloroso prelievo di sangue senza che avvertissero dolore. E questo fu il primo passo: in realtà, era sicuramente strano che si parlasse con un “feto” nato prematuramente, ma questo era un passo irrinunciabile: non si può curare un paziente trascurandone l’umanità e la dignità, anche quando non capisce quello che diciamo o le cure che applichiamo. E il risultato analgesico fu un premio a questa sfida, un risultato che poi ha portato a capire che i tradizionali metodi non erano sufficienti proprio perché prescindevano da un rapporto umano. Da qui nacque poi nel tempo un sistema chiamato «saturazione sensoriale» che usa la presenza della madre o del caregiver per somministrare quella presenza che significa due cose: trattare umanamente il bambino e fare di tutto per evitare il dolore.
E da qui nacque poi la voglia di analizzare il pianto del neonato e vedere, come mostrammo, che nel pianto esiste una forma di protolinguaggio che tenta di esprimere qualcosa. Da queste osservazioni, nascono alcune brevi considerazioni su temi di attualità clinica.
Eutanasia
Quanto nella domanda di morte viene dall’incapacità di relazionarsi... Non solo del paziente con la propria malattia, ma del medico e dei familiari con il paziente. Sappiamo che molte richieste di morte dipendono dall’ambiente, dal sentirsi “un peso”, dalla depressione non curata.
Diagnosi prenatale
Come dare un’informazione completa quando si diagnostica una patologia prenatale? Come far capire che l’analisi dei cromosomi fetali non porta ad altro che ad una diagnosi cui per ora non c’è terapia? Come far capire che per amare un figlio non è necessario che sia perfetto? Queste domande sono fondamentali e la diagnosi prenatale se ne deve investire, per non scadere nella routine.
Cure al neonato
Il modo in cui i genitori guarderanno il loro bambino dipende dallo sguardo del curante: cinismo e sentimentalismo sono entrambi atteggiamenti sbagliati, che non creano un clima di affetto e di empatia; soprattutto non creano una famiglia. E quando sentiamo dire che alla nascita dei prematuri gravi esistono delle “zone grigie” in cui la decisione se rianimare o meno dipende dalla scelta dei genitori, capiamo come in realtà manchi la capacità di guardare l’altro con pienezza, il figlio non come una proprietà, il genitore non come un suddito su cui scaricare i pesi.
Una volta un chirurgo di Modena, Enzo Piccinnini, raccontava che voler bene significa fare sempre un passo indietro, di fronte al paziente, di fronte ai propri figli, e domandarsi: «Chi sei tu?», «Che destino hai?». Questo stupore è la vittoria su ogni paternalismo, su ogni violenza clinica o familiare: significa affermare che il figlio e il paziente non sono mie proprietà, che un Destino buono, Dio, li ha portati al mondo. Ragionare così significa non censurare nulla e voler davvero bene, dunque curare bene. In realtà, l’incapacità di rapportarsi con l’altro nasce da uno sguardo triste che spesso abbiamo su di noi e che può essere vinto solo dalla certezza che un Altro ci vuole bene.
Questa incapacità di rapporti conduce a vedere la malattia e l’altro sotto l’ottica del pregiudizio, senza capire che fa più paura la realtà immaginata che la realtà reale. Così nasce il pregiudizio verso la disabilità, la Sindrome Down in particolare, che conduce migliaia di donne e medici a moltiplicare gli esami prenatali per evitare la nascita di bambini trisomici; così nasce l’idea dell’eutanasia del neonato. Si chiama handifobia, questa fobia dell’ignoto, del disabile, e si basa sul nostro pregiudizio che pensa che la vita sia accettabile solo a certe condizioni. In realtà tanti disabili e famiglie di disabili ci mostrano che l’handicap è sicuramente una fatica, ma non la fine di una vita; anzi, siccome abbiamo la certezza che ognuno di noi è importante, non possiamo astenerci dal dire che anche chi è disabile è una risorsa per il mondo, in primo luogo per chi gli sta accanto.
Dunque stiamo attenti: non esistono “zone grigie”, ma solo sguardi grigi di chi pensa che ci siano vite di serie A e di serie B. Il medico deve riflettere su questo.
Medicina Dialogo Comunione 3 aprile 2012
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