mercoledì 25 aprile 2012

Gli sguardi deformati sui martiri cristiani del comunismo

Una drammatica pagina di storia ignorata e fraintesa dalla memoria comune europea

Cardinal Stefan Wyszyński


 di ANDREA POSSIERI

Molto raramente, all'interno del dibattito storiografico, trova uno spazio importante l'analisi del rapporto tra la Chiesa cattolica e il movimento comunista internazionale che vada al di là delle consuete riflessioni sulla ostpolitik. E ancora più sporadicamente, all'interno della memoria collettiva europea, viene riservato un ambito degno di nota a tutti quei martiri della fede - ovvero quelle migliaia di laici e consacrati che hanno pagato con la vita il solo fatto di essere cristiani - i quali, invece, hanno caratterizzato, in tempi e latitudini differenti, tutta la storia del Novecento. E non a caso, Alain Besançon, in Le malheur du siecle (1998), sottolineava amaramente che nonostante "ci siano stati sotto il comunismo più martiri della fede che in qualunque altra epoca della storia della Chiesa, non si riscontrano né fretta né zelo nel compilarne il martirologio".

 Per questi motivi, il convegno internazionale "La Chiesa cattolica dell'Europa Centro-orientale di fronte al comunismo: atteggiamenti, strategie, tattiche", svoltosi il 24 aprile presso l'Accademia d'Ungheria a Roma, è stato un momento importante di discussione per poter mettere a fuoco temi e campi di ricerca ancora poco studiati, per gettare nuova luce su alcune figure simbolo di queste vicende - come i cardinali Jószef Mindszenty e Stefan Wyszynski, in Ungheria e in Polonia, o il Vescovo Áron Márton in Romania - e, infine, per accrescere, attraverso l'acquisizione di nuove fonti documentali, le conoscenze sulle strategie della Santa Sede in quei regimi dittatoriali. Proprio lo studio di materiali d'archivio inediti ha permesso ad Antal Molnár, dell'Accademia d'Ungheria, di riportare alla luce la figura del gesuita ungherese, padre Béla Bangha. Un personaggio pressoché ignoto alla storia ecclesiastica universale, al quale si deve, invece, sia la stesura del decreto contro la propaganda comunista emanato nel 1938 in occasione della 28ª Congregazione Generale della Compagnia di Gesù, che l'avvio del moderno giornalismo cattolico in Ungheria grazie a un lavoro costante durato trent'anni.

Di tutt'altra figura, ben nota alla storia del cattolicesimo, si è invece occupato il professore Stanislaw Wilk, dell'Università Cattolica Giovanni Paolo II di Lublino, che ha tratteggiato uno stimolante profilo biografico del cardinale Wyszynski, definito come "l'invincibile difensore della Chiesa polacca". Un difensore instancabile del quale è stato sottolineato sia lo sforzo per la rinascita di una forte identità nazionale polacca (in cui il culto della Madonna e della presenza cattolica svolgeva una parte preminentissima) che il tentativo di dialogo che il primate polacco seppe svolgere con il regime comunista nonostante la reclusione a cui venne sottoposto. Un tentativo molto apprezzato dalla Santa Sede che cercò, sempre, in tutti i regimi comunisti dell'Europa orientale, di costruire dei ponti di dialogo con le cosiddette democrazie popolari. In particolare, András Fejérdy, dell'Accademia d'Ungheria in Roma, analizzando le strategie della Santa Sede per effettuare nomine episcopali in Ungheria tra il 1945 e il 1964, ha sottolineato l'esistenza di due diversi periodi: il primo, che durò fino al 1962 circa, in cui "la Santa Sede cercò di far valere il diritto di libera nomina senza prendere in considerazione le esigenze statali"; e poi il secondo, dopo il fallimento di questa prassi, quando la Santa Sede si dimostrò sempre più aperta alle trattative e all'accettazione di un modus vivendi che la portò a essere costretta ad accettare un compromesso maggiore, cioè la prassi del gentlemen's agreement del 1964.

Un convegno come questo che ha fatto luce su aspetti nuovi e, spesso, ai margini del dibattito storiografico, rappresenta un punto di partenza insostituibile per un'analisi sistematica del rapporto tra la Chiesa cattolica e il movimento comunista internazionale. Un punto di partenza, però, e non un momento conclusivo. Si potrebbe dire, parafrasando quanto afferma uno dei relatori, Philippe Chenaux, nella prefazione del suo libro L'ultima eresia. La Chiesa cattolica e il comunismo in Europa da Lenin a Giovanni Paolo II, che questo tipo di riflessioni costituiscono "un primo tentativo di bilancio di una storia ancora in costruzione". Uno degli snodi fondamentali di queste vicende risiede, infatti, non solo nelle drammatiche ed eroiche testimonianze dei cardinali Mindszenty in Ungheria, Wyszynski in Polonia o Beran in Cecoslovacchia - che rappresentano, appunto, un punto di partenza insostituibile - ma si colloca in quel particolare rapporto politico-culturale che esiste tra la cruda realtà dei regimi dell'Est e la rappresentazione simbolica del comunismo che, invece, venne elaborata nei paesi oltre cortina.

E non è secondario che, ancora oggi, sono in gran parte da ricostruire le modalità con le quali vennero raccontate, sottaciute o del tutto ignorate, nell'opinione pubblica occidentale, le vicende biografiche di quei martiri della fede che furono imprigionati, torturati e uccisi dai regimi comunisti. Vicende umane che sono state lette e interpretate secondo le mode e le sensibilità culturali proprie del tempo, che hanno finito per delimitare, diluire, stemperare fino a cancellare dalla memoria collettiva europea queste storie di uomini e donne in una sorta di "oblio cristiano del comunismo" come ha scritto Besançon. È questo il prodotto di una dinamica che richiama alla mente il binomio Est-Ovest, non tanto per l'andamento delle relazioni internazionali tra i due sistemi di alleanze contrapposte, quanto perché la genesi culturale, le matrici ideologiche e lo sviluppo teleologico-dottrinario del comunismo è stato tutto di marca occidentale - tanto che oggi in molti concordano nel sostenere che il comunismo è l'ultima utopia universalistica elaborata da un mondo occidentale in espansione - mentre la sua diretta applicazione, la sua costruzione statual-partitica, quella coercitivo-repressiva e il suo sviluppo geopolitico è tutto caratterizzato, invece, da una forte caratterizzazione orientale, a tratti dispotico-asiatica. In questo modo, da questa relazione binaria e conflittuale, si è sviluppata, da un lato, in occidente, la lotta politico-culturale e, quindi, la controversa percezione pubblica del comunismo e, dall'altro lato, in oriente, l'instaurazione manu militari del regime e la repressione brutale del dissenso.

Paradossalmente, i regimi comunisti che si instaurarono nell'Europa Orientale, facendo a meno della democrazia interna e della ricerca del consenso tramite libere elezioni, dipesero militarmente e politicamente dall'Unione Sovietica, ma allo stesso tempo, tutto il movimento comunista internazionale, Urss compresa, non poteva fare a meno della legittimazione politica che proveniva dalle opinioni pubbliche occidentali. Opinioni pubbliche che proprio per questo vennero investite costantemente da una lunga serie di mitologie politiche sui paesi del socialismo realizzato e sul comunismo in genere che se oggi potrebbero apparire risibili trovarono, invece, un pubblico numeroso ben disposto ad accettare ora il mito del piano, ora quello della lotta per la pace e, infine, quello del socialismo dal volto umano. È per questo motivo, eminentemente politico, che risulta fondamentale capire come vennero raccontate e percepite a Ovest, nel mondo libero, quelle straordinarie figure dei martiri della fede dell'Europa orientale, i cui profili biografici risultano, ancora oggi, inesorabilmente influenzati dai residui storici di quella storica contrapposizione politico-culturale e che, spesso, rendono difficile un giudizio storico equanime. Un giudizio che, a volte, necessiterebbe di una complessa analisi stratigrafica tale è la somma di opinioni e valutazioni che si sono cumulate nel tempo.

 Il caso del cardinale Mindszenty, per fare un esempio, è un caso di scuola. Il primate ungherese, infatti, non solo scontò la persecuzione e il carcere in Ungheria, ma da un certo momento in poi, grossomodo dalla metà degli anni Sessanta, scontò anche una prigione morale, simbolica e culturale nell'opinione pubblica occidentale che, per motivi molto diversi, lo relegò sempre più ai margini del discorso pubblico, fino a renderlo desueto e incomprensibile per i tempi moderni. Mindszenty, e con lui molti altri, finì per essere considerato un uomo del passato, legato a un'idea monarchica e principesca della Chiesa e, in definitiva, nel rappresentare un mondo cattolico, conservatore e reazionario, che era stato superato dalle magnifiche sorti progressive della storia. Eppure, come affermò il cardinale di Vienna Franz König, nel maggio del 1975, quando dette l'ultimo addio al defunto cardinale József Mindszenty, si potrebbe dire che defunctus adhuc loquitur. È proprio così, quel testimone del Vangelo di Cristo, quel profondo e viscerale rappresentante della nazione ungherese, "parla anche da morto". E rimane, ancora oggi, un simbolo per tutti quei martiri della fede perseguitati e uccisi nei regimi comunisti dell'Europa centro-orientale.


L'Osservatore Romano 26 aprile 2012

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