sabato 7 aprile 2012

La Pasqua non è un mito





di Girolamo Grillo



Riflessioni tratte dall'ultimo libro di mons. Girolamo Grillo "Perchè credo. I miei interrogativi sulla fede" (Marietti, pp. 300 euro 28), con prefazione di mons. Luigi Negri.

La resurrezione di Cristo contraddistingue la religione cristiana da tutte le altre religioni. E infatti i buddisti non hanno mai affermato una cosa del genere di Buddha, né gli ebrei di Mosè e né i musulmani di Maometto. Nel Nuovo Testamento è affermato, in maniera chiarissima, che questo evento ha avuto luogo in un preciso momento storico della vita di Gesù Cristo e che su di esso è imperniata tutta la predicazione e l’intera fede cristiana. Se Cristo è risorto tutto il suo messaggio risponde a verità: è vera la sua confessione di essere il Figlio di Dio, il Messia, il Profeta, mentre i suoi accusatori e crocifissori sono condannati.

La sua risurrezione conferma la validità del contenuto del suo messaggio e dei valori che egli ha proposto: umiltà, semplicità, povertà, giustizia, sacrificio, amore, generosità, libertà, pace ecc. E inoltre, la risurrezione di Cristo è un evento decisivo per la stessa Chiesa, la quale è stata data alla luce proprio da quello stesso Cristo che è risuscitato dai morti. In altri termini per quanti credono in Cristo, la sua resurrezione occupa un posto preminente, centrale e fondamentale nel campo di tutta la riflessione cristologica. Ecco perché se l’evento della resurrezione di Cristo resiste agli assalti di ogni razionalismo, la fede ha una saldezza incrollabile, mentre se dovessero esserci dei dubbi, allora tutto sarebbe inconsistente.

La resurrezione di Cristo non è affatto un mito, ma una inoppugnabile realtà storica. Anzitutto occorre chiarire che cosa si intenda per “mito”. Secondo gli studiosi delle religioni, il mito è una rappresentazione fantastica di un processo mentale dell’uomo, mirata ad ottenere una interpretazione e una spiegazione dei fenomeni della natura e della vita. (...)

Il pensiero laico di fronte alla resurrezione di Cristo, fin dai tempi di Porfirio sino a Voltaire, Feuerbach, Freud, Sartre ecc., ha sempre sostenuto la tesi del mito. Nella teologia tradizionale, e in particolare nella cristologia, la resurrezione ha sempre occupato un posto centrale, fondamentale e primario non come mito, ma come evento storico, reale, concreto, obiettivo. Chi ha la fede nel Cristo risorto non considera affatto la resurrezione un mito o una favola, anche se egli assume come criterio supremo di verità non ciò che è sempre accaduto, ma ciò che è accaduto una volta sola e, quindi, non l’universale, bensì il singolare. Pertanto, non c’è nessuna discontinuità tra il Cristo della fede e il Cristo della storia, come sostenevano i protestanti liberali (Harnack, Schweitzer), ma un legame profondo, nel senso che la resurrezione non procede dal basso, cioè dalla storia profana, ma dall’alto, essendo un evento di fede. Quindi la resurrezione di Cristo non può essere una favola o un mito, ma una “verità oggettiva”. Quando san Paolo parlò di “anastasis” (termine greco che significa resurrezione) nell’Aeropago di Atene, gli intellettuali di quel tempo compresero bene che egli parlava di una “verità storica” e non di una favola, ma proprio a motivo di ciò gli risposero: «su questo ti ascolteremo un’altra volta».

Al centro di quella religione nascente che veniva annunciata dagli Apostoli vi era, pertanto, una verità che faceva a pugni con la mentalità corrente dell’epoca. Fu dunque un vero miracolo se la fede nella resurrezione ha avuto la forza di imporsi nell’ambiente greco di allora. Lo stesso Paolo, scrivendo ai Corinzi, ha dovuto dedicare all’argomento un intero capitolo (1 Cor 15).

Ma come possiamo essere sicuri che Cristo sia veramente risorto? La testimonianza più convincente della resurrezione di Cristo ci viene data dai dodici Apostoli, poiché essi soltanto hanno visto il Cristo risorto e hanno mangiato e bevuto con lui; un’esperienza che non si ripeterà più dopo l’ascensione. È ovvio che ci si trovi di fronte a una verità transtorica, la quale può essere raggiunta soltanto con la fede, anche se la verità della resurrezione di Cristo può essere studiata come un fatto storico, nel senso che gli Apostoli realmente ci hanno trasmesso questa testimonianza. La prima testimonianza la troviamo in due brani della Prima lettera ai Corinzi di Paolo, in cui l’apostolo cita ciò che egli, da neoconvertito sulla via di Damasco, aveva ricevuto a sua volta da altri, cioè il racconto di quanto era accaduto (anni 36-39). In questi passi si parla della morte di Cristo per i nostri peccati, della sua resurrezione il terzo giorno, dell’apparizione a Cefa e ai dodici Apostoli. Quindi già sei o sette anni dopo la morte di Cristo vi erano dei cristiani che credevano nella resurrezione di Cristo. È molto importante, perché se si fosse trattato di un mito, sarebbe stato necessario un lasso di tempo molto più lungo, poiché è risaputo che i miti religiosi impiegano molto più tempo per formarsi.

È da escludere, inoltre, che gli Apostoli siano stati dei fanatici, come sostiene qualcuno, poiché nel descrivere la resurrezione non si perdono in molte chiacchiere, ma si limitano a poche pagine rispetto all’insieme dei loro scritti. Essi si limitano a parlare della resurrezione di Cristo, ma evitano di parlare, ad esempio, dell’ora esatta e del modo in cui questo evento si sarebbe verificato (cosa che, invece, farà qualche Vangelo apocrifo scritto verso l’anno 120 d.C.). La loro testimonianza, comunque, è chiarissima, come possiamo leggere negli Atti degli Apostoli: «Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, avete chiesto che vi fosse graziato un assassino e avete ucciso l’autore della vita. Ma Dio l’ha risuscitato dai morti e di questo noi siamo testimoni» (At 3,13-15).

La prima testimonianza ci viene resa da una donna, Maria di Magdala; cosa insolita per quell’epoca, perché la testimonianza di una donna allora non aveva alcun valore giuridico. Ultimo argomento: la breve durata delle apparizioni del Cristo risorto. Egli appare soltanto quattro o cinque volte in tutto il periodo di quaranta giorni e scompare subito (...)

A nessuno può sfuggire come, nell’evento della resurrezione di Gesù, vi siano due aspetti da considerare: l’uno storico e l’altro salvifico-teologico. Dal punto di vista storico, è necessario spiegare il repentino cambiamento avvenuto nei discepoli dopo la delusione della morte in croce di Gesù; ma, di per sé il solo fatto storico, non riesce a dimostrare la verità dell’evento in tutti i suoi aspetti. La storia della crocifissione di Gesù (fatto storico) tocca il suo culmine nella Pasqua e nella venuta dello Spirito Santo. Nell’ultimo capitolo di Matteo, Maria Maddalena e l’altra Maria lasciano la tomba, incontrano Gesù e lo adorano (Mt 28,9). Altrettanto fanno gli undici che, recatisi in Galilea, lo vedono sulla montagna e lo adorano (Mt 28,17). Anche secondo il Vangelo di Giovanni, soltanto dopo la resurrezione, Gesù viene riconosciuto e adorato come Signore divino (Gv 20,28).

Dal punto di vista teologico, soltanto la resurrezione raggiunge lo scopo di aiutare i discepoli a comprendere la divinità di Cristo. Ecco perché penso di poter rispondere affermativamente alla domanda: qual è la ragione per cui credo nella resurrezione di Cristo? Dopo la precedente attenta esposizione, si può essere convinti che la fede nella resurrezione di Gesù sia un atto pienamente responsabile e razionale. Come abbiamo visto, siamo partiti da fatti storici, senza i quali non sarebbe stato mai possibile legittimare la fede, a meno che non si pensi che la fede non sia altro che un elaborato del nostro intelletto o un gratuito dono di Dio. Una posizione fideista del genere ignorerebbe una realtà, dalla quale non si può mai prescindere e cioè che Dio si serve anche del nostro intelletto per raggiungere il suo intento: tra grazia e ragione o tra “fides et ratio” vi è una profonda connessione.

Questo non significa però che l’accettazione della risurrezione di Gesù sia un fatto puramente mentale su avvenimenti del passato. No! Abbiamo bisogno di elementi esterni (storici e del passato), ma anche di elementi interni; in altri termini abbiamo bisogno, come abbiamo sottolineato, di ascoltare i testimoni originari della resurrezione di Cristo (Pietro, Maria Maddalena, Paolo ecc.), ma contemporaneamente abbiamo bisogno di fare esperienza diretta della presenza del Signore, vivente nella nostra vita, aspettando il suo ritorno finale, secondo l’espressione con cui ha termine l’Apocalisse: «Vieni, Signore Gesù!».

Dal punto di vista umano, nessuno avrebbe potuto prevedere la resurrezione di Cristo. Chi mai, infatti, avrebbe potuto decidere ciò che sarebbe accaduto dopo la sua morte in croce? Non è altrettanto vero, però, che ciò che è accaduto a Lui non possa accadere anche agli altri comuni mortali. Il teologo protestante tedesco Jorgen Moltmann afferma che la resurrezione di Cristo più che valore epifanico e apologetico ha valore di anticipazione: la restaurazione completa dell’umanità del Cristo e la “anticipazione” del destino finale di ogni uomo, l’anticipazione della nostra resurrezione in Cristo e con Cristo. Ecco perché, nel linguaggio teologico, con l’espressione “risurrezione” si intende sia la sorte che è toccata a Gesù dopo la sua morte in croce, sia la sorte che toccherà a tutti gli uomini alla fine del mondo, quando alle anime verranno restituiti i loro corpi. Si è di fronte a due fondamentali verità di fede per il cristiano.

Non si può credere, cioè, alla resurrezione di Cristo, senza credere nel contempo alla propria resurrezione e la verità di quest’ultima è strettamente legata alla storicità o verità della prima: «Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la nostra fede» (1 Cor 15,14). Tale verità di fede è contenuta in numerosi simboli e formule dogmatiche fin dai primi secoli della Chiesa (Simbolo niceno-costantinopolitano e atanasiano). Il Concilio Vaticano II fa riferimento alla resurrezione come già avvenuta sacramentalmente (Lumen Gentium 7) e come traguardo dell’esistenza collegata alla venuta finale del Cristo.

Faccio mie, pertanto, a modo di conclusione, le profonde parole del mistico calabrese don Francesco Mottola, del quale è in atto il processo di beatificazione: «Vinciamo la nostra contingenza infinita, la nostra tristezza, la nostra nostalgia, la nostra gioia, e andiamo all’Eterno che è. E ci chiama, con voce divina ci chiama. Andiamo all’altra sponda. L’itinerario sacro di Cristo Signore deve essere il nostro itinerario. Cristo è morto in croce, è risorto, è asceso al cielo. Così noi. Questo abbrivo di ascensione è nostro e di Cristo. È nostro perché di Cristo».


La Bussola Quotidiana 07-04-2012

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