sabato 14 aprile 2012

NOTERELLE TRIDENTINE



Pubblichiamo (su gentile concessione dell'autore) con gratitudine un magistrale intervento di Don Enrico Bini  che aiuta a comprendere il Concilio Vaticano II in analogia con gli atri concili della Chiesa, in particolare quello tridentino.






di Don Enrico Bini

 Le recenti e vivaci discussioni intorno al valore del concilio Vaticano II hanno suggerito ai teologi e agli storici l’occasione per riconsiderare le complesse vicende, che nel corso dei secoli hanno accompagnato la storia dei concili precedenti. In particolare, per la chiesa cattolica ebbe un grande rilievo lo svolgimento del concilio di Trento dal 1546 al 1563. Un serena riflessione su questo “concilio dei concili”, può aiutare anche nella comprensione dell’ultimo e tanto dibattuto concilio Vaticano II.

Significativo è l’intervento del padre gesuita Giancarlo Pani sul valore del concilio di Trento, comparso nel numero di febbraio della Civiltà Cattolica. La riflessioni attuali inducono alcune osservazioni, che provengono proprio dalle vicende del concilio di Trento.

 1. Il concilio come tutti gli altri concili non fu soltanto dogmatico, ma fu anche un concilio pastorale. Si potrebbe dire che vi fu una continuità nella dottrina e una riforma che riguardò i costumi e le strutture della chiesa. La stessa parola riforma venne usata sempre per indicare un cambiamento morale o pratico. Al contrario dei protestanti che volevano una riforma della dottrina. Non è un caso che i protestanti furono definiti fino al XVIII secolo: i “pretesi riformati”.

2. La storia dei concili si è detto è complessa perché sono molteplici i fattori che vi influiscono. A Trento si visse una situazione paradossale, perché si può dire che il concilio fallì nella sua finalità fondamentale ossia di ricondurre all’unità i protestanti. I vari appelli rivolti dal concilio a coloro che aderivano alla Confessio augustana, non ebbero alcun effetto concreto. Si può dire che un concilio vale non tanto per il successo delle sue iniziative, quanto per il significato dottrinale che implica. Un altro caso evidente fu il concilio Lateranense V, del quale non si ricorda altro che la condanna dell’aristotelismo padovano.

3. Questa prospettiva apre l’occasione ad una riflessione circa il rapporto tra tradizione e chiesa. Nel senso di un rapporto biunivoco tra i due termini. La chiesa riceve la tradizione, ma nello stesso tempo la interpreta rettamente circa il suo senso, come del resto avviene per la scrittura. La tradizione non è un blocco monolitico sic et simpliciter, ma esige una attenta riflessione e analisi che spetta la magistero autentico, che risponde ai bisogni di oggi. In analogia stretta con quello che il magistero fa con la scrittura, della quale è l’unico interprete. In altre parole il magistero è strettamente connesso e accoglie il passato della chiesa e nel contempo deve essere in grado di aggiungere le risposte che i tempi attendono, con una tensione interna a non forzare i principi della logica. Ogni concilio si sente parte di una continuità vitale con il passato che approva, accoglie e completa.

4. La dimostrazione di questo rapporto si ha nei principi che si devono adottare per interpretare i dati conciliari sia dogmatici sia pastorali. Mentre l’accettazione delle decisioni dogmatiche è più chiaro e vincolante. Anche a Trento le disposizioni pastorali risentono di un registro linguistico più sfumato, come esigono i giudizi in campo strettamente pratico, quindi legato a molteplici circostanze. Per questo le normative pastorali del concilio ebbero una lunghissima recezione, che come è noto è durata per molti secoli. Anzi certe decisioni non ebbero esito, oppure vi furono risultati molto modesti, per esempio nel caso dei chierici coniugati. Tuttavia i pontefici post-tridentini dopo la fine del concilio ebbero chiaro, che ci sarebbero state interpretazioni diverse a causa di passi oscuri, per questo avocarono alla sede romana il diritto di dare una corretta interpretazione dei dettati conciliari. Anzi invitarono i futuri interpreti che sotto il pretesto di volere spiegare in modo migliore i testi conciliari ad attenersi alle indicazioni dei papi o come scrisse il papa Pio V ad accedere al luogo voluto dal Signore, ossia alla sede apostolica. Il testo conciliare una volta accettato dal pontefice diventa un atto del vescovo di Roma tanto da essere definito: auctor et interpres sacrorum conciliorum (autore e interprete dei sacri concili) (1).
I testi conciliari non si leggono come se fossero distaccati da chi ne è l’autore e il vero e autorevole interprete. Per questo motivo successivamente a Trento venne costituita la congregazione del concilio, che secondo le intenzioni del magistero doveva proprio collocare i testi di Trento nella dinamica storica del tempo.

 5. Nel suo aspetto pastorale il concilio operò anche scelte in discontinuità con la prassi dei primi secoli. Il caso più clamoroso si ebbe nella scelta di proibire il calice ai laici. I padri di Trento operarono una scelta su vari livelli. La prima riguarda il potere che la chiesa possiede sulla dispensa dei sacramenti, “salva la loro sostanza”. In secondo luogo, certe abitudini rituali nel corso dei tempi possono diventare ambigue, per la confessione della vera fede. Così fu per il caso dell’integrità del sacramento anche sotto una sola specie. Si potrebbe dire che il tempo talvolta muta la specie teologica dei riti. Per questo la chiesa giudica quello che è più opportuno secondo “le cose, i tempi e i luoghi”. Il principio dell’antichità cristiana non è l’unico che entra in gioco nella vita pastorale della chiesa, ma la sua validità nel “progresso del tempo”.

Si deve notare che quest’ultima espressione è propria del concilio ed è forse la prima volta che questo termine entra nell’argomentare teologico di un concilio. Il mutare delle consuetudini in vari luoghi non deve dare origine all’arbitrio, perché tutto deve essere sottoposto all’autorità della chiesa. Non si deve per questo condannare l’operato dei padri perché ebbero dei motivi probabili secondo “la consuetudine di quel tempo”. Questa feconda distinzione operata a Trento può essere vista proprio come un punto di riferimento per quello che la chiesa ha operato dopo il Vaticano II. Anche in questo caso la sapiente azione della chiesa gioca sull’intreccio di continuità e di discontinuità, che permette di superare il doppio pericolo di una fissità astorica oppure di un asfissiante storicismo, che non riesce a collegare il pensiero della chiesa sullo sfondo della necessaria continuità e concordanza con il suo passato.

6. Un caso particolare è dato dalla natura singolarissima della liturgia della chiesa. Il concilio di Trento assunse una duplice connotazione che si potrebbe chiamare attiva e passiva. Di fronte alla molteplicità dei riti la chiesa recepì quelli che furono approvati dall’uso continuo nel corso della sua storia (2). La chiesa nella sua intelligenza storica ha percepito che nella liturgia vi è un intreccio di fede, cultura e ritualità, che non si crea astrattamente, ma quasi emerge come plasmata dalle condizioni delle diverse epoche (3). L’uso frequente e lodevole di uno specifico rito è il segno dell’incontro della parola di Dio, con il genio umano di ogni tempo. Per questo la chiesa ammette i vari riti e li offre alla comunità ecclesiale. Spicca in questo ambito la venerabile liturgia romana, costituita da tre elementi: la parola di Dio, la tradizione apostolica e l’intervento dei pontefici.

Questo intreccio unico ebbe ed avrà sempre una sua particolare distinzione all’interno della chiesa. Per questo motivo, così a Trento si decise nel can. 13 sui sacramenti: «Se qualcuno afferma che i riti ricevuti e approvati nella chiesa e abitualmente usati nell’amministrazione solenne dei sacramenti, possono essere disprezzati o tralasciati dai ministri a loro piacere, senza che commettano peccato, o cambiati in altri nuovi a loro piacere da qualsiasi pastore della chiesa: s.a.» (4). Forse se questo canone fosse stato letto e compreso nei tempi post-conciliari, molte disinvolte riforme e abusi non avrebbero avuto luogo. In altre parole, un rito accolto dalla chiesa diventa una realtà definitiva, che non può essere disprezzato ed omesso. Per questo motivo, come ha affermato Benedetto XVI il rito di San Pio V non fu mai abrogato, perché non si deve e non si può proibire in linea di principio una liturgia riconosciuta dall’uso, come pienamente ortodossa. Sebbene, come si è visto sopra, alcune consuetudini rituali anche venerande possono talvolta divenire ambigue, per questo può intervenire il magistero nella regolazione della dispensa dei sacramenti.
Questa originaria preminenza teologica della liturgia romana, mi sembra che metta in secondo piano gli stessi aspetti rubricistici, che furono definiti dal concilio “pia admenicula”, nonostante che alcune consuetudini liturgiche vennero quasi vincolate al deposito della fede. La chiesa, in altre parole, non crea la liturgia, ma la riceve e ne regola l’uso per il bene delle anime.

7. Nella storia assai accidentata dei concili la chiesa cattolica deve prendere coscienza, che molto facilmente ogni concilio, può aprire uno scisma diacronico, ad esempio del Vaticano I con la separazione dei vecchi-cattolici. Mentre l’ortodossia e ancor di più i protestanti inclinano verso uno scisma sincronico, dovuto alla mancanza di una forte autorità decisionale. Per cui lo stesso errore dei progressisti e dei tradizionalisti è contrario, ma comune: la discontinuità. Per questo vi saranno sempre personaggi che si sentiranno incaricati di volta in volta di dichiarare nulli i concili, oppure invalidi i papi. Del resto questo è avvenuto anche per il concilio di Trento, come ci ha insegnato il grande storico Hubert Jedin. Questi mise in luce il pensiero di alcuni giuristi francesi del XVI secolo, che considerarono il concilio tridentino nullo ed invalido (5). In seguito, Saint- Cyran non lo giudicò ecumenico, e in genere i giansenisti lo considerarono troppo pelagiano. Leibniz suggerì a Bossuet di sospendere il valore del concilio, in vista del dialogo ecumenico.

Questa tentazione soggettiva di vedere nella chiesa una catena di decisioni contraddittorie tra di loro rischia di essere un pericolo costante, dove si rimane prigionieri di una logica astratta, che non tiene conto della singolarità dei giudizi storici. Per cui si può dire che i concili difficilmente risolvono una controversia dogmatica, oppure sono la causa diretta di una nuova divisione. Diverso il caso del Vaticano II che non ha portato, per ora, divisioni irrevocabili, ma certamente confusione, proprio per la sua singolare natura di concilio pastorale. Per evitare questo pericolo, il magistero della chiesa è oggi più che mai importante, perché la chiesa edotta da Cristo e dagli apostoli, è illuminata allo Spirito Santo che le suggerisce nel corso del tempo ogni verità, che conserverà fino alla fine del mondo (6).


[1] Bullarium Romanum, t. VII, Torino 1862, p. 723.

[2] «Ritus receptos …recipio et admitto» (Professio fidei tridentina).
[3] Nel decreto sulla celebrazione della Messa il concilio raccomandò di usare i riti …probatae, ac frequenti et laudabili usus receptae fuerint.
[4] Conciliorum oecumenicorum decreta, Bologna, EDB, 2002, p. 685. 
[5] H. Jedin, La conclusione del concilio di Trento, Roma, Studium, 1964, pp. 135-136.
[6] Concilio di Trento, sessione XIII, 11 ottobre 1551.

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