sabato 31 dicembre 2011
Pistoia: avviso per i fedeli
E' stata ANNULLATA la S. MESSA del 31 dicembre 2011,
che era prevista per le ore 21 nella chiesa di Sant'Ignazio di Loyola, in piazza
dello Spirito Santo a Pistoia.
Gesù, Maria, Giuseppe… “Non c’era posto per loro”… nella cattedrale
di Antonio Socci
Benedetto XVI, nella messa di mezzanotte di Natale, quest’anno, ha pronunciato un’omelia tutta incentrata su san Francesco per la sua meravigliosa “invenzione” del presepio, a Greccio, nell’anno 1223. Spiegando che quell’umile rappresentazione coglie il cuore del cristianesimo.
Incredibilmente, proprio quest’anno, il vescovo di Rieti, che è il vescovo di Greccio – cioè del luogo dove Francesco inventò il presepio – ha deciso: niente più storico presepio nella cattedrale.
Gesù bambino, la Madonna, san Giuseppe, con i pastori e i magi… Come a Betlemme duemila anni fa, “non c’era posto per loro” nella cattedrale di Rieti.
Negli anni scorsi su queste pagine più volte abbiamo criticato certe crociate ideologiche contro il presepio, soprattutto nelle scuole, dovute a professori o presidi imbevuti di “politically correct” che consideravano quella tradizione cristiana una discriminazione verso alunni di religione islamica.
Ma non era mai capitato che fosse un vescovo ad “abolire” il presepio e soprattutto sta facendo clamore – nella rete – il fatto che si tratti proprio del vescovo di Greccio.
PAROLE SCONCERTANTI
Più ancora della decisione in sé, hanno sconcertato le motivazioni che sono state fornite dal settimanale diocesano di Rieti per giustificare la scelta.
La toppa è stata molto peggiore del buco.
Infatti il giornale ha scritto che si tratta di “una scelta di sobrietà” e “un segno tangibile di condivisione”. Condivisione di cosa? Con chi? Il presepio lo fanno tutti. E poi perché “scelta di sobrietà”?
In omaggio al governo Monti, “sobrio” per definizione? Siamo a tal punto alla mercé delle mode politiche da svendere il presepio?
Allora il papa che anche quest’anno (come tutti i parroci della Chiesa Cattolica) ha fatto allestire il presepio in piazza San Pietro non avrebbe fatto una scelta “sobria” e “di condivisione”?
La Curia reatina sembra considerare il presepio un segno di “edonismo”. Ma ignora – proprio lei – la storia del presepio? Esso nasce dal santo della povertà come segno di amore al Salvatore da parte dei più poveri e dei più semplici.
L’ineffabile settimanale diocesano reatino sostiene che sarebbe “superficiale” (oltreché “edonista”) chi giudicasse criticamente la cancellazione del presepio.
Dunque la Curia reatina – unica nella cristianità – avrebbe dato un segno di profondità e di ascesi? Negando il presepio ai fedeli?
Il giornale diocesano dice che dobbiamo “contribuire a recuperare risorse”. Abolendo il presepio? Non sarebbe un risparmio maggiore abolire il giornale diocesano visto che – anche in questo numero – sembra preoccupato soprattutto di difendere le esenzioni dall’Ici della Chiesa?
Il settimanale motiva la “cancellazione” del presepio invitando a “rinunciare a quello che ci sembra necessario per concentrarci su quello che è essenziale”.
Ebbene, la difesa dell’esenzione dell’Ici sarà “necessaria” per la Chiesa, ma davvero non sembra “l’essenziale” della sua missione nella storia. Oppure tutto si è capovolto?
GESU’ CACCIATO
Un fedele ha scritto: “La Cattedrale senza presepe non è per nulla più sobria, è solo più brutta, e la bruttezza non salverà certo il mondo… se si deve rinunciare ad usare la bellezza per parlare al mondo di Dio, cosa che costituisce l’unica ragione di essere di una cattedrale, allora è la cattedrale ad essere superflua”.
In realtà dal 1997, su direttiva dei vescovi, è stato sfrattato dalle chiese italiane lo stesso Gesù eucaristico (si è infatti imposto di relegare il tabernacolo in qualche sgabuzzino) per cui non c’è da sorprendersi che ora venga sfrattato anche il presepio.
C’è il rischio che quello di Rieti sia solo l’inizio di un altro crollo a catena.
Notevole è un altro sofisma della Curia reatina, secondo cui “l’assenza in questo caso vale più della presenza”.
Un lettore ha ribattuto: “Non ho parole… nemmeno il governo Monti nella manovra pensioni ha avuto il coraggio di usare boutade di questo genere…”.
Del resto se questa “assenza” voleva essere una “provocazione” alla serietà della fede ha risposto a tono Riccardo Cascioli, sul giornale cattolico online La bussola quotidiana: “Chissà che bella provocazione alla nostra fede quella domenica che entrando in chiesa, trovassimo l’avviso: ‘La messa non si celebra per richiamare all’essenziale’. Chissà quante conversioni fulminanti”.
SOBRIETA’ E ROTARY
Dei lettori di Rieti ci scrivono mail indignate: “il vescovo vuole che teniamo solo l’essenziale e cancelliamo via, per ‘sobrietà’ e ‘solidarietà’, tutto ciò che non è essenziale. Sarà per questo che quest’anno è andato al Rotary Club di Rieti a ricevere il Premio ‘Sabino d’oro’ consistente in una placca d’argento dorato su cui è incisa l’immagine di un Guerriero Sabino stilizzato? Era proprio essenziale per la fede?”.
Dal reatino ci segnalano altre iniziative con cui quest’anno la Chiesa di Rieti ha mirato all’ “essenziale”.
Per esempio, durante i festeggiamenti di S. Antonio, conclusi dalla solenne celebrazione del vescovo, segnalano – oltre all’illuminazione delle maggiori vie cittadine (fatta forse per “recuperare risorse”) – l’”essenziale” festa del “Bertoldo show”, lo spettacolo dell’Orchestra Sonia e il Duo di Pikke, il fondamentale (per la fede) spettacolo “Pizzica e Taranta” con i tamburellisti di Torrepaduli, il concerto della Rino Gaetano band, quello della banda di Poggio Bustone, l’imperdibile (per il bene delle anime) concerto Erosmania, con Antonella Bucci e il comico Gabriele Cirilli, per non dire della distribuzione della “tradizionale cioccolata calda” che è un tocco di ascesi e di spiritualità.
Il tutto concluso dalla processione solenne col vescovo seguita, a ruota, dallo spettacolo pirotecnico della ditta pirotecnica Morsani.
E dopo ciò invocano la “sobrietà” per far fuori il presepe.
Si dirà: suvvia, quello della Curia di Rieti è stato uno sbaglio, ma non facciamola lunga, in fondo è solo un presepio. E’ vero.
MENTALITA’ PROTESTANTE
Ma dietro questa scelta in realtà fa capolino una mentalità purtroppo assai diffusa nel mondo ecclesiastico-episcopale, la quale intimamente disprezza la devozione popolare, ritenendola preconciliare e fastidiosamente “materialista”, mentre sarebbe da preferire una presunta purezza della spiritualità incarnata dai discorsi degli “addetti ai lavori” (da qui anche l’ostilità verso santi popolari come padre Pio o verso realtà come Medjugorije).
Ora, a parte la somiglianza di questa mentalità clericale, un po’ iconoclasta, con quella protestante, c’è da dire che il presepio e la venerazione dei santi e della Madonna sono quanto c’è di più cattolico, proprio perché esprimono il desiderio di toccare con mano e vedere il Dio che si fa uomo e che entra nella carne della nostra vita, si prende sulle spalle le nostre sofferenze e le nostre miserie.
LA LEZIONE DEL PAPA
E’ precisamente per questo che il papa, la notte di Natale, ha pronunciato quella poetica meditazione sul presepio di san Francesco a Greccio, dove “si rese visibile una nuova dimensione del mistero del Natale”.
Francesco di Assisi “baciava con grande devozione le immagini del bambinello e balbettava parole di dolcezza alla maniera dei bambini, ci racconta Tommaso da Celano … attraverso di lui e mediante il suo modo di credere” ha aggiunto il papa “è accaduto qualcosa di nuovo: Francesco ha scoperto in una profondità tutta nuova l’umanità di Gesù… Tutto ciò non ha niente di sentimentalismo. Proprio nella nuova esperienza della realtà dell’umanità di Gesù si rivela il grande mistero della fede. Francesco amava Gesù, il bambino, perché in questo essere bambino gli si rese chiara l’umiltà di Dio”.
Il Papa ha concluso:
“Proprio l’incontro con l’umiltà di Dio si trasformava in gioia: la sua bontà crea la vera festa. Dobbiamo seguire il cammino interiore di san Francesco – il cammino verso quell’estrema semplicità esteriore ed interiore che rende il cuore capace di vedere. .. ed incontrare il Dio che è diverso dai nostri pregiudizi e dalle nostre opinioni: il Dio che si nasconde nell’umiltà di un bimbo appena nato”.
Da “Libero”, 30 dicembre 2011
venerdì 30 dicembre 2011
Sullo stato della musica e del canto liturgico
Le domande imbarazzanti di Mons. Miserachs Grau pretendono risposte pratiche
IMPLICAZIONI DI UN CENTENARIO: IL PONTIFICIO ISTITUTO DI MUSICA SACRA (1911-2011)
Il Pontificio Istituto di Musica Sacra è stato fondato da San Pio X nel 1911; il breve pontificio Expleverunt di approvazione e lode della Scuola reca la data del 14 novembre 1911, ma le attività avevano già avuto inizio il 5 gennaio dello stesso anno con la celebrazione di una Santa Messa di impetrazione di grazie. I corsi veri e propri iniziarono il 9 gennaio. L’intero anno accademico 2010-2011 è stato dedicato alla commemorazione del centenario di fondazione di quella che si chiamò inizialmente “Scuola Superiore di Musica Sacra”, ma che sotto il pontificato di Pio XI fu annoverata tra gli atenei e le università ecclesiastiche romane, prendendo definitivamente il nome di “Pontificio Istituto di Musica Sacra.
di Mº Mons. Valentino Miserachs Grau
Preside del PIMS (Roma, 2011)
Vorrei sottolineare che il Santo Padre Benedetto XVI si è fatto presente alle feste centenarie tramite una sua lettera indirizzata al nostro Gran Cancelliere, Card. Zenon Grocholewski, in cui ha ricordato le benemerenze dell’Istituto in cento anni di storia, e ci ha ricordato come sia importante anche per il futuro continuare ad operare nel solco della grande tradizione, condizione indispensabile per un aggiornamento che abbia tutte le garanzie che la Chiesa ha sempre richiesto come connotati essenziali della musica sacra liturgica: santità, bontà di forme (arte vera) e universalità, nel senso che la musica liturgica sia a tutti proponibile, senza chiudersi in forme astruse o elitarie, e tanto meno ripiegare su imitazioni di banali prodotti di consumo.
Questo è un tasto dolente, il dilagare cioè nelle nostre chiese di un’ondata di pseudo musiche liturgiche veramente improponibili, sia nel testo che nella musica. Eppure la volontà della Chiesa appare chiaramente dalle parole del Santo Padre or ora ricordate. Con simili espressioni si era a noi rivolto nel discorso che tenne in occasione della visita al PIMS del 13 ottobre 2007. È ancora fresco nella nostra memoria il chirografo sulla musica sacra che il Beato Papa Giovanni Paolo II scrisse in data 22 novembre 2003 in commemorazione del centenario del “motu proprio” Inter sollicitudines di San Pio X (22 novembre 1903), assumendo “in totum” i principi più importanti di questo capitale documento, senza dimenticare quanto il Concilio Vaticano II aveva chiaramente espresso nel capitolo VI della Costituzione Sacrosanctum Concilium sulla Sacra Liturgia, seguendo praticamente le orme di quel Santo Pontefice che volle che il suo “motu proprio” avesse il valore di “codice giuridico della musica sacra”. Viene da domandarsi: se la volontà della Chiesa viene dichiarata a chiare lettere anche ai tempi nostri, come mai la prassi musicale nelle nostre chiese si discosta in modo così evidente dalla sana dottrina?
Alla radice ci sarebbero vari problemi da considerare. Per esempio, il problema del repertorio. Abbiamo accennato ad una doppia dimensione: il pericolo cioè di chiudersi in una cerchia che vorrebbe sperimentare nella liturgia nuove composizioni ritenute di elevata qualità. Occorre dire che l’evoluzione del linguaggio musicale verso incerti orizzonti fa sì che il divario fra la musica “seria” e la sensibilità del popolo diventi via via più profondo. La musica liturgica deve essere “universale”, cioè proponibile a ogni tipo di “pubblico”. È difficile che oggi si scriva buona musica che rechi questo connotato essenziale. Non discuto sul valore di certe produzioni, anche sacre, contemporanee, ma sull’opportunità del loro inserimento nella liturgia; non si può trasformare “l’oratorio” in “laboratorio” di sperimentazioni.
Il secondo aspetto del problema deriva da una falsa interpretazione della dottrina conciliare relativa alla musica sacra. Sta di fatto che il “rinnovamento” liturgico postconciliare, compresa la mancanza quasi totale di una normativa vincolante ad alto livello, ha consentito un progressivo degrado della musica liturgica, fino a diventare per lo più musica di consumo, sui parametri della più sciatta musica leggera. Questa triste prassi determina talvolta atteggiamenti di uno stizzoso rifiuto nei confronti della vera musica sacra, di ieri e di oggi, sia pur semplice ma scritta a regola d’arte. Solo un ravvedimento e una decisa volontà “riformatrice”, che sembra purtroppo di là da venire, potrebbe riportare in chiesa la buona prassi musicale, e con la musica la serietà delle celebrazioni, che non mancherebbero di attirare, attraverso la bellezza, tanta gente, specie giovani, allontanati invece dalla imperante prassi dilettantistica, falsamente popolare, che è stata erroneamente ritenuta, magari in buona fede, efficace strumento di avvicinamento.
Sulla capacità di coinvolgimento di cui è capace la buona musica liturgica vorrei aggiungere soltanto quella che è la mia esperienza personale. Io ho la fortuna di operare, ormai da quasi quarant’anni, come maestro di cappella della romana basilica di Santa Maria Maggiore, ove tutte le domeniche e feste viene celebrata la S. Messa Capitolare in latino, in canto gregoriano e in polifonia, con l’intervento dell’organo e, nelle maggiori solennità, di un sestetto di ottoni. Posso assicurare che i fedeli gremiscono le navate della basilica, e che non mancano mai persone che vengono a ringraziare, commosse fino al pianto, e che addirittura, specie al canto finale dell’Inno alla Madonna “Salus Populi Romani”, battono le mani non potendo contenere l’emozione. La gente è assetata di buona musica! Essa va direttamente al cuore ed è capace di operare persino clamorose conversioni.
Un altro punto cardinale della buona musica liturgica, sempre ricordato dal magistero della Chiesa, riguarda il primato dell’organo a canne. L’organo è stato sempre ritenuto lo strumento principe della liturgia romana e, quindi, tenuto in grande onore e considerazione. Sappiamo bene che altri riti usano altri strumenti, oppure il solo canto senza sorta di accompagnamento strumentale. Ma la Chiesa romana – e anche le chiese nate dopo la riforma luterana – vedono nell’organo lo strumento privilegiato. In modo direi esclusivo nei paesi latini, mentre nei paesi di tradizione anglosassone è frequente nella liturgia anche l’intervento dell’orchestra. Ciò non è dovuto al capriccio o al puro caso: l’organo ha radici molto antiche ed è stato collaudato per lunghi secoli nel suo cammino di perfezionamento. La qualità oggettiva del suo suono prodotto e sostenuto dall’aria insufflata nelle canne, omologabile a quello emesso dalla voce umana, e la ricchezza fonica che gli è propria e che lo rende un mondo a sé – non si tratta infatti di un surrogato dell’orchestra! – giustificano la predilezione che la Chiesa nutre nei suoi confronti. Non per nulla anche il Concilio Vaticano II dedica ispirate parole all’organo quando dice che “il suo suono ha la capacità di aggiungere notevole splendore al culto e di elevare possentemente gli animi a Dio e alle cose celesti”, rievocando così la dottrina precedente, sia di San Pio X, che di Pio XII, specie nella splendida enciclica Musicae sacrae disciplina. Vorrei ricordare a questo proposito che una delle pubblicazioni del PIMS che ha avuto più largo successo è l’opuscolo Iucunde laudemus, che raccoglie i documenti più importanti del magistero della Chiesa relativi alla musica sacra. Proprio in questi giorni, visto che la precedente edizione era completamente esaurita, stiamo dando alle stampe una nuova edizione, aggiornata con ulteriori documenti, sia del magistero precedente che di quello dell’attuale Pontefice.
In questo sia pur rapido sguardo sui punti principali che sono alla base di una buona prassi musicale liturgica, arriva per ultimo quello che dovrebbe essere il primo ad essere considerato, cioè il “canto gregoriano”. Il canto gregoriano è il canto ufficiale della Chiesa romana, come ribadisce il Vaticano II. Il suo repertorio comprende migliaia di pezzi, antichi, meno antichi e addirittura moderni. Certamente il maggior fascino si trova nei brani più antichi, risalenti ai secoli X-XI. Anche in questo caso si tratta di un valore oggettivo, in quanto il canto gregoriano rappresenta una sintesi del canto europeo e mediterraneo, imparentato con il vero e autentico canto popolare, anche delle regioni più lontane del mondo. È un canto profondamente umano, essenziale, nella ricchezza e varietà dei modi, nella libertà ritmica sempre al servizio della parola, nella diversità e vario grado di difficoltà dei singoli brani, a seconda del soggetto a cui è affidata l’esecuzione, etc. È un canto che ha trovato nella Chiesa il suo “humus” più consentaneo, e che costituisce un tesoro unico, di inestimabile valore, anche sotto il punto di vista semplicemente culturale.
Perciò la riscoperta del canto gregoriano è condizione indispensabile per ridare dignità al canto liturgico. E non soltanto come repertorio valido in se stesso, ma anche come esempio e sorgente di ispirazione per le nuove composizioni, come nel caso dei grandi polifonisti del periodo rinascimentale che, seguendo i postulati del concilio tridentino, fecero della tematica gregoriana la struttura portante delle loro meravigliose composizioni. Se nel canto gregoriano abbiamo la strada maestra, perché non seguirla e ostinarci invece a battere sentieri che, in tanti casi, conducono al nulla? Ma per tentare questo lavoro occorre avere persone ben dotate e ben preparate. Tale è lo scopo del Pontificio Istituto di Musica Sacra. Per questi nobili ideali si è battuto durante cento anni, e continuerà a farlo anche nel futuro, convinto di rendere un servizio indispensabile alla Chiesa universale in un campo di primaria importanza qual è la musica sacra liturgica. Ne era talmente convinto San Pio X, che non esitò a scrivere nell’introduzione del suo “motu proprio” queste auree parole: Tra le sollecitudini dell’officio pastorale, non solamente di questa Suprema Cattedra, che per inscrutabile disposizione della Provvidenza, sebbene indegni, occupiamo, ma di ogni Chiesa particolare, senza dubbio è precipua quella di mantenere e promuovere il decoro della Casa di Dio, dove gli augusti misteri della religione si celebrano e dove il popolo cristiano si raduna, onde ricevere la grazia dei Sacramenti, assistere al santo Sacrificio dell’Altare, adorare l’augustissimo Sacramento del Corpo del Signore ed unirsi alla preghiera comune della Chiesa nella pubblica e solenne officiatura liturgica.(…) È però di moto proprio e certa scienza pubblichiamo la presente Nostra Istruzione, alla quale, quasi a codice giuridico della musica sacra, vogliamo dalla pienezza della Nostra Autorità Apostolica sia data forza di legge, imponendone a tutti col presente Nostro Chirografo la più scrupolosa osservanza. Sarebbe veramente da augurarsi che il coraggio di San Pio X trovasse un qualche riscontro anche nella Chiesa dei nostri giorni.
Fonte: www.cantualeantonianum.com
IMPLICAZIONI DI UN CENTENARIO: IL PONTIFICIO ISTITUTO DI MUSICA SACRA (1911-2011)
Il Pontificio Istituto di Musica Sacra è stato fondato da San Pio X nel 1911; il breve pontificio Expleverunt di approvazione e lode della Scuola reca la data del 14 novembre 1911, ma le attività avevano già avuto inizio il 5 gennaio dello stesso anno con la celebrazione di una Santa Messa di impetrazione di grazie. I corsi veri e propri iniziarono il 9 gennaio. L’intero anno accademico 2010-2011 è stato dedicato alla commemorazione del centenario di fondazione di quella che si chiamò inizialmente “Scuola Superiore di Musica Sacra”, ma che sotto il pontificato di Pio XI fu annoverata tra gli atenei e le università ecclesiastiche romane, prendendo definitivamente il nome di “Pontificio Istituto di Musica Sacra.
di Mº Mons. Valentino Miserachs Grau
Preside del PIMS (Roma, 2011)
Vorrei sottolineare che il Santo Padre Benedetto XVI si è fatto presente alle feste centenarie tramite una sua lettera indirizzata al nostro Gran Cancelliere, Card. Zenon Grocholewski, in cui ha ricordato le benemerenze dell’Istituto in cento anni di storia, e ci ha ricordato come sia importante anche per il futuro continuare ad operare nel solco della grande tradizione, condizione indispensabile per un aggiornamento che abbia tutte le garanzie che la Chiesa ha sempre richiesto come connotati essenziali della musica sacra liturgica: santità, bontà di forme (arte vera) e universalità, nel senso che la musica liturgica sia a tutti proponibile, senza chiudersi in forme astruse o elitarie, e tanto meno ripiegare su imitazioni di banali prodotti di consumo.
Questo è un tasto dolente, il dilagare cioè nelle nostre chiese di un’ondata di pseudo musiche liturgiche veramente improponibili, sia nel testo che nella musica. Eppure la volontà della Chiesa appare chiaramente dalle parole del Santo Padre or ora ricordate. Con simili espressioni si era a noi rivolto nel discorso che tenne in occasione della visita al PIMS del 13 ottobre 2007. È ancora fresco nella nostra memoria il chirografo sulla musica sacra che il Beato Papa Giovanni Paolo II scrisse in data 22 novembre 2003 in commemorazione del centenario del “motu proprio” Inter sollicitudines di San Pio X (22 novembre 1903), assumendo “in totum” i principi più importanti di questo capitale documento, senza dimenticare quanto il Concilio Vaticano II aveva chiaramente espresso nel capitolo VI della Costituzione Sacrosanctum Concilium sulla Sacra Liturgia, seguendo praticamente le orme di quel Santo Pontefice che volle che il suo “motu proprio” avesse il valore di “codice giuridico della musica sacra”. Viene da domandarsi: se la volontà della Chiesa viene dichiarata a chiare lettere anche ai tempi nostri, come mai la prassi musicale nelle nostre chiese si discosta in modo così evidente dalla sana dottrina?
Alla radice ci sarebbero vari problemi da considerare. Per esempio, il problema del repertorio. Abbiamo accennato ad una doppia dimensione: il pericolo cioè di chiudersi in una cerchia che vorrebbe sperimentare nella liturgia nuove composizioni ritenute di elevata qualità. Occorre dire che l’evoluzione del linguaggio musicale verso incerti orizzonti fa sì che il divario fra la musica “seria” e la sensibilità del popolo diventi via via più profondo. La musica liturgica deve essere “universale”, cioè proponibile a ogni tipo di “pubblico”. È difficile che oggi si scriva buona musica che rechi questo connotato essenziale. Non discuto sul valore di certe produzioni, anche sacre, contemporanee, ma sull’opportunità del loro inserimento nella liturgia; non si può trasformare “l’oratorio” in “laboratorio” di sperimentazioni.
Il secondo aspetto del problema deriva da una falsa interpretazione della dottrina conciliare relativa alla musica sacra. Sta di fatto che il “rinnovamento” liturgico postconciliare, compresa la mancanza quasi totale di una normativa vincolante ad alto livello, ha consentito un progressivo degrado della musica liturgica, fino a diventare per lo più musica di consumo, sui parametri della più sciatta musica leggera. Questa triste prassi determina talvolta atteggiamenti di uno stizzoso rifiuto nei confronti della vera musica sacra, di ieri e di oggi, sia pur semplice ma scritta a regola d’arte. Solo un ravvedimento e una decisa volontà “riformatrice”, che sembra purtroppo di là da venire, potrebbe riportare in chiesa la buona prassi musicale, e con la musica la serietà delle celebrazioni, che non mancherebbero di attirare, attraverso la bellezza, tanta gente, specie giovani, allontanati invece dalla imperante prassi dilettantistica, falsamente popolare, che è stata erroneamente ritenuta, magari in buona fede, efficace strumento di avvicinamento.
Sulla capacità di coinvolgimento di cui è capace la buona musica liturgica vorrei aggiungere soltanto quella che è la mia esperienza personale. Io ho la fortuna di operare, ormai da quasi quarant’anni, come maestro di cappella della romana basilica di Santa Maria Maggiore, ove tutte le domeniche e feste viene celebrata la S. Messa Capitolare in latino, in canto gregoriano e in polifonia, con l’intervento dell’organo e, nelle maggiori solennità, di un sestetto di ottoni. Posso assicurare che i fedeli gremiscono le navate della basilica, e che non mancano mai persone che vengono a ringraziare, commosse fino al pianto, e che addirittura, specie al canto finale dell’Inno alla Madonna “Salus Populi Romani”, battono le mani non potendo contenere l’emozione. La gente è assetata di buona musica! Essa va direttamente al cuore ed è capace di operare persino clamorose conversioni.
Un altro punto cardinale della buona musica liturgica, sempre ricordato dal magistero della Chiesa, riguarda il primato dell’organo a canne. L’organo è stato sempre ritenuto lo strumento principe della liturgia romana e, quindi, tenuto in grande onore e considerazione. Sappiamo bene che altri riti usano altri strumenti, oppure il solo canto senza sorta di accompagnamento strumentale. Ma la Chiesa romana – e anche le chiese nate dopo la riforma luterana – vedono nell’organo lo strumento privilegiato. In modo direi esclusivo nei paesi latini, mentre nei paesi di tradizione anglosassone è frequente nella liturgia anche l’intervento dell’orchestra. Ciò non è dovuto al capriccio o al puro caso: l’organo ha radici molto antiche ed è stato collaudato per lunghi secoli nel suo cammino di perfezionamento. La qualità oggettiva del suo suono prodotto e sostenuto dall’aria insufflata nelle canne, omologabile a quello emesso dalla voce umana, e la ricchezza fonica che gli è propria e che lo rende un mondo a sé – non si tratta infatti di un surrogato dell’orchestra! – giustificano la predilezione che la Chiesa nutre nei suoi confronti. Non per nulla anche il Concilio Vaticano II dedica ispirate parole all’organo quando dice che “il suo suono ha la capacità di aggiungere notevole splendore al culto e di elevare possentemente gli animi a Dio e alle cose celesti”, rievocando così la dottrina precedente, sia di San Pio X, che di Pio XII, specie nella splendida enciclica Musicae sacrae disciplina. Vorrei ricordare a questo proposito che una delle pubblicazioni del PIMS che ha avuto più largo successo è l’opuscolo Iucunde laudemus, che raccoglie i documenti più importanti del magistero della Chiesa relativi alla musica sacra. Proprio in questi giorni, visto che la precedente edizione era completamente esaurita, stiamo dando alle stampe una nuova edizione, aggiornata con ulteriori documenti, sia del magistero precedente che di quello dell’attuale Pontefice.
In questo sia pur rapido sguardo sui punti principali che sono alla base di una buona prassi musicale liturgica, arriva per ultimo quello che dovrebbe essere il primo ad essere considerato, cioè il “canto gregoriano”. Il canto gregoriano è il canto ufficiale della Chiesa romana, come ribadisce il Vaticano II. Il suo repertorio comprende migliaia di pezzi, antichi, meno antichi e addirittura moderni. Certamente il maggior fascino si trova nei brani più antichi, risalenti ai secoli X-XI. Anche in questo caso si tratta di un valore oggettivo, in quanto il canto gregoriano rappresenta una sintesi del canto europeo e mediterraneo, imparentato con il vero e autentico canto popolare, anche delle regioni più lontane del mondo. È un canto profondamente umano, essenziale, nella ricchezza e varietà dei modi, nella libertà ritmica sempre al servizio della parola, nella diversità e vario grado di difficoltà dei singoli brani, a seconda del soggetto a cui è affidata l’esecuzione, etc. È un canto che ha trovato nella Chiesa il suo “humus” più consentaneo, e che costituisce un tesoro unico, di inestimabile valore, anche sotto il punto di vista semplicemente culturale.
Perciò la riscoperta del canto gregoriano è condizione indispensabile per ridare dignità al canto liturgico. E non soltanto come repertorio valido in se stesso, ma anche come esempio e sorgente di ispirazione per le nuove composizioni, come nel caso dei grandi polifonisti del periodo rinascimentale che, seguendo i postulati del concilio tridentino, fecero della tematica gregoriana la struttura portante delle loro meravigliose composizioni. Se nel canto gregoriano abbiamo la strada maestra, perché non seguirla e ostinarci invece a battere sentieri che, in tanti casi, conducono al nulla? Ma per tentare questo lavoro occorre avere persone ben dotate e ben preparate. Tale è lo scopo del Pontificio Istituto di Musica Sacra. Per questi nobili ideali si è battuto durante cento anni, e continuerà a farlo anche nel futuro, convinto di rendere un servizio indispensabile alla Chiesa universale in un campo di primaria importanza qual è la musica sacra liturgica. Ne era talmente convinto San Pio X, che non esitò a scrivere nell’introduzione del suo “motu proprio” queste auree parole: Tra le sollecitudini dell’officio pastorale, non solamente di questa Suprema Cattedra, che per inscrutabile disposizione della Provvidenza, sebbene indegni, occupiamo, ma di ogni Chiesa particolare, senza dubbio è precipua quella di mantenere e promuovere il decoro della Casa di Dio, dove gli augusti misteri della religione si celebrano e dove il popolo cristiano si raduna, onde ricevere la grazia dei Sacramenti, assistere al santo Sacrificio dell’Altare, adorare l’augustissimo Sacramento del Corpo del Signore ed unirsi alla preghiera comune della Chiesa nella pubblica e solenne officiatura liturgica.(…) È però di moto proprio e certa scienza pubblichiamo la presente Nostra Istruzione, alla quale, quasi a codice giuridico della musica sacra, vogliamo dalla pienezza della Nostra Autorità Apostolica sia data forza di legge, imponendone a tutti col presente Nostro Chirografo la più scrupolosa osservanza. Sarebbe veramente da augurarsi che il coraggio di San Pio X trovasse un qualche riscontro anche nella Chiesa dei nostri giorni.
Fonte: www.cantualeantonianum.com
Avviso per i fedeli
E' stata ANNULLATA la S. MESSA del 31 dicembre 2011,
che era prevista per le ore 21 nella chiesa di Sant'Ignazio di Loyola, in piazza
dello Spirito Santo a Pistoia.
giovedì 29 dicembre 2011
Un Giorgio La Pira inedito con don Diego Pancaldo
Un libro di don Diego Pancaldo pubblica oltre duecento lettere inedite del sindaco santo
LA PIRA: "NELLA BURRASCA? ALZARE GLI OCCHI E FISSARE DIO"
Il cardinale Piovanelli: “Il carteggio ci fa entrare nell’intimità della sua vita”
Firenze, 28 dicembre 2011 – “Quando la situazione è burrascosa, quando c’è oscurità, una sola è la cosa che va fatta. Respice stellam: alzare gli occhi al cielo e fissare la luce di Dio! Una è la verità che ci guida, questa: che niente avviene nella nostra vita che non sia in vista della nostra personale santificazione”.
Sono parole di Giorgio La Pira contenute in una delle 224 lettere finora inedite scritte alla “figlia spirituale” Paola Ramusani, con cui intrattenne un fitto scambio epistolare dal 1940 al 1975. Il carteggio, finora inedito, è stato pubblicato integralmente insieme a uno studio di Diego Maria Pancaldo, docente della Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, che indaga gli aspetti salienti dell’itinerario spirituale del “sindaco santo” di cui è in corso il processo di beatificazione.
Intitolato Preghiera e vita. La direzione spirituale come relazione di amicizia nel carteggio La Pira-Ramusani (Polistampa, pp. 536, euro 24,80), il libro è arricchito da un prefazione del cardinale Silvano Piovanelli, secondo cui l’opera “ci aiuta ad entrare nell’intimità della vita di La Pira e a scoprirlo come amico fedele e accompagnatore saggio nel campo dello spirito”.
Nelle lettere scritte alla Ramusani, insegnante di Reggio Emilia conosciuta a Canazei nel 1940, lo statista richiama costantemente i punti essenziali della vocazione alla vita consacrata, sottolineando la centralità dell’interiorità, della contemplazione, della preghiera e di un apostolato che sia realmente irradiazione dell’amore di Cristo. E come se non bastasse la ricerca presenta altri documenti inediti, reperiti presso l’archivio della Fondazione La Pira di Pozzallo e presso l’archivio dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, risalenti agli anni giovanili di La Pira, che contribuiscono a mettere a fuoco una delle figure più significative del cattolicesimo moderno. (Gherardo Del Lungo - Eventi Pagliai s.r.l.)
GIORGIO LA PIRA: AMICO FEDELE, ACCOMPAGNATORE SAGGIO
Diego Maria Pancaldo
Preghiera e vita. La direzione spirituale come relazione di amicizia nel carteggio La Pira-Ramusani
Il volume percorre le tappe fondamentali dell’itinerario spirituale del giovane Giorgio La Pira (conversione, vocazione, consacrazione, missione) e affronta i temi della sua più matura riflessione (spiritualità cristocentrica, Cristianesimo mariale, antropologia soprannaturale, vita di grazia e santità, vita interiore, vita sacramentale, Chiesa, preghiera, apostolato) ponendo le basi della conferma e dell’approfondimento della sua vocazione. È analizzata la corrispondenza con don Raffaele Bensi, così come le lettere agli amici del gruppo Ut unum sint, il diario, il carteggio con padre Agostino Gemelli, quello con Ezio Franceschini e alcune lettere a Fioretta Mazzei.
L’accompagnamento vocazionale è visto come relazione di amicizia, come testimonia il carteggio tenuto con Paola Ramusani, qui pubblicato per la prima volta. Si tratta di 224 lettere, 221 delle quali scritte da La Pira fra il 1940 e il 1975, tre soltanto dalla Ramusani, una indirizzata a La Pira e due a Fioretta Mazzei dopo la morte del professore.
È dal carteggio che apprendiamo alcune notizie sulla corrispondente: è una giovane insegnante conosciuta a Canazei nel giugno del ’40, abita a Reggio Emilia nella famiglia di origine, ha consacrato a Dio la propria esistenza. I motivi salienti del carteggio, individuati e studiati dall’autore, sono ancora l’amicizia spirituale, la ministerialità, la testimonianza, l’esortazione alla preghiera e alla verginità.
“Giorgio La Pira è conosciuto come testimone coraggioso del Vangelo nelle aule universitarie, come animatore della San Vincenzo nell’aiuto ai poveri, come ‘professorino’ nella Assemblea costituente, come deputato alla Camera, come sindaco di Firenze, come profeta della pace nel mondo, come audace pioniere dell’incontro dei popoli, come testimone coraggioso di fede cristiana e fedeltà alla Chiesa.
Questo libro ci aiuta ad entrare di più nell’intimità della sua vita e scoprirlo come amico fedele e accompagnatore saggio nel campo dello spirito. Aiuterà sicuramente chi vuole impegnarsi con serietà nel cammino di fede e in modo particolare quanti, preti e non, sono chiamati all’accompagnamento spirituale per aiutare altri a seguire con fedeltà la via del Vangelo, vivendo la propria esistenza come risposta all’amore di Dio.” (dalla Premessa del Card. Silvano Piovanelli)
Diocesi di Pistoia 29 dicembre 2011
Cardinal Ranjith sulla Liturgia
LETTERA DEL CARDINAL RANJITH ALLA 20.ma ASSEMBLEA GENERALE DELLA FIUV (Foederatio Internationalis Una Voce)
CHE SI E' TENUTA A ROMA IL 5 E IL 6 NOVEMBRE SCORSI
"Desidero esprimere prima di tutto, la mia gratitudine a tutti voi per lo zelo e l'entusiasmo con cui promuovere la causa del restauro della vere tradizioni liturgiche della Chiesa.
Come sapete, è il culto che esalta la fede e la sua realizzazione eroica nella vita. È il mezzo con cui vengono sollevati gli esseri umani fino al livello del trascendente ed eterno: il luogo di un incontro profondo tra Dio e l'uomo.
Per questo motivo, la liturgia non potrà mai essere ciò che l'uomo crea. Perché se noi pratichiamo un culto come lo vogliamo noi e fissiamo noi stessi le regole, allora corriamo il rischio di ricreare vitello d'oro di Aaron.
Dovremmo insistere sempre per intendere il culto divino come atto di partecipazione a ciò che Dio stesso fa, altrimenti corriamo il rischio di impegnarsi in idolatria.Il simbolismo liturgico ci aiuta a superare ciò che è umano verso ciò che è divino.
In questo, è mia ferma convinzione che il Vetus Ordo rappresenti in larga misura e nel modo più appagante -mistico e trascendente- ad un incontro con Dio nella liturgia.
Per questo ora è arrivato il tempo per noi non solo di rinnovare, attraverso cambiamenti radicali, il contenuto della liturgia nuova, ma anche per incoraggiare sempre più un ritorno del Vetus Ordo, inteso come il modo per un vero rinnovamento della Chiesa, che era ciò che il Padri Conciliari seduti nel Concilio Vaticano II desideravano.
L'attenta lettura della Costituzione conciliare sulla sacra Liturgia, Sacrosanctum Concilum, dimostra che i cambiamenti introdotti alla Liturgia in seguito non sono mai stati nelle menti dei Padri del Concilio.
Quindi è giunto il momento per noi di essere coraggiosi e lavorare per una vera riforma della riforma e anche un ritorno alla vera liturgia della Chiesa, che si era sviluppata sulla sua bimillenaria storia in un flusso continuo.
Auguro e prego che ciò possa accadere.Dio benedica i vostri sforzi con successo."
+ Cardinale Malcolm Ranjith Arcivescovo di Colombo 24/8/2011
Una Fides giovedì 29 dicembre 2011
A Rieti hanno ucciso il presepe
di Riccardo Cascioli
«La decisione di rinunciare allo storico presepe della Cattedrale (…) è anche un invito a rinnovare lo sguardo anche sulle tradizioni più ovvie, a superare ciò che l’uso ci ha indotto a dare per scontato, a rinunciare a quello che ci sembra necessario per concentrarci su quello che è davvero essenziale». Inizia così sull’ultimo numero del settimanale diocesano di Rieti l’articolo che dovrebbe spiegare ai fedeli perché quest’anno non hanno trovato il presepe nella cattedrale.
Eh sì, proprio così: nella diocesi dove è ubicata Greccio, il luogo dove San Francesco ha voluto creare il primo presepe, si è deciso di eliminarlo dalla cattedrale, per richiamare all’essenziale. Così via il presepe storico, quest’anno è restato «solo, sui gradini del presbiterio, il Bambino Gesù avvolto nei lini bianchi».
Lo sconcerto ed il disorientamento tra i fedeli è grande e lo testimoniano i commenti sul sito del settimanale diocesano. Soprattutto a sconcertare sono gli argomenti che via via i responsabili della diocesi e della redazione del settimanale portano per giustificare l’assurda decisione, che viene attribuita al vescovo in persona: «Una scelta di sobrietà».
Sobrietà? Eliminare il presepe una scelta di sobrietà? Ecco una bella idea per tutte quelle scuole che impediscono qualsiasi rappresentazione del Natale di Gesù: basta inutili discussioni, sulla sobrietà siamo tutti d’accordo. E pensare che noi ancora a prendercela con la secolarizzazione, il laicismo, l’odio alla Chiesa: non abbiamo capito niente, era solo sobrietà, richiamo all’essenziale.
E allora via il presepe, ma via anche le croci dalle pareti; di più, anche dai tetti delle chiese, una anacronistica rappresentazione trionfalista. E tanto che ci siamo, perché non rinunciare anche alla messa domenicale, un rito cui ci si è abituati e che si vive dimentichi del significato? Come dicono nella Curia di Rieti «l’assenza, in questo caso, vale più della presenza». Chissà che bella provocazione alla nostra fede quella domenica che entrando in chiesa, trovassimo l’avviso: «La messa non si celebra per richiamare all’essenziale». Chissà quante conversioni fulminanti.
Ma non basta: si toglie il presepe, così «chi varcherà la soglia della cattedrale, lo farà davvero per ascoltare la proclamazione della Parola». Capito? Il presepe distrae dalla proclamazione della Parola. Forse chissà, negli anni passati, avranno visto che durante le insopportabili omelie episcopali, i fedeli si alzavano e preferivano andare a meditare qualche minuto davanti al presepe.
E ancora: «Il messaggio che si tenta di dare è quello di rivolgersi all’essenziale, tralasciando ogni altra cosa possa avere il sapore dello sfarzo, del superfluo, dell’inutile». Cioè: Giuseppe e Maria, i Magi, i pastori sarebbero lo sfarzo, il superfluo, l’inutile. Quello che conta invece sarebbe solo quel Bambinello astratto dalla realtà, disincarnato, venuto chissà da dove e quando, e abbandonato sui gradini del presbiterio.
Diciamo la verità: quella che è andata in scena nella cattedrale di Rieti è la negazione stessa del Natale, il Dio che si fa uomo nascendo dal grembo di una donna, in un momento preciso della storia e in un luogo altrettanto preciso. La grotta, i pastori, le campagne e perfino il disprezzato laghetto, nel tentativo di ricreare l’ambiente storico in cui è nato Gesù, sono elementi che sottolineano proprio questa storicità, questa concretezza dell’avvenimento cristiano. Altro che elementi inutili e superflui, altro che sobrietà.
Perché questi personaggi della Curia di Rieti non percorrono quei 15 chilometri che li separano da Greccio e vanno a confrontare queste scempiaggini con lo spettacolo della grotta dove San Francesco volle ricreare la scena esatta accaduta a Betlemme dodici secoli prima, pretendendo addirittura la presenza del bue e dell’asinello? Forse che anche San Francesco mancava di sobrietà?
San Francesco, ci dice il biografo Tommaso da Celano, con quel presepe fece rinascere Gesù nel cuore di tante persone che erano accorse a Greccio. Oggi a Rieti si è deciso di farlo morire.
La Bussola Quotidiana 29-12-2011
mercoledì 28 dicembre 2011
Enzo Bianchi e i teologi olandesi
di Lorenzo Bertocchi
Apprendo con piacere della neo-nata vocazione apologetica del priore di Bose, Enzo Bianchi, che, sul quotidiano “La Stampa” di venerdì 23 dicembre, difende la Chiesa (olandese) rispetto a chi «specula» sulla tremenda piaga della pedofilia. La sua analisi è puntuale quando rileva come «i dati confermino ogni volta che la percentuale di tali crimini commessi all’interno delle istituzioni cattoliche non si discosta da quella relativa a qualsiasi tipo di istituzione che si prende cura dei minori, specialmente se prevede la convivenza quotidiana tra educatori e minori».
E fin qui nulla di nuovo, il rapporto Deetman, infatti, giunge alle stesse conclusioni di altre indagini di questo tipo condotte in varie parti del mondo. Il prosieguo rivela però altre intenzioni apologetiche.
«Ancora più improprio – dice Enzo Bianchi – mi appare l’accostamento delle cifre spaventose di abusi all’immagine della Chiesa olandese così aperta e all’avanguardia nella ricezione del Concilio Vaticano II, quasi a lasciar intendere che il clima di rinnovamento di quella stagione e l’episcopato più conciliare abbiano influito al terribile degrado».
A questo proposito però diciamo che se è da provare che ci sia un nesso, ovviamente sarebbe da provare anche il contrario, e forse non basta notare che «delle decine di migliaia di abusi di cui si è occupata la commissione, commessi tra il 1945 e il 2010, oltre l’ottanta per cento risale agli anni precedenti il Concilio». Ma, per Enzo Bianchi, questo è già sufficiente per chiedersi: «Come si può allora parlare onestamente di “disfatta postconciliare dell’ultraprogressista Chiesa olandese”?».
Sul fatto che ci sia stata una qualche «disfatta» si potrebbero, ad esempio, leggere i dati sulle vocazioni, ma, se anche fosse, come mai proprio il rapporto Deetman, nella sua versione inglese, indica il periodo post-conciliare (1960-1990) come il più refrattario alla soluzione del problema abusi su minori? Proprio in quel periodo, sottolinea il rapporto, c’è stata la maggiore omertà. Anche questo sarebbe da approfondire.
Infine, Bianchi sferra la sua arma apologetica definitiva: «Come si possono collegare tali misfatti al “catechismo olandese”, opera a suo tempo criticata dalle autorità ecclesiastiche per alcune posizioni teologiche, ma non certo morali?». Qui casca l’asino, perché si dà il caso che, al momento della pubblicazione del Nuovo Catechismo olandese, la curia romana rilevò, accanto a 14 punti di carattere più strettamente dottrinale (robetta tipo la verginità di Maria, la presenza reale di Cristo nell’Eucarestia, l’esistenza degli Angeli e altre cosucce così), un’altra quarantina di elementi ambigui “minori”, dei quali molti di carattere morale, come emerge dagli atti dell’incontro di Gazzada (VA), avvenuto nel 1967 tra teologi inviati dal Papa e teologi olandesi.
Nel tentativo di rendere il discorso appetibile per il contemporaneo, nella ottica di un aperto storicismo, i teologi olandesi mostravano di scambiare l’attualità per la verità, e così in campo etico il bene rischia di ridursi a ciò che è adeguato ad un determinato periodo e a un certo compito storico. Ma la curia romana non si limitò a questioni di principio, furono rilevati una serie di punti concreti su cui si chiedeva di intervenire correggendo ambiguità evidenti nel testo del catechismo olandese, ad esempio sul matrimonio, sulla procreazione “responsabile”, sull’autoerotismo, sul celibato sacerdotale, ecc.
Per questo mi pare abbastanza difficile sostenere, come fa il Bianchi, che il «catechismo olandese» fosse criticato dalle autorità ecclesiastiche solo «per alcune posizioni teologiche, ma non certo morali». Sarebbe poi interessante indagare se veramente tra queste posizioni e i “misfatti” degli abusi vi sia una totale indifferenza. Per il resto, in merito alla questione pedofilia, siamo d’accordo con Enzo Bianchi sul fatto che «non giova a nessuno speculare su simili tragedie». A nessuno.
(da www.corrispondenzaromana.it )
martedì 27 dicembre 2011
Lo scandalo della familiarità. Gesù vero Dio e vero uomo
di Inos Biffi
Gesù di Nazaret, Figlio di Dio: è l'originalità inattesa e sorprendente, o, come si dice, l'essenza del cristianesimo, su cui regge e da cui proviene tutto il Vangelo. La "buona notizia" non è che "il figlio del falegname" (Matteo, 13, 55) sia veramente uomo. Questo è immediatamente ovvio e non provoca nessuno stupore. In altre parole: a impressionare non è che ci fosse un uomo chiamato Gesù, che aveva come padre Giuseppe, come madre Maria, con dei "fratelli" di nome "Giacomo Giuseppe, Simone e Giuda", e con delle "sorelle" (Matteo, 13, 55-56), ma ciò che in lui appariva eccedente a una condizione umana "normale" e ad essa non riducibile: la sua sapienza, i suoi prodigi (Marco, 6, 2).
La storia di Gesù nei vangeli è esattamente la storia di questa irriducibilità, o degli eventi mirabili (mirabilia) che - senza alterare la dimensione umana del figlio del falegname, ma lasciandola intatta e normale - ne facevano intuire il profondo mistero e ne lasciavano trasparire l'intima identità divina, ossia quella identità, che apparve in tutta la sua luce nel prodigio della risurrezione, quando Gesù fu veduto come Signore - "Abbiamo visto il Signore!" (Giovanni, 20, 25) .
Quel vangelo era incominciato con la definizione di Gesù come Verbo che "era in principio", che "era al cospetto di Dio", "che era Dio" (Giovanni, 1, 1), o come "l'Unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre" (Giovanni, 1, 18); e terminava, dopo l'esperienza o la constatazione della sua storia, con lo stesso riconoscimento. D'altra parte, è dichiarato espressamente che era stato scritto per suscitare la fede in Gesù: "il Cristo, il Figlio di Dio" (Giovanni, 29, 31).
Ed è, in realtà, quanto vale per tutti i vangeli. Questi non sono stati scritti per narrare la vicenda di un semplice uomo, sia pure eccezionale per le sue doti o le sue imprese, ma per attestare la fede, storicamente fondata, in Gesù Figlio di Dio.
O anche: i vangeli nascono come attestazione e proclamazione di questa sorpresa, che attraversava e sosteneva la comunità di quanti erano diventati discepoli di Gesù non perché egli fosse un uomo eccezionale, ma alla fine perché egli era il Figlio di Dio fatto uomo.
Gli "avvenimenti" "trasmessi da quelli che ne furono testimoni oculari fin dal principio e divennero ministri della Parola" interessavano per la fede che avevano fondato e suscitato, ed è la ragione dello scrupolo storico di Luca, che a sua volta intende scriverne "un resoconto ordinato", "dopo ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi" (Luca, 1, 1-3). Quanto al vangelo di Marco incomincia con le parole: "Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio" (Marco, 1, 1).
Ma sembra che proprio questo aspetto che concerne in maniera unica Gesù di Nazaret, questo suo essere "veramente figlio di Dio" (cfr. Matteo, 27, 54), sia una verità che si sta in qualche modo annebbiando e quasi passando in secondo ordine, rispetto al riconoscimento di Gesù come vero uomo.
Ci sono teologi e biblisti che si ritengono scientifici, se fanno di tutto per creare difficoltà e intralci al riconoscimento della divinità di Gesù, che in realtà è quanto appare con luminosa chiarezza nella Scrittura neotestamentaria.
Certo, che Gesù sia "Dio da Dio", "Dio vero da Dio vero", il Figlio eternamente generato dal Padre, è una verità disorientante, anzitutto per la tradizione teologica ebraica, che difficilmente poteva sopportarla e non giudicarla una bestemmia; ma proprio per questo è sorprendente che il riconoscimento di Gesù Figlio di Dio sia avvenuto proprio dagli ebrei, a cominciare dai Dodici, che lo hanno veduto e udito (cfr. 1 Giovanni, 1, 1-3), che hanno mangiato e bevuto con lui (Atti, 10, 41) e sono vissuti con lui (cfr. Atti, 1, 21).
Non avrebbe procurato reazione né prodotto smarrimento una creatura particolarmente legata a Dio: un profeta, un messaggero divino, un mediatore scelto e da lui prediletto. La stessa storia di Israele ne aveva riconosciuti (Giovanni il Battista, Elia, Geremia) come appare dalla risposta di Pietro alla domanda di Gesù sul giudizio della gente riguardo alla sua identità (Matteo, 16, 13, 14).
Ma non appariva invece sopportabile ed equivaleva a una bestemmia la pretesa di un uomo, Gesù, che aveva a Nazaret il padre, la madre, i fratelli e le sorelle, di avere il potere di rimettere i peccati (Matteo, 9, 2-3), di identificarsi con "il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza" (Matteo, 26, 64). L'annunzio di Gesù quale Figlio di Dio, venuto nella carne, è il cuore della predicazione evangelica. Ed è, insieme, una verità non facile da conservare.
Assai presto sorge l'eresia che nega la consistenza dell'incarnazione; vi succede quella dell'arianesimo, che, a varie gradualità, misconosce che Gesù sia, nel senso pieno e rigoroso del termine, il Figlio di Dio. Gli ariani sono disposti a fare di Gesù l'elogio più alto, a riconoscerlo come creatura supremamente nobile, la prima che fosse uscita dalle mani di Dio. Appunto un uomo meraviglioso, perfetto, ma non un uomo veramente Dio.
Da qui si comprende l'importanza fondamentale del primo grande concilio ecumenico, quello di Nicea del 325. Leggendo la Scrittura nel suo preciso e integrale contenuto, con l'aiuto di categorie concettuali estranee alla cultura biblica ma a servizio della fede cristiana, Nicea definisce Gesù Cristo: "Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre": e fu la definizione che, dopo non poche peripezie e compromessi, anche per la difficoltà di trovarvi un linguaggio uniforme e adeguato, alla fine rifulse come espressione della fede cattolica, grazie ai grandi dottori e pastori della Chiesa, tra i quali ricordiamo Atanasio di Alessandria in Oriente, e Ambrogio in Occidente. Non si possono studiare le peripezie storiche e ripassare gli appassionati dibattiti linguistici di quel primo concilio, senza restare profondamente commossi e coinvolti; senza ammirare come prodigiosamente in quelle formule all'apparenza secche e levigate salisse ed emergesse il Vangelo, o come vi si inalveasse la stessa Parola di Dio, o la Rivelazione, che si riscontra in atto nella vita di Gesù di Nazaret, nelle sue azioni e predicazioni.
Abbiamo accennato ad Ambrogio: egli succedette inattesamente e contro sua voglia all'ariano o semiariano Aussenzio, ed avvertì subito che tutta la sua opera pastorale si sarebbe dovuta orientare a ricondurre i cristiani della Chiesa di Milano - non solo di Milano - alla pura fede di Nicea. Lo fece nella predicazione, negli scritti e negli inni. Egli avvertiva che senza la fede nicena tutto l'edificio cristiano sarebbe crollato, ravvisando, insieme, con estrema lucidità i molteplici riflessi in dottrina e prassi ecclesiale della verità di Gesù Figlio di Dio, nel senso più rigoroso del termine.
"Contro tutti gli eretici - scrive - sta questa professione della fede cattolica: "Cristo è Figlio di Dio, eterno dal Padre e nato dalla Vergine". Questa professione di fede (...) è il fondamento della Chiesa" (De incarnatione, V, 33. 35). Gerolamo, che non sempre fu tenero con Ambrogio, e per ragioni forse non del tutto edificanti, avrebbe scritto di lui: "Dopo la morte, che non arrivava mai, di Aussenzio, insediatosi Ambrogio come vescovo a Milano, tutta l'Italia viene ricondotta alla retta fede" (Chrònicon).
(©L'Osservatore Romano 25 dicembre 2011)
lunedì 26 dicembre 2011
Il Potere
di Don Enrico Bini
Il nodo cruciale delle vicende italiane degli ultimi mesi ha messo a nudo un problema aperto da sempre: il rapporto tra potere e democrazia.
San Paolo nella lettera ai romani aveva colto tutta l'importanza del problema, quando nel capitolo 13 scrisse: "Omnis Potestas a Deo". Non interessa qui interpretare il senso teologico dell'espressione, quanto di cogliere l’intuizione profonda dell'apostolo, che accomuna ogni tipo di potere sia divino sia umano nel suo carattere trascendente nei confronti della società. L'ideologia democratica aveva fatto credere di poter rovesciare questo rapporto a favore del controllo della società di ogni potere umano o religioso.
Esiste certo la libertà, ma questa rimane la libertà di potere di manipolare, di convincere e di guidare. Democrazia e potere stanno sempre in un rapporto asimmetrico, e mai totalmente coincidente. La sovranità popolare non sfiora minimamente i poteri forti della società.
Lo dimostra l'immenso potere dell'economia e del denaro. L'acquisizione del potere economico non è sottoposta alle regole della democrazia; per questo scriveva O.Spengler, la società civilizzata e decadente si presenta come la dittatura del denaro: "Lo spirito pensa, ma è il denaro a dirigere". La libertà nel liberalismo è funzionale all'acquisto di potere, che può condizionare interi popoli, senza tenere in alcun conto, la sovranità popolare.
Questo meccanismo, chiamato dal grande poeta E. Pound come usurocrazia, è l'autentico protagonista della storia dell'occidente, ed uno dei motivi del suo sviluppo. Questo evidentissimo esempio ricorda le parole del conte De Maistre che nel suo capolavoro "Du Pape" scrisse: ...il potere è come la sorgente del Nilo: non si riesce a trovare la sua origine". Sarà mai possibile invertire questo rapporto? Il marxismo che intendeva rendere sostanziale la democrazia formale borghese ha mostrato il suo limite proprio su questo terreno costruendo una mostruosa tirannia. L'inevitabile trascendenza del potere si può comprimere ma non abolire.
Queste sommarie riflessioni coinvolgono anche noi cristiani. Non basta la dottrina sociale, occorre una forte riflessione teologica sul potere. Questo parallelismo era stato delineato da Leone XIII, che insieme alla "Rerum Novarum" aveva scritto diverse encicliche sulla natura dello stato.
Nell'intenzione di quel papa vi sarebbe dovuto essere uno stretto collegamento tra entrambe. Invece ci si è lentamente dimenticato che non basta indicare i valori se non si illumina chi deve decidere. Decisione e democrazia stanno in un rapporto dialettico che nel corso della storia ha dato vita a molteplici forme.
Al cristiano spetta il compito profetico di far comprendere che ogni assolutizzazione finisce, come ha indicato Giovanni Paolo II nella "Veritas Splendor", per condurre verso il totalitarismo anti-cristiano e anti-umano.
Oltrefiume, n. 6, novembre 1993
sabato 24 dicembre 2011
Auguri di un Santo Natale
"Il Natale è la festa dell’Umiltà, della Povertà, della Spogliazione, dell’Abbassamento del Figlio di Dio, che viene a donarci il suo infinito Amore".
(Beato Giovanni Paolo II)
LA MESSA DI MEZZANOTTE
di dom Prosper Guéranger
È tempo, ora, di offrire il grande Sacrificio, e di chiamare l'Emmanuele: egli solo può soddisfare degnamente verso il Padre suo il debito di riconoscenza del genere umano. Sul nostro altare, come nel Presepio, egli intercederà per noi; ci avvicineremo a lui con amore, ed egli si donerà a noi.
Ma tale è la grandezza del Mistero di questo giorno, che la Chiesa non si limiterà ad offrire un solo Sacrificio. L'arrivo di un dono così prezioso e così lungamente atteso merita di essere riconosciuto con nuovi omaggi. Dio Padre da il proprio Figlio alla terra; lo Spirito d'amore opera questa meraviglia. È giusto che la terra ricambi alla gloriosa Trinità l'omaggio d'un tale Sacrificio [1].
Inoltre, Colui che nasce oggi non si è forse manifestato in tre Nascite? Egli nasce, questa notte, dalla Vergine benedetta; nascerà, con la sua grazia, nei cuori dei pastori che sono le primizie di tutta la cristianità; nascerà eternamente dal seno del Padre suo, nello splendore dei Santi: questa triplice nascita deve essere onorata con un triplice omaggio.
La prima Messa onora la Nascita secondo la carne. Le tre Nascite sono altrettante effusioni della luce divina; orbene, ecco l'ora in cui il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce, e in cui il giorno si è levato su quelli che abitavano nelle tenebre e nell'ombra di morte. Fuori del sacro tempio che ci raccoglie, la notte è profonda: notte materiale per la mancanza del sole; notte spirituale, a causa dei peccati degli uomini che dormono nella lontananza di Dio, o vegliano per il peccato. A Betlemme, attorno alla stalla e nella città, è buio; e gli uomini che non hanno trovato posto per l'ospite divino, riposano in una vile pace; ma non saranno risvegliati affatto dal concerto degli Angeli.
Ed ecco che a mezzanotte, la Vergine ha sentito che è giunto il momento supremo. Il suo cuore materno è d'un tratto inondato da delizie mai fino allora conosciute; si fonde nell'estasi dell'amore. D'improvviso, varcando con la sua onnipotenza le barriere del seno materno, come penetrerà un giorno la pietra del sepolcro, il Figlio di Dio, Figlio di Maria, appare disteso sul suolo sotto gli occhi della madre, verso la quale tende le braccia. Il raggio del sole non traversa più velocemente il puro cristallo che non potrebbe fermarlo. La Vergine Madre adora il Figlio divino che le sorride, non osa stringerselo al cuore, lo avvolge nelle fasce che ha preparate, lo pone nella mangiatoia. Il fedele Giuseppe adora insieme con lei; i santi Angeli, secondo la profezie di Davide, rendono i loro profondi omaggi al Creatore, in quel momento del suo ingresso sulla terra. Il cielo è aperto sopra la stalla, e i primi voti del Dio neonato salgono verso il Padre dei secoli; le sue prime grida, i suoi dolci vagiti giungono all'orecchio di Dio offeso, e preparano già la salvezza del mondo.
Nello stesso istante la bellezza del Sacrificio attira tutti gli sguardi dei fedeli verso l'altare. Il coro canta il cantico di entrata, l'Introito. È Dio stesso che parla; parla al suo Figliuolo che ha generato oggi. Invano le genti fremeranno nell'impazienza del suo giogo; questo bambino le domerà e regnerà perché è il Figlio di Dio.
Il Signore m'ha detto : Tu sei il mio Figliuolo ; oggi ti ho generato.
Il canto del Kyrie eleison fa da preludio all'Inno Angelico, che risuona presto con le sublimi parole: Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis! Uniamo le nostre voci e i nostri cuori all'ineffabile concerto della milizia celeste. Gloria a Dio, pace agli uomini! Gli Angeli, fratelli nostri, hanno intonato questo cantico; sono qui attorno all'altare, come attorno alla mangiatoia, e cantano la nostra felicità. Adorano la giustizia che non ha dato un redentore ai loro fratelli decaduti, e che ci manda per Liberatore il Figlio stesso di Dio. Glorificano l'abbassamento così pieno d'amore di colui che ha fatto l'Angelo e l'uomo, e che si china verso ciò che vi è di più debole. Ci prestano le loro voci per rendere grazie a Colui che, mediante un così dolce e così potente mistero, chiama noi, umili creature, a occupare un giorno nei cori angelici i posti lasciati vuoti dalla caduta degli spiriti ribelli. Angeli e mortali, Chiesa del cielo e Chiesa della terra, cantiamo la gloria di Dio, la pace data agli uomini; e più il Figlio dell'Eterno si umilia per recarci beni così celesti, più ardentemente dobbiamo cantare in una sola voce: Solus Sanctus, solus Dominus, solus Altissimus, Iesu Christe! - Solo Santo, solo Signore, solo Altissimo, Gesù Cristo!
EPISTOLA (Tt 2,11-15). - Carissimi: Apparve la grazia di Dio nostro Salvatore a tutti gli uomini, e ci ha insegnato a rinunziare all'empietà ed ai mondani desideri, per vivere con temperanza e giustizia e pietà in questo mondo, attendendo la beata speranza, la manifestazione gloriosa del gran Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, il quale diede se stesso per noi, affine di riscattare da ogni iniquità e purificarsi un popolo tutto suo, zelatore di opere buone. Così parla ed esorta in Gesù Cristo Signor nostro.
È dunque finalmente apparso, nella sua grazia e nella sua misericordia, il Dio Salvatore, il solo che potesse sottrarci alle opere della morte, e ridarci la vita. Egli si mostra a tutti gli uomini, in questo stesso istante, nell'angusto sito della mangiatoia, e sotto le fasce dell'infanzia. Eccola, la beatitudine che aspettavamo dalla visita di un Dio sulla terra. Purifichiamo i nostri cuori, rendiamoli accetti agli occhi suoi: perché se è un bambino, l'Apostolo ci ha detto or ora che è anche il gran Dio, il Signore la cui nascita eterna è prima di ogni tempo. Cantiamo la sua gloria con i santi Angeli e con la santa Chiesa.
VANGELO (Lc 2,1-14). - In quel tempo uscì un editto di Cesare Augusto, che ordinava il censimento di tutto l'impero. Questo primo censimento fu fatto mentre Cirino era preside della Siria. E andavano tutti a farsi scrivere, ciascuno alla sua città. Anche Giuseppe andò da Nazaret di Galilea alla città di David, chiamata Betlem, in Giudea, essendo della casa e della famiglia di David, a dare il nome con Maria sua sposa che era incinta. E avvenne che mentre quivi si trovavano, per lei si compì il tempo del parto; e partorì il Figlio suo primogenito, lo fasciò e lo pose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo. Or nelle vicinanze v'erano dei pastori che stavano desti a far la guardia notturna al loro gregge. Ed ecco presentarsi ad essi un Angelo del Signore, e la luce di Dio rifulse su di loro, e sbigottirono dal gran timore. Ma l'Angelo disse loro: Non temete, ecco vi reco l'annunzio di una grande allegrezza che sarà per tutto il popolo: Oggi, nella città di David, vi è nato il Salvatore, che è Cristo, il Signore. E lo riconoscerete da questo: troverete un bambino avvolto in fasce, a giacere in una mangiatoia. E subito si raccolse intorno all'Angelo una schiera della milizia celeste che lodava Dio, dicendo: Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà.
Anche noi, o divino Bambino, uniamo le nostre voci a quelle degli Angeli, e cantiamo: Gloria a Dio, pace agli uomini. L'ineffabile racconto della tua nascita ci intenerisce il cuore e ci strappa le lacrime. Ti abbiamo accompagnato nel viaggio da Nazareth a Betlemme, abbiamo seguito tutti i passi di Maria e Giuseppe, durante la strada che hanno percorsa; abbiamo vegliato in questa santa notte, aspettando l'istante beato che ti mostra ai nostri sguardi. Sii lodato, o Gesù, per tanta misericordia; sii amato, per tanto amore! I nostri occhi non possono distaccarsi dalla mangiatoia beata che racchiude la nostra salvezza. Ti ci abbiamo riconosciuto quale ti hanno descritto alle nostre speranze i santi Profeti, di cui la tua Chiesa ci ha posto nuovamente sotto gli occhi, questa notte stessa, i divini oracoli. Tu sei il gran Dio, il Re pacifico, lo Sposo celeste delle anime nostre; sei la nostra Pace, il nostro Salvatore, il nostro Pane di vita. Che cosa ti offriremo in quest'ora, se non quella buona volontà che ci raccomandano i tuoi santi Angeli? Formala dunque in noi; nutrila, affinché meritiamo di diventare tuoi fratelli per la grazia, come lo siamo ormai per la natura umana. Ma tu fai ancora di più in questo mistero, o Verbo incarnato! Ci rendi in esso - come dice il Tuo Apostolo - partecipi di quella natura divina che il tuo abbassamento non ti ha fatto perdere. Nell'ordine della creazione, ci hai posti al disotto degli Angeli; nella tua incarnazione, ci fai eredi di Dio, e coeredi tuoi. Che i nostri peccati e le nostre debolezze non ci facciano dunque scendere dalle altezze alle quali ci elevi oggi.
Dopo il Vangelo, la Chiesa canta piena di esultanza il glorioso Simbolo della fede, nel quale sono narrati tutti i misteri dell'Uomo-Dio. Alle parole: Et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine ET HOMO FACTUS EST, adorate profondamente il gran Dio che ha assunto la forma della sua creatura, e rendetegli con i vostri umili omaggi quella gloria di cui egli si è privato per voi. Nelle tre Messe di oggi, quando il coro è giunto a queste parole nel canto del Credo, il Sacerdote si alza dal seggio, e viene a render gloria, in ginocchio, ai piedi dell'altare. Unite in quell'istante le vostre adorazioni a quelle di tutta la Chiesa, rappresentata da colui che offre il Sacrificio.
PREGHIAMO
(Messa prima a mezzanotte). O Dio, che hai rischiarato questa sacratissima notte con gli splendori di Colui che è la vera luce, concedici di godere pienamente in cielo la luce che ora è velata nell'umanità di Cristo.
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[1] Il Sacramentario gelasiano e quello gregoriano fanno menzione delle tre messe di Natale. Ma all'inizio del V secolo, non vi era che una sola messa, quella del giorno, che si celebrava a S. Pietro. L'istituzione della messa di mezzanotte data dalla fine del V secolo.
da: dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - I. Avvento - Natale - Quaresima - Passione, trad. it. P. Graziani, Alba, 1959, p. 125-128
Il "Mistero di Natale" secondo Edith Stein
La nascita del Salvatore e la sua attualità
di Eric de Rus
“Il Natale è l’inizio di un’avventura che non è altro che quella della grazia nelle nostre vite”. Ad offrire ai lettori di ZENIT questa lettura del “Mistero di Natale” e della sua attualità oggi, alla scuola di Edith Stein, la santa carmelitana convertita dall’ebraismo, martirizzata ad Auschwitz nel 1942, è Eric de Rus, professore associato di Filosofia nell’insegnamento cattolico (a Rueil Malmaison, un comune nel dipartimento dell’Hauts-de-Seine). Lo scrittore ha pubblicato due raccolte di poesie nonché saggi dedicati al pensiero di Edith Stein e al suo metodo artistico.
Nel 1931, a Ludwigshafen (nel Land della Renania-Palatinato, in Germania), la filosofa cattolica Edith Stein pronunciò una conferenza sul tema del Mistero di Natale. Questa meditazione ci permette di sondare l’incredibile profondità del mistero della nascita del Salvatore e della sua attualità nelle nostre vite e per il mondo.
Edith Stein ci fa immediatamente contemplare il “Bambino che porta la pace sulla terra”. Ma attenzione: la stella che splende, in alto e pura nella notte di Natale, ci comunica che l’arrivo della Luce tra di noi non viene immediatamente accolto a causa dello spessore del peccato. Natale è il grande mistero dell’amore seminato nel buio, e finalmente vittorioso! “E’ una verità difficile e grave, che l’immagine poetica del Bambino nella mangiatoia non deve mascherare”.
Edith Stein decifra il bagliore della stella seguita dai pastori nella notte come una chiamata che deve aprire dolorosamente il suo cammino nei nostri cuori. Perché il Natale è già lo scrigno della chiamata del Salvatore, che i discepoli sentiranno risuonare: “Seguimi”. Aggiungendo: “Lo dice anche a noi, mettendoci davanti alla scelta tra la luce e l’oscurità”.
In altre parole, il Natale è l’inizio di un’avventura che non è altro che quella della grazia nelle nostre vite. Edith Stein aveva imparato alla scuola dei maestri del Carmelo, Teresa d’Avila e Giovanni della Croce in particolare, che la grazia si sviluppa in noi come un seme di vita che ci trasforma, facendoci partecipe della Vita stessa di Dio. Ed è proprio in Gesù che questo mistero si compie, Lui, di cui noi diventiamo, attraverso il battesimo, membra vive del suo Corpo che è la Chiesa.
Per questo motivo, il seguito della meditazione di Edith Stein insiste sui segni fondamentali di un’esistenza umana unita a Dio: l’amore caritatevole verso il prossimo, “che sia parente o no, che lo troviamo simpatico o no, che sia moralmente degno del nostro aiuto o no”, e la remissione della nostra volontà nelle mani del Padre. Fare la volontà di Dio è “mettere le nostre mani in quelle del Bambino divino” ad imitazione della Vergine Maria, di San Giuseppe e di tutti i santi. Nella sua contemplazione del Bambino-Dio, Edith Stein ci porta sui sentieri di una vera e propria configurazione a Cristo e al mistero della salvezza. Perché accogliere il Bambino-Dio è partecipare alla disposizione fondamentale del Cuore di Cristo tutto intero amorevolmente rimesso al Padre, come suo figlio tanto amato, in una fiducia “incrollabile”.
Di conseguenza, la sfida di Natale è quella di lasciare la grazia “penetrare di vita divina tutta la vita umana”. Questo presuppone di “essere ogni giorno in relazione con Dio” attraverso l’ascolto della sua parola, la preghiera liturgica ed interiore e la vita sacramentale. Alla scuola del Bambino-Dio, noi impariamo a vivere da “figlio di Dio” per “nascere all’immensità della vita di Cristo”. Questo è il “cammino aperto a tutti noi, a tutta l’umanità”.
In questa conferenza di Edith Stein, ritroviamo, ancora e sempre, l’insegnante e fenomenologa, che educa il nostro sguardo interiore. In questa sede si tratta di decifrare, sotto l’apparente insignificanza del presepe, le dimensioni di una chiamata immensa, cioè di partecipare alla “grande opera del Redentore”.
Se il Natale è la festa della gioia, è probabilmente perché la gioia è un movimento che ci tira fuori da noi stessi. La contemplazione di Gesù nella mangiatoia realizza precisamente questa uscita da noi stessi. Il meravigliarsi davanti alla bellezza nascosta del Salvatore ci libera da noi stessi e ci apre al mondo che aspetta che noi Lo annunciamo con le nostre vite, la “Luce Eterna, che è Amore e Vita”.
Edith Stein aveva un’amica molto stimata nella persona della poetessa e membro della resistenza tedesca, Gertrud von le Fort. In modo stupendo, la poetessa riassume la chiamata che il Natale fa, tintinnando nel cuore di ogni cristiano: “Cantatelo nell’attesa dell’alba, cantatelo dolcemente, dolcemente all’orecchio delle tenebre del mondo!”.
zenit 22 dicembre 2011
venerdì 23 dicembre 2011
I segni dei tempi
di Don Enrico Bini
Parlare dei segni dei tempi è divenuto un «luogo» classico della predicazione di oggi. Non c'è fedele che non abbia ascoltato in qualche circostanza, questa espressione che indica come la chiesa deve essere attenta ai fenomeni che per la loro frequenza distinguono un'epoca.
Questo termine «segno dei tempi» viene esplicitamente menzionato nei documenti conciliari, come la Gaudium et Spes, e ha incontrato una grande fortuna tanto da divenire una delle formule più significative del Concilio stesso. Per questo motivo, sono necessarie alcune precisazioni, dato che non è infrequente leggere o ascoltare delle interpretazioni, che non rendono pienamente il senso voluto dal magistero.
Una prima inesattezza consiste nel presumere che possa esistere una assimilazione tra l'uso voluto dal magistero del termine segno dei tempi, con il discorso di Gesù sul segno (Mt. 16, 1-3; Lc 11,29). Ben diversi sono i contesti attuali dal senso direttamente messianico ed escatologico dei brani evangelici. Tanto che durante lo stesso concilio gli esegeti rifiutarono un esplicito riferimento ai testi sopra indicati. Questo deve mettere in guardia dalle visioni di alcuni esaltati che cadono in facili ed isteriche utopie. Inoltre non si deve dimenticare che la storia del termine «segno dei tempi» è molto modesta sia nel magistero, sia nella teologia.
Perché si è fatto di questo termine un uso smodato, tanto da definirlo un sorta di «fissione nucleare dottrinale»? La risposta a questo interrogativo l'ho potuta trovare in un articolo di un famoso teologo contemporaneo, che qualche anno fa si è occupato della storia e del significato del termine in questione. In questo testo, si affermano delle posizioni assai singolari che meritano un commento. Infatti, si legge: «Il tempo deve esser considerato come un valore coessenziale che può modificare la vita dello spirito non soltanto nel suo meccanismo, ma nella sua sostanza». In questa frase è contenuta la filosofia di fondo di un uso errato della locuzione «segno dei tempi». Perché se il tempo modifica la vita dello spirito nella sua sostanza, la storia diviene la categoria che impone le proprie modificazioni a tutto.
Si giunge ad una vera e propria tirannia del tempo su ciò che è perenne. Il variare delle epoche non può modificare la sostanza dell'uomo, che è fondata su quell'ordine scritto dal Creatore nella natura e completato dalla grazia. L'enfasi di coloro che hanno voluto spingere la chiesa ad un aggiornamento che ha come premessa la concezione sopra descritta parte da una posizione poco convincente. Infatti, per questi l'aggiornamento non è il frutto della materna sollecitudine della chiesa, ma quasi necessariamente si impone a causa di una modificazione dell'epoca presente.
In questo equivoco si annida uno dei pericoli più grandi per molti cristiani di oggi, che credono più alla storia che allo spirito, più al mutevole che all'eterno. Più avanti il sullodato teologo afferma: «nella sua fede il cristiano si pone in ascolto del mondo moderno, accantonando ormai l'atteggiamento dottrinario e paternalistico di chi possiede per sé e per gli altri una risposta ad ogni problema». Questo significa che se la verità è nella storia, non esiste una possibilità originale da parte della chiesa di esprimere un giudizio che attinga la propria origine da verità a-temporali, quasi che la modernità si debba identificare con la verità. Si è perduto con questa affermazione tutto l’equilibrato insegnamento conciliare che invitava a discernere con attenzione i segni dei tempi alla luce della fede.
L'idolatria verso i segni del tempo ha condotto molti cattolici a «inginocchiarsi» direbbe Maritain, di fronte ai padroni del mondo vecchi e nuovi. Perché l'unica cosa necessaria è allinearsi a tutti i costi alle ideologie e alle mode che si succedono sulla scena della storia. Basti pensare all'esito dei cattolici liberali nel secolo scorso, e alle penose posizioni dei cattolici-comunisti. Si impone infine una considerazione, su come un termine usato correttamente dal magistero, sia divenuto uno strumento per sovvertire la stessa presenza della chiesa nel mondo, attraverso fuorvianti interpretazioni.
(Dicembre 1988)
Vaticano, a Natale canto gregoriano e preghiera latina
Benedetto XVI: la celebrazione Eucaristica solenne della notte prevede il canto della Kalenda l'ufficio delle letture a partire dalle 21
La messa della notte di Natale presieduta dal Papa nella basilica di San Pietro, il 24 dicembre a partire dalle 22, sarà preceduta, quest'anno, dalla preghiera dell'ufficio delle letture, così come prevede il messale romano, con inizio alle ore 21. Conclusa la preghiera dell'ufficio, è previsto il canto della kalenda. Lo rende noto una nota di monsignor Guido Marini, maestro delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice.
L'ufficio delle letture - come emerge dal libretto della messa della notte santa - è cantato in gregoriano. L'antico canto della "kalenda" proclama l'annuncio della nascita di Gesù come il centro del cosmo e della storia ("Trascorsi molti secoli dalla creazione del mondo...") e ne sottolinea il legame con la storia ebraica ("tredici secoli dopo l`uscita di Israele dall`Egitto sotto la guida di Mosè; circa mille anni dopo l`unzione di Davide quale re di Israele...").
vaticaninsider.it
giovedì 22 dicembre 2011
Il Papa: «La liturgia svela la verità del Natale»
di Massimo Introvigne
A pochi giorni dal Natale, Benedetto XVI ha interrotto nell'udienza generale del 21 dicembre la sua «scuola della preghiera» per riflettere sul vero senso della festa della Natività e sui rischi di una sua banalizzazione. «Facciamo in modo che, anche nella società attuale, lo scambio degli auguri non perda il suo profondo valore religioso, e la festa non venga assorbita dagli aspetti esteriori, che toccano le corde del cuore. Certamente, i segni esterni sono belli e importanti, purché non ci distolgano, ma piuttosto ci aiutino a vivere il Natale nel suo senso più vero, quello sacro e cristiano, in modo che anche la nostra gioia non sia superficiale, ma profonda».
La verità del Natale, ha detto il Papa, si trova nella liturgia. «Con la liturgia natalizia la Chiesa ci introduce nel grande Mistero dell’Incarnazione». Questo mistero, ha spiegato il Pontefice, riguarda il presente e non solo il passato. «Il Natale, infatti, non è un semplice anniversario della nascita di Gesù, è anche questo, ma è di più, è celebrare un Mistero che ha segnato e continua a segnare la storia dell’uomo - Dio stesso è venuto ad abitare in mezzo a noi (cfr Gv 1,14), si è fatto uno di noi -; un Mistero che interessa la nostra fede e la nostra esistenza; un Mistero che viviamo concretamente nelle celebrazioni liturgiche, in particolare nella Santa Messa».
Naturalmente per considerare il Natale un fatto di oggi, e non un semplice anniversario, occorre la fede. «Qualcuno potrebbe chiedersi: come è possibile che io viva adesso questo evento così lontano nel tempo? Come posso prendere parte fruttuosamente alla nascita del Figlio di Dio avvenuta più di duemila anni fa?». La risposta si trova, ancora, nella liturgia. «Nella Santa Messa della Notte di Natale, ripeteremo come ritornello al Salmo Responsoriale queste parole: "Oggi è nato per noi il Salvatore"». È molto importante, ha sottolineato il Papa, riflettere sul fatto che «questo avverbio di tempo, "oggi", ricorre più volte in tutte le celebrazioni natalizie». Questa insistenza ha un significato preciso. «Nella Liturgia tale avvenimento oltrepassa i limiti dello spazio e del tempo e diventa attuale, presente; il suo effetto perdura, pur nello scorrere dei giorni, degli anni e dei secoli».
Ricordandoci «che Gesù nasce "oggi", la Liturgia non usa una frase senza senso, ma sottolinea che questa Nascita investe e permea tutta la storia, rimane una realtà anche oggi alla quale possiamo arrivare proprio nella liturgia». Almeno per i credenti, «la celebrazione del Natale rinnova la certezza che Dio è realmente presente con noi, ancora "carne" e non solo lontano: pur essendo col Padre è vicino a noi. Dio, in quel Bambino nato a Betlemme, si è avvicinato all’uomo: noi Lo possiamo incontrare adesso, in un "oggi" che non ha tramonto».
Il Pontefice afferma di volere «insistere su questo punto, perché l’uomo contemporaneo, uomo del "sensibile", dello sperimentabile empiricamente, fa sempre più fatica ad aprire gli orizzonti ed entrare nel mondo di Dio». A quest'uomo contemporaneo va anzitutto ricordato che il Natale è un fatto, non una favola o un mito. «La redenzione dell’umanità avviene certo in un momento preciso e identificabile della storia: nell’evento di Gesù di Nazaret; ma Gesù è il Figlio di Dio, è Dio stesso, che non solo ha parlato all’uomo, gli ha mostrato segni mirabili, lo ha guidato lungo tutta una storia di salvezza, ma si è fatto uomo e rimane uomo. L’Eterno è entrato nei limiti del tempo e dello spazio, per rendere possibile "oggi" l’incontro con Lui».
Nello stesso tempo l'evento del Natale, senza nulla perdere della sua storicità, diventa parte integrante del tempo presente nella vita spirituale e nella liturgia. «I testi liturgici natalizi ci aiutano a capire che gli eventi della salvezza operata da Cristo sono sempre attuali, interessano ogni uomo e tutti gli uomini. Quando ascoltiamo o pronunciamo, nelle celebrazioni liturgiche, questo "oggi è nato per noi il Salvatore", non stiamo utilizzando una vuota espressione convenzionale, ma intendiamo che Dio ci offre "oggi", adesso, a me, ad ognuno di noi la possibilità di riconoscerlo e di accoglierlo, come fecero i pastori a Betlemme, perché Egli nasca anche nella nostra vita e la rinnovi, la illumini, la trasformi con la sua Grazia, con la sua Presenza». Così il Natale, rimanendo un fatto storico preciso, diventa «evento efficace per noi».
Se ci lasciamo guidare dalla liturgia, scopriamo anche un secondo aspetto essenziale del Natale: il suo legame con la Pasqua. La liturgia ci ripete che «l’evento di Betlemme deve essere considerato alla luce del Mistero Pasquale: l’uno e l’altro sono parte dell’unica opera redentrice di Cristo. L’Incarnazione e la nascita di Gesù ci invitano già ad indirizzare lo sguardo verso la sua morte e la sua risurrezione: Natale e Pasqua sono entrambe feste della redenzione. La Pasqua la celebra come vittoria sul peccato e sulla morte: segna il momento finale, quando la gloria dell’Uomo-Dio splende come la luce del giorno; il Natale la celebra come l’entrare di Dio nella storia facendosi uomo per riportare l’uomo a Dio: segna, per così dire, il momento iniziale, quando si intravede il chiarore dell’alba».
Perfino le stagioni aiutano a capire la liturgia. «Anche i due periodi dell’anno, in cui sono collocate le due grandi feste, almeno in alcune aree del mondo, possono aiutare a comprendere questo aspetto. Infatti, mentre la Pasqua cade all’inizio della primavera, quando il sole vince le dense e fredde nebbie e rinnova la faccia della terra, il Natale cade proprio all’inizio dell’inverno, quando la luce e il calore del sole non riescono a risvegliare la natura, avvolta dal freddo, sotto la cui coltre, però, pulsa la vita e comincia di nuovo la vittoria del sole e del calore».
Né si tratta solo di teologia e di simboli. «Nel Natale noi incontriamo la tenerezza e l’amore di Dio che si china sui nostri limiti, sulle nostre debolezze, sui nostri peccati e si abbassa fino a noi». Questa è la verità, storica e liturgica, della «grotta di Betlemme: Dio si abbassa fino ad essere adagiato in una mangiatoia, che è già preludio dell’abbassamento nell’ora della sua passione. Il culmine della storia di amore tra Dio è l’uomo passa attraverso la mangiatoia di Betlemme e il sepolcro di Gerusalemme».
A Natale, ha concluso il Papa, i buoni cattolici vanno a Messa, e sanno che l'essenziale della festa è «la celebrazione dell’Eucaristia, centro del Santo Natale; lì si rende presente in modo reale Gesù, vero Pane disceso dal cielo, vero Agnello sacrificato per la nostra salvezza». Solo ricordando che il suo centro è la Messa vivremo «un Natale veramente cristiano, in modo che anche gli scambi di auguri in quel giorno siano espressione della gioia di sapere che Dio ci è vicino e vuole percorrere con noi il cammino della vita».
La Bussola Quotidiana 21-12-2011
mercoledì 21 dicembre 2011
Il diavolo esiste. Ma nessuno ne parla
di Andrea Tornielli
21-12-2011
Può sembrare strano e fors’anche inopportuno parlare di un libro del genere sotto Natale, seppure in un Natale di crisi. E invece anche nel momento in cui celebriamo l’irruzione di Dio nella nostra storia, l’Onnipotente che si fa piccolo e fragile come ogni bambino, l’incarnazione del Figlio e la sua nascita nella grotta di Betlemme, non possiamo dimenticare la grande battaglia che è in atto. Quella tra il serpente e Maria, che gli schiaccerà definitivamente la testa.
Oggi il diavolo è scomparso del tutto dalla predicazione nelle nostre chiese, e finiamo spesso per ricordarlo soltanto quando gravi fatti di cronaca ci parlano dei suoi adoratori. Ma anche in quel caso non avvertiamo la sua minaccia come un pericolo che ci riguarda. A richiamarci alla drammaticità di quella minaccia è il libro L’azione del maligno. Come riconoscerla e liberarsene (Edizioni Fede e Cultura, pagg. 178, euro 10,50). L’agile volume, è stato scritto esto e altro ha scritto da padre Gabriele Amorth, l’esorcista italiano più conosciuto e più tradotto nel mondo. Il saggio contiene anche i contributi dottrinali di altri autori: don Gabriele Fabris, Presidente dell’Associazione Biblica Italiana; don Gustavo Sanchèz, esorcista; Tonino Cantelmi, Presidente dell’Associazione Psichiatri e Psicologi cattolici; Angela Musolesi, specializzata nel ministero di liberazione; Chiara Zanasi, antropologa.
Nel libro si cerca di dar risposta a queste domande: Dov’è il corpo fisico di Gesù? L’inferno è vuoto? I laici possono comandare alle legioni diaboliche? Lo yoga è consigliabile? «Mi preme molto ricordare – scrive don Amorth – che più del 90 per cento delle persone colpite dall’opera del maligno lo sono tramite un maleficio, che è stato fatto o a loro o a tutta la famiglia. Spesso è colpita tutta la famiglia. Cioè: la fattura viene fatta a un membro della famiglia, ma la finalità è di fare fallire la famiglia. Per dire: sto facendo da anni gli esorcismi a una famiglia di Livorno: hanno mali fisici, mali spirituali, e io li esorcizzo uno per uno. Stanno meglio, ma ancora non sono guariti del tutto». «Non è la caratteristica principale, ma accade spesso che un altro segno dell’opera del maligno è la sterilità. Il demonio vuole soprattutto la nostra sterilità spirituale, ma anche la nostra sterilità fisica. Esorcizzo da anni una infermiera di Arezzo. Aveva parecchi mali fisici: sta meglio, ma ne ha ancora, non è guarita del tutto. Però prima non poteva avere figli, adesso ne ha 4».
«Contro i pregiudizi sulla potenza del demonio – aggiunge il grande esorcista italiano – voglio dire che Gesù ha vinto il demonio. Contro i pregiudizi di chi dice che il demonio non esiste, che è solo nel pensiero dell’uomo, voglio dire che il demonio esiste e vuole la nostra sofferenza, vuole la nostra morte. Vuole che soffriamo le pene eterne e le pene qui: la droga, tanti incidenti, tanti fallimenti di aziende, sono procurati dal demonio. Contro i pregiudizi di chi dice che l’inferno è vuoto, dico che è Gesù stesso che ci mette in guardia, ed è molto preciso nel dirci che nell’inferno ci finisce chi si comporta contro la volontà di Dio. Contro i pregiudizi di chi pensa che la Chiesa dica che bisogna soffrire, dico che non è vero. La Chiesa non vuole che soffriamo, ma ci offre gli strumenti per accettare con rassegnazione la croce: le parole di Gesù e la fede in Lui. Se applicassimo le parole di Gesù ci sarebbe il paradiso in terra, perché con Gesù il regno di Dio è venuto tra di noi».
«Le sofferenze – scrive ancora padre Amorth – sono inevitabili nella vita, ma un cuore che si sforza di essere in comunione con Gesù affronta meglio le difficoltà. È stato tolto Cristo dalla vita della gente, è stato tolto Cristo come punto di riferimento: è questo il guaio dell’umanità».
La Bussola Quotidiana
La Tradizione fonte di vita per la Chiesa
Il giorno 9 dicembre 2011, p. Serafino M. Lanzetta ha tenuto una conferenza per la nostra "Associazione Madonna dell'umiltà" di Pistoia: "Tradizione: vita e giovinezza della Chiesa", nella Chiesa di S. Ignazio di Loyola. Riportiamo di seguito i punti centrali della conferenza.
1) La Chiesa vive della Tradizione e nella e con la Tradizione esprime se stessa. La Tradizione è l’atto del tradere del trasmettere, del consegnare. È una realtà dinamica. La Chiesa è innestata in questo mistero: «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi» (Gv 20,21). C’è una continuità della missio: dal Padre a Cristo, da Cristo ai 12 Apostoli e un’identità sacramentale del Cristo e dei suoi: «Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me» (Lc 10,16).
Cristo consegna agli uomini il suo Vangelo (orale) di salvezza, fino a consegnare se stesso sull’Altare della Croce. Tutto ciò che Cristo disse e fece, il suo Vangelo consegnato dalla sua bocca, la Chiesa lo riceve e lo trasmette. La Chiesa è depositaria del Vangelo, lo custodisce e lo ritrasmette fino ai confini del mondo e fino alla fine dei tempi. Anche quando il Vangelo, nella seconda metà degli anni 50 viene messo per iscritto, l’annuncio la trasmissione orale, il tramandare di bocca in bocca, di cuore in cuore, rimane sempre il metodo indispensabile dell’annuncio. Infatti, «la fede dipende dalla predicazione e la predicazione si attua per la parola di Cristo» (Rom 10,17).
2) Dirà S. Paolo ai Corinzi, mettendo in luce una chiara accezione eucaristica della Tradizione: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”» (1Cor 11,23-24).
3) Tradizione sia nella sua accezione greca del paradìdomi, sia in quella latina del tradere, indica ad un tempo l’atto del trasmettere e la cosa trasmessa: l’actus tradendi e l’obiectum traditum (materiale e formale).
4) Purtroppo il concetto di Traditio, è divenuto oggi fortemente equivoco. La ragione fondamentale consiste nell’aver scambiato tale concetto teologico con un concetto politico. Quando nasce la diatriba attorno al tradizionalismo e ai tradizionalisti, fautori di un passivo ritorno al passato? In Concilio e soprattutto nel post-concilio. La destra e la sinistra hegeliane oggi, mentre a livello politico sembrano non dipingere più due schieramenti diametralmente opposti, si ritrovano con nuovi panni nella Chiesa, tra i progressisti da un lato e i tradizionalisti dall’altro.
5) La Tradizione non è una nostalgia del passato, né un mero andare indietro nel tempo, ma un rimanere stabili nella verità di Cristo. Se la Chiesa smarrisce la sua Tradizione smarrisce se stessa. Oggi la Chiesa ha smarrito se stessa, ha in un certo modo perso la sua indentità – noi abbiamo perso la nostra identità cattolica – perché abbiamo smarrito la Tradizione.
6) Non c’è però una Tradizione accanto alla Chiesa, oltre la Chiesa o fuori della Chiesa. La Tradizione è l’essere della Chiesa, la sua vita, la sua possibilità di essere sempre se stessa.
7) La Tradizione si è offuscata poiché purtroppo il metro della verità è divenuto il tempo. Siamo caduti nell’eresia della cronolatria. Adoriamo il tempo. Per noi è vero ciò che è attuale e non ciò che è conforme alla realtà. In realtà, il metro della verità non deve essere il tempo ma la santità: questa sola è quella giusta armonia tra il passato, il presente e il futuro. Principiando dal passato, si vive il presente, guardando al futuro.
8) I due nemici della Tradizione: l’archeologismo e il mondo (nella sua accezione di “tentacolo”).
9) Bisogna recuperare il canone della fede cattolica, ovvero la sua misura, la sua identità, la sua Tradizione, che in verità promana dall’eterna deità della Santa Trinità, ci raggiunge nel tempo, ci afferra per riportarci in alto, nella dimensione senza più dimensioni, in Dio.
1) La Chiesa vive della Tradizione e nella e con la Tradizione esprime se stessa. La Tradizione è l’atto del tradere del trasmettere, del consegnare. È una realtà dinamica. La Chiesa è innestata in questo mistero: «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi» (Gv 20,21). C’è una continuità della missio: dal Padre a Cristo, da Cristo ai 12 Apostoli e un’identità sacramentale del Cristo e dei suoi: «Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me» (Lc 10,16).
Cristo consegna agli uomini il suo Vangelo (orale) di salvezza, fino a consegnare se stesso sull’Altare della Croce. Tutto ciò che Cristo disse e fece, il suo Vangelo consegnato dalla sua bocca, la Chiesa lo riceve e lo trasmette. La Chiesa è depositaria del Vangelo, lo custodisce e lo ritrasmette fino ai confini del mondo e fino alla fine dei tempi. Anche quando il Vangelo, nella seconda metà degli anni 50 viene messo per iscritto, l’annuncio la trasmissione orale, il tramandare di bocca in bocca, di cuore in cuore, rimane sempre il metodo indispensabile dell’annuncio. Infatti, «la fede dipende dalla predicazione e la predicazione si attua per la parola di Cristo» (Rom 10,17).
2) Dirà S. Paolo ai Corinzi, mettendo in luce una chiara accezione eucaristica della Tradizione: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”» (1Cor 11,23-24).
3) Tradizione sia nella sua accezione greca del paradìdomi, sia in quella latina del tradere, indica ad un tempo l’atto del trasmettere e la cosa trasmessa: l’actus tradendi e l’obiectum traditum (materiale e formale).
4) Purtroppo il concetto di Traditio, è divenuto oggi fortemente equivoco. La ragione fondamentale consiste nell’aver scambiato tale concetto teologico con un concetto politico. Quando nasce la diatriba attorno al tradizionalismo e ai tradizionalisti, fautori di un passivo ritorno al passato? In Concilio e soprattutto nel post-concilio. La destra e la sinistra hegeliane oggi, mentre a livello politico sembrano non dipingere più due schieramenti diametralmente opposti, si ritrovano con nuovi panni nella Chiesa, tra i progressisti da un lato e i tradizionalisti dall’altro.
5) La Tradizione non è una nostalgia del passato, né un mero andare indietro nel tempo, ma un rimanere stabili nella verità di Cristo. Se la Chiesa smarrisce la sua Tradizione smarrisce se stessa. Oggi la Chiesa ha smarrito se stessa, ha in un certo modo perso la sua indentità – noi abbiamo perso la nostra identità cattolica – perché abbiamo smarrito la Tradizione.
6) Non c’è però una Tradizione accanto alla Chiesa, oltre la Chiesa o fuori della Chiesa. La Tradizione è l’essere della Chiesa, la sua vita, la sua possibilità di essere sempre se stessa.
7) La Tradizione si è offuscata poiché purtroppo il metro della verità è divenuto il tempo. Siamo caduti nell’eresia della cronolatria. Adoriamo il tempo. Per noi è vero ciò che è attuale e non ciò che è conforme alla realtà. In realtà, il metro della verità non deve essere il tempo ma la santità: questa sola è quella giusta armonia tra il passato, il presente e il futuro. Principiando dal passato, si vive il presente, guardando al futuro.
8) I due nemici della Tradizione: l’archeologismo e il mondo (nella sua accezione di “tentacolo”).
9) Bisogna recuperare il canone della fede cattolica, ovvero la sua misura, la sua identità, la sua Tradizione, che in verità promana dall’eterna deità della Santa Trinità, ci raggiunge nel tempo, ci afferra per riportarci in alto, nella dimensione senza più dimensioni, in Dio.
.....avevan ragione Dionigi e la Tradizione (e torto biblisti e liturgisti)
La vera data di nascita di Gesù
Nell'avvicinarsi del Natale, riproponiamo un post sulla vera data della nascita di Gesù :
E’ da tempo ormai che viene fatta passare una interpretazione che metterebbe in dubbio la nascita di Gesù il 25 dicembre del 1° d.C.
Infatti si sente dire che essendo morto Erode il Grande il 4 a.C., siccome costui è legato alla nascita di Gesù per il fatto della strage degli innocenti, allora Gesù non sarebbe potuto che nascere il 6 o 7 avanti Cristo.
Ebbene questa interpretazione è falsa e Gesù è in realtà nato proprio nel dicembre del 1° d.C, così come tramandato dalla tradizione.
Vediamo infatti di mettere le due tesi a confronto.
La prima tesi, sostenuta dall’Ottocento in avanti, pone la nascita di Gesù al 7 a.C., in base ad un calcolo previo che contempla la morte di Erode il Grande nel 4 a.C., nonché della congiunzione, proprio in quell’anno, dei pianeti Giove e Saturno, fenomeno astronomico ritenuto all’origine della stella vista dai Magi.
La seconda, invece, già indicata dal monaco Dionigi il Piccolo nel VI secolo, e tornata in auge da una decina d’anni, in particolare per gli studi di Giorgio Fedalto, grazie all’uso dei risultati dell’U.S. Naval Observatory di Washington, che pone la nascita di Gesù nel 1° anno della cosiddetta Era volgare.
È utile sottolineare che per i sostenitori della prima ipotesi Gesù vive dal 7 a.C. al 30 d.C., quindi per 37 anni; per la seconda, dal 1 a.C. al 33 d.C., per 33 anni.
La seconda ipotesi , cioè che Gesù è nato il 1° d.C. , nell’anno 36° di Erode, nell’anno 42° di Augusto, nel 3°dell’olimpiade 194ª è praticamente ormai scientificamente incontestabile.
Come sostenere, però, la nascita di Gesù nel 1° d.C. se Erode muore nel 4 a.C.?
Secondo lo stesso Giuseppe Flavio, Erode compiva 15 anni quando Ircano era giunto al nono anno dalla sua nomina, da quando Pompeo l’aveva ordinato Sommo sacerdote a Gerusalemme. Sappiamo che Erode morì a 71 anni circa, quindi nel 2 o 3 d.C. - esattamente 55 anni dopo il 54 a.C. - e non quindi nel 4 a.C., come comunemente ancora si sente ripetere. Tra l’altro l’eclissi a cui fa riferimento Giuseppe Flavio, come evento legato alla morte di Erode, si è verificata sia nel 4 a.C. che nel 3 d.C. Va a questo punto osservato, ai fini dei calcoli, che l’anno zero è stato introdotto molti secoli dopo lo stesso calendario preparato dal monaco scita Dionigi, fino ad allora computando, senza soluzione di continuità, dall’1 a.C. all’ 1d.C.
In più, va aggiunto, che le reggenze dei figli di Erode eccedono di tre anni le rispettive date di abdicazione o di morte: Archelao è cacciato dalla Giudea nel 7 d.C. dopo 10 anni di reggenza; Filippo muore nel 34 d.C. dopo 37 anni di reggenza e Antipa muore nel 40 d.C. dopo 43 anni di regno. Fatto che induce a sostenere un periodo di almeno tre anni di co-reggenza del padre con i figli. In tal modo bisogna posticipare al 2 o 3 d.C. la data di morte di Erode, perché quella del 4 a.C. è in realtà la data del testamento con cui suddivide il regno tra i tre figli.
Alla luce di quanto abbiamo detto, si può ritenere fondatamente che Gesù nacque nel 1 d.C. e che Erode morì tra il 2 e il 3 d.C., confermando la tradizione delle Chiese orientali registrata dai calendari giuliani e gregoriano
Inoltre è nato il 25 dicembre, infatti:
Dionigi recepì la data del 25 dicembre che non era stata introdotta arbitrariamente dalle Chiese cristiane. Secondo Tertulliano Gesù sarebbe nato nel 752 di Roma, 41° anno dell’impero di Augusto. I moderni strumenti di indagine permettono di collegare i dati con gli elementi astronomici che ne garantiscono la sicurezza; si superano così i contrasti tra mondo ebraico e cultura cristiana che possono aver condizionato gli storici. La cronologia può essere ricostruita, come ha fatto l’insigne storico Giorgio Fedalto, comparando tavole cronologiche differenti (cfr. Storia e metastoria del cristianesimo. Questioni dibattute, Verona 2006, pp 39-58 e Carsten Peter Thiede, La nascita del cristianesimo, Milano 1999, pp 267-322).
Anche sugli annunci che precedono la nascita di Gesù possiamo fare alcune considerazioni. Luca, intendendo inquadrare storicamente Gesù e la sua venuta, fornisce un’altra coordinata: comincia il suo vangelo riportando una tradizione giudeo-cristiana gerosolimitana, un fatto apparentemente marginale ma storicamente verificabile dai suoi contemporanei, ancor prima del 70 d.C. Secondo l’evangelista, l’angelo Gabriele aveva annunziato al sacerdote Zaccaria, mentre “esercitava sacerdotalmente nel turno (taxis) del suo ordine (ephemeria)” (1,8), quello di Abia (1,5) che la sua sposa Elisabetta avrebbe concepito un figlio. Luca rimanda pertanto ad una rotazione disposta da David (1Cr 24,1-7.19): le 24 classi si avvicendavano in ordine immutabile nel servizio al tempio da sabato a sabato, due volte l’anno. Questo era noto tra i giudei e almeno in ambiente giudeo-cristiano. Il turno di Abia, prescritto per due volte l’anno, cadeva dall’8 al 14 del terzo mese del calendario (lunare) ebraico e dal 24 al 30 dell’ottavo mese (cfr Shemarjahu Talmon, The Calendar Reckoning of the sect from the Judean Desert. Aspects of the Dead Sea Scrolls, in Scripta Hierosolymitana, vol IV, Jerusalem 1958, pp 162-199 e Antonio Ammassari, Alle origini del calendario natalizio, in Euntes Docete, 45, 1992, pp 11-16). Questa seconda volta, secondo il calendario solare corrisponde all’ultima decade di settembre.
In tal modo è storica anche la data della nascita del Battista (Lc 1,57-66) corrispondente al 24 giugno, nove mesi dopo. Così anche l’annuncio a Maria “nel sesto mese” (1,28) dalla concezione di Elisabetta, corrispondente al 25 marzo. Ultima conseguenza è dunque storica la data del 25 dicembre, nove mesi dopo.
Invece, soprattutto nella seconda metà del secolo scorso, si divulgò da parte di liturgisti l’idea che il 25 dicembre fosse una data convenzionale, scelta dai cristiani di Roma per sostituire il Natale del Sole invincibile, cioè una festa del dio Mitra o dell’imperatore, che cadeva intorno al solstizio invernale. In realtà, soprattutto dopo l’editto di Costantino, la Chiesa avrebbe potuto pure essere mossa dal desiderio di valorizzare qualche festa del paganesimo decadente, ma non inventare di sana pianta una data così centrale. Si pensi che nel rito bizantino la data dell’Annunciazione abolisce la domenica e il giovedì santo, e se coincide con la Pasqua si canta metà canone, la composizione poetica propria delle due feste. Dunque, la memoria ininterrotta fu sanzionata con la liturgia, ma il Vangelo di Luca con i suoi accenni a luoghi, date e persone vi ha contribuito in modo fondamentale.
Quindi la festa cristiana del Natale non ha la sua origine storica in Roma ma in Terra Santa: nella seconda metà del IV secolo Egeria racconta che a Gerusalemme si celebrava il 6 gennaio. Si può supporre che tale data, oggi l’Epifania - attestata per quanto si sa in Alessandria nell’ambiente gnostico di Basilide - sia rimasta festa del Natale nei calendari bizantini fino al 1583, data della riforma gregoriana, in seguito alla quale il calendario giuliano è in ritardo di 13 giorni rispetto al gregoriano.
Con ciò non si vuol dire che tutto sia chiarito, però “Le vecchie ipotesi, secondo cui il 25 dicembre era stato scelto a Roma in polemica con il culto mitraico o anche come risposta cristiana al culto del sole invitto, che era stato promosso dagli imperatori romani nel corso del terzo secolo come tentativo di stabilire una nuova religione di stato, oggi non paiono più sostenibili” (J.Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, Ed. San Paolo, Cinisello B. 2001, p 104).
(Le notizie e i brani citati sono tratti per intero dagli articoli "Le date del Natale e dell'Epifania" e "Le date del Natale: Dionigi non ha sbagliato" di don Nicola Bux e don Salvatore Vitiello pubblicate su Fides e Forma e dal saggio "Il 25 dicembre è data storica" del prof. Tommaso Federici, tutti reperibili in rete).
tratto da: http://mi-chael.blogspot.com/2010/12/la-vera-data-di-nascita-di-gesu.html
Nell'avvicinarsi del Natale, riproponiamo un post sulla vera data della nascita di Gesù :
E’ da tempo ormai che viene fatta passare una interpretazione che metterebbe in dubbio la nascita di Gesù il 25 dicembre del 1° d.C.
Infatti si sente dire che essendo morto Erode il Grande il 4 a.C., siccome costui è legato alla nascita di Gesù per il fatto della strage degli innocenti, allora Gesù non sarebbe potuto che nascere il 6 o 7 avanti Cristo.
Ebbene questa interpretazione è falsa e Gesù è in realtà nato proprio nel dicembre del 1° d.C, così come tramandato dalla tradizione.
Vediamo infatti di mettere le due tesi a confronto.
La prima tesi, sostenuta dall’Ottocento in avanti, pone la nascita di Gesù al 7 a.C., in base ad un calcolo previo che contempla la morte di Erode il Grande nel 4 a.C., nonché della congiunzione, proprio in quell’anno, dei pianeti Giove e Saturno, fenomeno astronomico ritenuto all’origine della stella vista dai Magi.
La seconda, invece, già indicata dal monaco Dionigi il Piccolo nel VI secolo, e tornata in auge da una decina d’anni, in particolare per gli studi di Giorgio Fedalto, grazie all’uso dei risultati dell’U.S. Naval Observatory di Washington, che pone la nascita di Gesù nel 1° anno della cosiddetta Era volgare.
È utile sottolineare che per i sostenitori della prima ipotesi Gesù vive dal 7 a.C. al 30 d.C., quindi per 37 anni; per la seconda, dal 1 a.C. al 33 d.C., per 33 anni.
La seconda ipotesi , cioè che Gesù è nato il 1° d.C. , nell’anno 36° di Erode, nell’anno 42° di Augusto, nel 3°dell’olimpiade 194ª è praticamente ormai scientificamente incontestabile.
Come sostenere, però, la nascita di Gesù nel 1° d.C. se Erode muore nel 4 a.C.?
Secondo lo stesso Giuseppe Flavio, Erode compiva 15 anni quando Ircano era giunto al nono anno dalla sua nomina, da quando Pompeo l’aveva ordinato Sommo sacerdote a Gerusalemme. Sappiamo che Erode morì a 71 anni circa, quindi nel 2 o 3 d.C. - esattamente 55 anni dopo il 54 a.C. - e non quindi nel 4 a.C., come comunemente ancora si sente ripetere. Tra l’altro l’eclissi a cui fa riferimento Giuseppe Flavio, come evento legato alla morte di Erode, si è verificata sia nel 4 a.C. che nel 3 d.C. Va a questo punto osservato, ai fini dei calcoli, che l’anno zero è stato introdotto molti secoli dopo lo stesso calendario preparato dal monaco scita Dionigi, fino ad allora computando, senza soluzione di continuità, dall’1 a.C. all’ 1d.C.
In più, va aggiunto, che le reggenze dei figli di Erode eccedono di tre anni le rispettive date di abdicazione o di morte: Archelao è cacciato dalla Giudea nel 7 d.C. dopo 10 anni di reggenza; Filippo muore nel 34 d.C. dopo 37 anni di reggenza e Antipa muore nel 40 d.C. dopo 43 anni di regno. Fatto che induce a sostenere un periodo di almeno tre anni di co-reggenza del padre con i figli. In tal modo bisogna posticipare al 2 o 3 d.C. la data di morte di Erode, perché quella del 4 a.C. è in realtà la data del testamento con cui suddivide il regno tra i tre figli.
Alla luce di quanto abbiamo detto, si può ritenere fondatamente che Gesù nacque nel 1 d.C. e che Erode morì tra il 2 e il 3 d.C., confermando la tradizione delle Chiese orientali registrata dai calendari giuliani e gregoriano
Inoltre è nato il 25 dicembre, infatti:
Dionigi recepì la data del 25 dicembre che non era stata introdotta arbitrariamente dalle Chiese cristiane. Secondo Tertulliano Gesù sarebbe nato nel 752 di Roma, 41° anno dell’impero di Augusto. I moderni strumenti di indagine permettono di collegare i dati con gli elementi astronomici che ne garantiscono la sicurezza; si superano così i contrasti tra mondo ebraico e cultura cristiana che possono aver condizionato gli storici. La cronologia può essere ricostruita, come ha fatto l’insigne storico Giorgio Fedalto, comparando tavole cronologiche differenti (cfr. Storia e metastoria del cristianesimo. Questioni dibattute, Verona 2006, pp 39-58 e Carsten Peter Thiede, La nascita del cristianesimo, Milano 1999, pp 267-322).
Anche sugli annunci che precedono la nascita di Gesù possiamo fare alcune considerazioni. Luca, intendendo inquadrare storicamente Gesù e la sua venuta, fornisce un’altra coordinata: comincia il suo vangelo riportando una tradizione giudeo-cristiana gerosolimitana, un fatto apparentemente marginale ma storicamente verificabile dai suoi contemporanei, ancor prima del 70 d.C. Secondo l’evangelista, l’angelo Gabriele aveva annunziato al sacerdote Zaccaria, mentre “esercitava sacerdotalmente nel turno (taxis) del suo ordine (ephemeria)” (1,8), quello di Abia (1,5) che la sua sposa Elisabetta avrebbe concepito un figlio. Luca rimanda pertanto ad una rotazione disposta da David (1Cr 24,1-7.19): le 24 classi si avvicendavano in ordine immutabile nel servizio al tempio da sabato a sabato, due volte l’anno. Questo era noto tra i giudei e almeno in ambiente giudeo-cristiano. Il turno di Abia, prescritto per due volte l’anno, cadeva dall’8 al 14 del terzo mese del calendario (lunare) ebraico e dal 24 al 30 dell’ottavo mese (cfr Shemarjahu Talmon, The Calendar Reckoning of the sect from the Judean Desert. Aspects of the Dead Sea Scrolls, in Scripta Hierosolymitana, vol IV, Jerusalem 1958, pp 162-199 e Antonio Ammassari, Alle origini del calendario natalizio, in Euntes Docete, 45, 1992, pp 11-16). Questa seconda volta, secondo il calendario solare corrisponde all’ultima decade di settembre.
In tal modo è storica anche la data della nascita del Battista (Lc 1,57-66) corrispondente al 24 giugno, nove mesi dopo. Così anche l’annuncio a Maria “nel sesto mese” (1,28) dalla concezione di Elisabetta, corrispondente al 25 marzo. Ultima conseguenza è dunque storica la data del 25 dicembre, nove mesi dopo.
Invece, soprattutto nella seconda metà del secolo scorso, si divulgò da parte di liturgisti l’idea che il 25 dicembre fosse una data convenzionale, scelta dai cristiani di Roma per sostituire il Natale del Sole invincibile, cioè una festa del dio Mitra o dell’imperatore, che cadeva intorno al solstizio invernale. In realtà, soprattutto dopo l’editto di Costantino, la Chiesa avrebbe potuto pure essere mossa dal desiderio di valorizzare qualche festa del paganesimo decadente, ma non inventare di sana pianta una data così centrale. Si pensi che nel rito bizantino la data dell’Annunciazione abolisce la domenica e il giovedì santo, e se coincide con la Pasqua si canta metà canone, la composizione poetica propria delle due feste. Dunque, la memoria ininterrotta fu sanzionata con la liturgia, ma il Vangelo di Luca con i suoi accenni a luoghi, date e persone vi ha contribuito in modo fondamentale.
Quindi la festa cristiana del Natale non ha la sua origine storica in Roma ma in Terra Santa: nella seconda metà del IV secolo Egeria racconta che a Gerusalemme si celebrava il 6 gennaio. Si può supporre che tale data, oggi l’Epifania - attestata per quanto si sa in Alessandria nell’ambiente gnostico di Basilide - sia rimasta festa del Natale nei calendari bizantini fino al 1583, data della riforma gregoriana, in seguito alla quale il calendario giuliano è in ritardo di 13 giorni rispetto al gregoriano.
Con ciò non si vuol dire che tutto sia chiarito, però “Le vecchie ipotesi, secondo cui il 25 dicembre era stato scelto a Roma in polemica con il culto mitraico o anche come risposta cristiana al culto del sole invitto, che era stato promosso dagli imperatori romani nel corso del terzo secolo come tentativo di stabilire una nuova religione di stato, oggi non paiono più sostenibili” (J.Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, Ed. San Paolo, Cinisello B. 2001, p 104).
(Le notizie e i brani citati sono tratti per intero dagli articoli "Le date del Natale e dell'Epifania" e "Le date del Natale: Dionigi non ha sbagliato" di don Nicola Bux e don Salvatore Vitiello pubblicate su Fides e Forma e dal saggio "Il 25 dicembre è data storica" del prof. Tommaso Federici, tutti reperibili in rete).
tratto da: http://mi-chael.blogspot.com/2010/12/la-vera-data-di-nascita-di-gesu.html
http://unafides33.blogspot.com/
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