Prima parte
Introduzione al Padre nostro
Tra tutte le preghiere la più eccellente è certamente quella del “Signore”, o “Padre nostro”.
Essa possiede in sommo grado i cinque requisiti che ogni preghiera ben fatta deve avere: essere cioè sicura, retta, ordinata, devota e umile.
1. È sicura
La preghiera, infatti, deve darci la sicurezza di poterci accostare “con piena fiducia al trono della grazia” (Eb 4,16), e “con fede, senza esitare”, perché, come dice S. Giacomo, “non pensi di ricevere qualcosa dal Signore un uomo che ha l'animo oscillante e instabile” (Gc 1,6 7).
Ebbene, questa preghiera dà senz’altro molta fiducia perché è stata composta dal nostro Avvocato presso il Signore, l'Intercessore sapientissimo “nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza” (Col 2, 3) e del quale si dice: “Abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1 Gv 2,1 2). Giustamente S. Cipriano dice: “Avendo come avvocato dinnanzi al Padre il Cristo, che è difensore per i nostri peccati, lasciamo parlare il nostro Avvocato”.
La sicurezza diventa ancora più grande e la nostra fiducia viene poi ulteriormente incoraggiata se si pensa a questo: che colui che ci ha insegnato questa preghiera, è lo stesso che, insieme al Padre, ha il compito di esaudirla, adempiendo quanto è detto nel salmo 91,15: “Mi invocherà e gli darò risposta”.
Per questo San Cipriano dice: “E una preghiera da amico e di familiare quella con la quale preghiamo Dio usando le sue stesse parole”.
E indubbiamente è questa la ragione per cui questa preghiera non si recita mai senza frutto, sicché essa ci ottiene tra l'altro, come dice S. Agostino, anche la remissione dei peccati veniali.
2. È retta
Ogni preghiera deve essere retta. Infatti ogni persona che prega deve chiedere a Dio le grazie che sono un bene per lui. San Giovanni Damasceno insegna che la preghiera è una “una richiesta a Dio di cose che sono un bene per noi”.
Ecco perché molte volte la preghiera non viene esaudita: perché vengono chieste cose che non sono un bene per noi, come dice S. Giacomo: “Chiedete e non ottenete perché chiedete male” (Gc 4,3).
Sapere che cosa chiedere è difficilissimo, perché è difficilissimo conoscere quali siano i veri beni da desiderare. Si chiede infatti lecitamente nella preghiera solo quello che è lecito desiderare. Lo rilevava già S. Paolo quando scriveva ai Romani: “Nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare” (Rm 8,26).
Il Cristo però, che è nostro Maestro, ci ha personalmente insegnato quello che dobbiamo chiedere quando i discepoli gli chiesero: “Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11,1). Perciò la nostra preghiera è rettissima quando chiediamo al Signore le cose che lui stesso ci ha insegnato a chiedere. Insegna in proposito S. Agostino: “Se vogliamo pregare in modo retto e conveniente, qualunque sia la parola che usiamo, dobbiamo chiedere solo ciò che è contenuto nella Preghiera del Signore”.
3. È ordinata
La preghiera deve essere ordinata, così come ordinato dev’essere il desiderio. Infatti la preghiera è interprete del desiderio.
Ebbene: il giusto ordine vuole che tanto nel desiderare come nel chiedere preferiamo i beni spirituali a quelli materiali e i beni del cielo a quelle della terra. Il Signore infatti ci ha ammonito: “Cercate innanzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta” (Mt 6,33). E questo ordine appunto il Signore ci ha insegnato ad osservare nella sua preghiera, nella quale ci fa domandare prima i beni celesti e poi quelli terreni.
4. È devota
La preghiera deve essere anche devota, perché l'abbondanza della devozione rende il sacrificio dell'orazione accetto a Dio, secondo quanto dice il salmista: “Nel tuo nome alzerò le mie mani; mi sazierò come a lauto convito, e con voci di gioia ti loderà la mia bocca” (Sal 63,5 6).
La devozione si stempera se la preghiera è prolissa. Per questo il Signore stesso ci ha comandato di evitare lungaggini. Pregando non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole” (Mt 6,7). S. Agostino, scrivendo a Proba, le dà il seguente avvertimento: “Lungi dalla preghiera le molte parole. Non manchi però il molto supplicare finché dura il fervore”. Ecco perché il Signore ha voluto che questa preghiera fosse breve.
La devozione, poi, sgorga dalla carità, e cioè dall'amore di Dio e del prossimo. E questi due amori vengono raccomandati nella preghiera del Pater.
L'amore di Dio viene stimolato quando, rivolti a Lui, lo chiamiamo “Padre”.
L’amore del prossimo invece viene stimolato quando, in comunione con tutti, preghiamo per tutti dicendo al plurale: “Padre nostro”. E “rimetti a noi i nostri debiti”. L’amore del prossimo infatti conduce a questo.
5. È umile
Da ultimo, la preghiera deve essere umile perché Dio “si volge alla preghiera dell'umile e non disprezza la sua supplica” (Sal 102,18). Vedi anche la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,10 14) e la preghiera di Giuditta: “Tu sei il Dio degli umili, sei il soccorritore dei derelitti” (Gdt 9,11).
E questa umiltà viene osservata nel Padrenostro. Infatti si ha vera umiltà quando uno non presume assolutamente nelle proprie forze, ma aspetta tutto dalla potenza divina alla quale si rivolge supplichevole.
La preghiera del Pater è la più eccellente fra tutte anche perché produce tre vantaggi
Quanto ai vantaggi, questa preghiera procura tre grandi benefici.
1. È rimedio utile ed efficace contro il male perché:
libera dai peccati commessi: “Tu hai perdonato la malizia del mio peccato. Per questo ti prega ogni fedele” (Sal 32,5 6). Il ladrone in croce pregò così e ottenne il perdono: “Oggi sarai con me nel paradiso” (Lc 23,43), e per la sua preghiera il pubblicano tornò a casa giustificato (cf. Lc 18,14).
libera inoltre dalla paura dei peccati imminenti, dalle tribolazioni e dalle tristezze. Dice la Scrittura: “Uno di voi è triste? Preghi (serenamente)” (Gc 5,13).
libera infine dalle persecuzioni e dai nemici. Diceva al riguardo il salmista: “Invece di volermi bene, mi colpivano; ma io pregavo” (Sal 109,4).
2. È il mezzo efficace e utile per ottenere tutto ciò che desideriamo.
Lo ha promesso Gesù: “Tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato” (Mc 11,24).
Se poi non veniamo esauditi, è perché non ci atteniamo alla esortazione del Signore di “pregare sempre, senza stancarsi” (Lc 18,1).
Oppure perché non chiediamo quello che è meglio per la nostra salvezza, come dice S. Agostino: “È buono il Signore, il quale spesso non ci dà quel che vogliamo, per darci quello che dovremmo preferire”.
Ciò si riscontra in S. Paolo, che per tre volte chiese di venire liberato da una spina nella carne, ma non fu ascoltato (cf. 2 Cor 12, 7).
3. È utile poi perché ci rende familiari a Dio, così da potergli dire con confidenza: “Come incenso salga a te la mia preghiera” (Sal 141,2).
Padre
Su questa invocazione facciamo due riflessioni: in che senso Egli è Padre e quali siano i nostri doveri verso di Lui in quanto Padre.
Viene detto nostro Padre innanzitutto in ragione del modo speciale con cui ci ha creati, perché ci ha creati a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26): il che non fece invece con le altre creature. Così infatti la Scrittura: “É lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito” (Dt 32,6).
Viene poi detto Padre per il modo speciale con cui ci governa. Governa, è vero, anche tutti gli altri esseri, ma governa noi lasciandoci padroni di noi stessi. Gli altri, invece, li governa come schiavi. Questa cosa è bene espressa dal Libro della Sapienza: “Tutto è governato, o Padre, dalla tua Provvidenza... Tu ci tratti con grande riverenza” (Sap 14,3; 12,18).
Viene detto Padre anche per averci adottati. Se, infatti, alle altre creature egli ha fatto dei regalini, a noi invece ha dato l'eredità. E questo perché siamo suoi figli, e “se figli, siamo anche eredi” (Rm 8,17). Sicché l'Apostolo può dire: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi e di paura, ma avete ricevuto lo Spirito dei figli adottivi che ci fa esclamare ‘Abbà, Padre’” (Rm 8,15).
Da parte nostra quattro sono i doveri che derivano da questa paternità
1. Gli dobbiamo anzitutto onore.
Dio dice per bocca di Malachia: “Se io sono il Padre, dov’è l’onore che mi spetta?” (Ml 1,6). E questo onore si deve manifestare in tre modi.
Primo, nel dare lode a Dio, come dice il salmista: “Chi offre il sacrificio di lode, questi mi onora” (Sal 50,23). Lode, però, che non deve essere solo un omaggio delle labbra ma del cuore, per non meritare il rimprovero che Dio rivolgeva al popolo ebraico: “Questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me” (Is 29,13).
Secondo, lo onoriamo in noi stessi accogliendo l'esortazione di S. Paolo: “Glorificate Dio nel vostro corpo” (1 Cor 6,20).
Terzo, lo onoriamo nel prossimo col giudicarlo equamente, perché Dio è un Re potente che ama la giustizia” (Sal 99,4).
2. Inoltre dobbiamo imitarlo.
Dio dice a Geremia: “Voi mi direte: 'Padre mio', e non tralascerete di seguirmi” (Ger 3,19).
Questa imitazione si attua in tre modi:
Primo, con l'amarlo, come ci ricorda S. Paolo: “Fatevi imitatori di Dio quali figli carissimi, e camminate nella carità” (Ef 5,1). Questo amore deve essere evidentemente nel nostro cuore.
Secondo, lo dobbiamo imitare nell'esercitare la misericordia, come ci ha ordinato il Signore: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6,36).
Terzo, lo imitiamo tendendo alla perfezione, perché l'amore e la misericordia devono essere perfetti: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48).
3. Dobbiamo obbedirgli.
É infatti nostro Padre. Come dice S. Paolo “Noi abbiamo avuto come correttori i nostri padri secondo la carne e li abbiamo rispettati; non ci sottometteremo perciò molto di più al Padre degli spiriti, per avere la vita?” (Eb 12, 9). Questa obbedienza gli è dovuta per tre motivi.
Primo, per il dominio che ha su di noi, essendo egli il Signore di tutte le cose, per cui “quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo” (Es 24,7).
Secondo, per l'esempio che il suo vero Figlio ci ha dato facendosi obbediente al Padre fino alla morte (Fil 2,8).
Terzo, per il vantaggio che ne ricaviamo, come rispose Davide a Mikal che lo disprezzava per aver ballato davanti all'Arca: “L'ho fatto dinanzi al Signore, che mi ha scelto invece di tuo padre” (2 Sam 6,21).
4. Dobbiamo essere pazienti nelle prove che ci manda.
Dice infatti il Libro dei Proverbi. “Figlio mio, non disprezzare l'istruzione del Signore e non avere a noia la sua esortazione, perché il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto” (Pr 3,11 12).
nostro
Da questo aggettivo scaturiscono due doveri verso il prossimo.
1. Il primo è l'amore, perché sono nostri fratelli in quanto tutti gli uomini sono figli di Dio e “chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4,20).
2. Il secondo è il rispetto, perché sono figli di Dio. Per cui Malachia si chiede: “Non abbiamo forse tutti noi un solo Padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l'uno contro l'altro, profanando l'alleanza dei nostri padri?” (Ml 2,10). San Paolo ci esorta: “Gareggiate nello stimarvi a vicenda” (Rm 12,10).
Ciò ridonda a nostro vantaggio, perché “per tutti coloro che gli obbediscono egli divenne causa di salvezza eterna” (Eb 5,9).
Che sei nei cieli
Molte sono le cose necessarie per chi si mette a pregare. Ma la più importante è la fiducia. S. Giacomo dice: “Chieda con fede, senza esitare” (Gc 1,6).
Perciò il Signore, insegnandoci a pregare, presenta anzitutto le due realtà che servono per generare in noi la fiducia: la benignità del Padre e il suo immenso potere.
La benignità del Padre è messa in risalto dall’invocazione iniziale “Padre nostro”. Egli infatti ha detto: “Se voi che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono” (Lc 11, 13).
L’immensità del suo potere è messa in risalto dalle parole “che sei nei cieli”. A questo allude il salmo quando dice: “A te levo i miei occhi, a te che abiti nei cieli” (Sal 123,1).
L’espressione “che sei nei cieli” si riferisce a tre cose.
In primo luogo alla preparazione di chi si mette a pregare, secondo l’ammonimento che ci viene dalla Scrittura: “Prima dell’orazione prepara l’anima tua, per non essere come uno che tenta Dio” (Sir 18,23).
Sicché nell’espressione “nei cieli”, che si può intendere per “gloria celeste”, possiamo vedere un richiamo a quel premio che il Signore ha promesso agli Apostoli quando disse: “Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Mt 5,12).
E questa preparazione deve avvenire imitando gli esseri del cielo, ossia del Padre celeste, perché il figlio deve imitare il Padre, secondo quanto dice S. Paolo: “Come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste” (1 Cor 15,49).
La preparazione alla preghiera si fa anche tramite la contemplazione delle realtà celesti, perché gli uomini sogliono dirigere con più frequenza il loro pensiero là dove hanno il padre e le altre cose che amano. Infatti “dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (Mt 6, 21). A ragione dunque S. Paolo diceva che “il nostro interesse sta nei cieli” (Fil 3,20).
Infine la preparazione all’orazione si fa col desiderio e col tendere alle cose del cielo, in modo che a Colui che è nei cieli chiediamo soltanto beni celesti, secondo quanto si legge nella lettera ai Colossesi: “Cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo” (Col 3,1).
L’espressione “che sei nei cieli” indica anche la facilità con la quale il Signore ci ascolta, perché ci è vicino.
In tal caso per cieli vanno intesi i santi, nei quali Dio abita, perché, secondo quanto dice Geremia, egli abita in mezzo a noi (cfr. Ger 14,9). E anche quando il salmista dice: “I cieli narrano la gloria di Dio” (Sal 19,2), la parola cieli va presa per santi.
Dio abita nei santi in tre modi:
mediante la fede, per cui S. Paolo esorta gli Efesini: “Cristo abiti per la fede nei vostri cuori” (Ef 3,17);
mediante l’amore, perché “chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv 4,16);
e infine mediante l’osservanza dei comandamenti, perché dice il Signore: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23).
L’espressione “che sei nei cieli” allude anche al particolare potere di Colui che ci esaudisce.
In tal senso la parola cieli indica i cieli materiali, non quasi volessimo affermare che Dio vi sia contenuto, essendo scritto di Lui, che “i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti” (1 Re, 8,27); ma per significare che Dio è perspicace nello sguardo, perché vede dall’alto, come dice il salmista: “Egli si volge alla preghiera del misero e non disprezza la sua supplica... si è affacciato dall’alto del suo santuario, dal cielo ha guardato la terra” (Sal 102, 18.20); è sublime nel potere, perché “ha stabilito nel cielo il suo trono e il suo regno abbraccia l’universo” (Sal 103,19); è stabile nella sua eternità perché di lui dice ancora il salmista: “I tuoi anni durano per ogni generazione... i tuoi anni non hanno fine” (Sal 102,25.28). E di Cristo si dice che “il suo trono durerà come i giorni del cielo” (Sal 89,30). E il Aristotele dice che, per la loro incorruttibilità, tutti i popoli ritennero che i cieli fossero la sede degli esseri spirituali.
Per questo le parole “che sei nei cieli” ci danno fiducia nel pregare per tre ragioni: per il potere di Colui al quale ci rivolgiamo, per la familiarità di Colui al quale chiediamo, e per le condizioni richieste per la preghiera.
Il potere di Colui al quale ci rivolgiamo emerge chiaramente se per cieli intendiamo i cieli fisici, quantunque Dio non vi risieda né sia racchiuso in essi secondo quanto egli dice di sé: “Non sono forse io a riempire i cieli e la terra?” (Ger 23,24).
Affermando che egli è nei cieli vengono suggeriti due suoi attributi: la virtù della sua potenza e la sublimità della sua natura.
La virtù della sua potenza elimina l’errore di quanti pensano che tutto succeda per necessità, quasi in forza di un destino derivante dagli astri. Per costoro sarebbe inutile chiedere qualcosa a Dio nella preghiera.
Ma questa è una opinione stolta, perché quando si dice che egli è nei cieli, si vuole affermare che egli vi è come Signore dei cieli e delle stelle, secondo quanto afferma anche il salmo: “Il Signore ha stabilito nei cieli il suo trono e il suo regno abbraccia l’universo” (Sal 103,19).
Il secondo attributo divino, e cioè la sublimità della sua natura, è contro l’abitudine di coloro che nel pregare costruiscono fantasie materialistiche riguardo a Dio. Si dice nei cieli perché, indicando ciò che è il più alto tra le cose sensibili (i cieli), si viene ad affermare la sua divina sublimità che tutto trascende, compresi l’intelligenza e i desideri umani. Sicché qualunque cosa si possa pensare o desiderare è sempre meno di Dio, come mettono in evidenza questi testi della Sacra Scrittura: “Ecco, Dio è così grande che non lo comprendiamo” (Gb 36, 26); “Su tutti i popoli eccelso è il Signore, più alta dei cieli è la sua gloria” (Sal 113 [112], 4); “A chi potreste paragonare Dio e quale immagine mettergli a confronto?” (Is 40, 18).
L’espressione “che sei nei cieli” indica la familiarità con Lui, se per cieli si intendono i Santi.
Poiché alcuni, a causa della divina trascendenza, affermarono che Dio non si cura delle cose umane, occorre considerare quanto invece egli sia vicino a noi, anzi intimo. Per questo si dice che è nei cieli, cioè nei santi, secondo il significato di questa parola del salmo sopra citato: “I cieli narrano la gloria di Dio” (Sal 19,2). Vicinanza e intimità che ci vengono ricordate anche dal profeta Geremia quando afferma: “Tu sei in mezzo a noi, Signore” (Ger 14,9).
Queste considerazioni infondono fiducia in chi prega per due motivi.
Primo, perché ci rassicurano della vicinanza di Dio, come dice il salmo: “Il Signore è vicino a quanti lo invocano” (Sal 145,18) e come afferma Gesù: “Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera”, ossia nella camera del tuo cuore (Mt 6,6).
Secondo, perché l’intercessione degli altri santi ci fa ottenere quanto desideriamo, secondo il consiglio dato a Giobbe: “Rivolgiti a qualcuno dei Santi” (Gb 5,1) e l’esortazione di S. Giacomo: “Pregate gli uni per gli altri... molto vale la preghiera del giusto” (Gc 5,16).
L’espressione “che sei nei cieli” indica infine l’adeguatezza e l’idoneità della nostra preghiera.
Infatti la nostra preghiera ha le dovute condizioni se nella formula “che sei nei cieli” prendiamo i cieli per i beni spirituali ed eterni, nei quali è riposta la nostra eterna felicità. E questo per due motivi.
Primo, perché così si accende in noi il desiderio delle realtà celesti. Il nostro desiderio deve essere rivolto là dove abbiamo il Padre, perché là c’è la nostra eredità. Dicono gli Apostoli: “Cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio” (Col 3,1) e “per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce” (1 Pt 1,4).
Secondo, perché così la nostra vita si modella fino a diventare celeste, e noi diventiamo conformi al Padre celeste, secondo quanto si legge: “Quale è il Celeste, così anche i celesti” (1 Cor 15, 48).
Infatti il desiderio di cose celesti e una vita celeste sono le due cose che rendono l’orante idoneo a chiedere. E per esse la preghiera ha quello che deve avere per domandare.
Introduzione al Padre nostro
Tra tutte le preghiere la più eccellente è certamente quella del “Signore”, o “Padre nostro”.
Essa possiede in sommo grado i cinque requisiti che ogni preghiera ben fatta deve avere: essere cioè sicura, retta, ordinata, devota e umile.
1. È sicura
La preghiera, infatti, deve darci la sicurezza di poterci accostare “con piena fiducia al trono della grazia” (Eb 4,16), e “con fede, senza esitare”, perché, come dice S. Giacomo, “non pensi di ricevere qualcosa dal Signore un uomo che ha l'animo oscillante e instabile” (Gc 1,6 7).
Ebbene, questa preghiera dà senz’altro molta fiducia perché è stata composta dal nostro Avvocato presso il Signore, l'Intercessore sapientissimo “nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza” (Col 2, 3) e del quale si dice: “Abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1 Gv 2,1 2). Giustamente S. Cipriano dice: “Avendo come avvocato dinnanzi al Padre il Cristo, che è difensore per i nostri peccati, lasciamo parlare il nostro Avvocato”.
La sicurezza diventa ancora più grande e la nostra fiducia viene poi ulteriormente incoraggiata se si pensa a questo: che colui che ci ha insegnato questa preghiera, è lo stesso che, insieme al Padre, ha il compito di esaudirla, adempiendo quanto è detto nel salmo 91,15: “Mi invocherà e gli darò risposta”.
Per questo San Cipriano dice: “E una preghiera da amico e di familiare quella con la quale preghiamo Dio usando le sue stesse parole”.
E indubbiamente è questa la ragione per cui questa preghiera non si recita mai senza frutto, sicché essa ci ottiene tra l'altro, come dice S. Agostino, anche la remissione dei peccati veniali.
2. È retta
Ogni preghiera deve essere retta. Infatti ogni persona che prega deve chiedere a Dio le grazie che sono un bene per lui. San Giovanni Damasceno insegna che la preghiera è una “una richiesta a Dio di cose che sono un bene per noi”.
Ecco perché molte volte la preghiera non viene esaudita: perché vengono chieste cose che non sono un bene per noi, come dice S. Giacomo: “Chiedete e non ottenete perché chiedete male” (Gc 4,3).
Sapere che cosa chiedere è difficilissimo, perché è difficilissimo conoscere quali siano i veri beni da desiderare. Si chiede infatti lecitamente nella preghiera solo quello che è lecito desiderare. Lo rilevava già S. Paolo quando scriveva ai Romani: “Nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare” (Rm 8,26).
Il Cristo però, che è nostro Maestro, ci ha personalmente insegnato quello che dobbiamo chiedere quando i discepoli gli chiesero: “Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11,1). Perciò la nostra preghiera è rettissima quando chiediamo al Signore le cose che lui stesso ci ha insegnato a chiedere. Insegna in proposito S. Agostino: “Se vogliamo pregare in modo retto e conveniente, qualunque sia la parola che usiamo, dobbiamo chiedere solo ciò che è contenuto nella Preghiera del Signore”.
3. È ordinata
La preghiera deve essere ordinata, così come ordinato dev’essere il desiderio. Infatti la preghiera è interprete del desiderio.
Ebbene: il giusto ordine vuole che tanto nel desiderare come nel chiedere preferiamo i beni spirituali a quelli materiali e i beni del cielo a quelle della terra. Il Signore infatti ci ha ammonito: “Cercate innanzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta” (Mt 6,33). E questo ordine appunto il Signore ci ha insegnato ad osservare nella sua preghiera, nella quale ci fa domandare prima i beni celesti e poi quelli terreni.
4. È devota
La preghiera deve essere anche devota, perché l'abbondanza della devozione rende il sacrificio dell'orazione accetto a Dio, secondo quanto dice il salmista: “Nel tuo nome alzerò le mie mani; mi sazierò come a lauto convito, e con voci di gioia ti loderà la mia bocca” (Sal 63,5 6).
La devozione si stempera se la preghiera è prolissa. Per questo il Signore stesso ci ha comandato di evitare lungaggini. Pregando non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole” (Mt 6,7). S. Agostino, scrivendo a Proba, le dà il seguente avvertimento: “Lungi dalla preghiera le molte parole. Non manchi però il molto supplicare finché dura il fervore”. Ecco perché il Signore ha voluto che questa preghiera fosse breve.
La devozione, poi, sgorga dalla carità, e cioè dall'amore di Dio e del prossimo. E questi due amori vengono raccomandati nella preghiera del Pater.
L'amore di Dio viene stimolato quando, rivolti a Lui, lo chiamiamo “Padre”.
L’amore del prossimo invece viene stimolato quando, in comunione con tutti, preghiamo per tutti dicendo al plurale: “Padre nostro”. E “rimetti a noi i nostri debiti”. L’amore del prossimo infatti conduce a questo.
5. È umile
Da ultimo, la preghiera deve essere umile perché Dio “si volge alla preghiera dell'umile e non disprezza la sua supplica” (Sal 102,18). Vedi anche la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,10 14) e la preghiera di Giuditta: “Tu sei il Dio degli umili, sei il soccorritore dei derelitti” (Gdt 9,11).
E questa umiltà viene osservata nel Padrenostro. Infatti si ha vera umiltà quando uno non presume assolutamente nelle proprie forze, ma aspetta tutto dalla potenza divina alla quale si rivolge supplichevole.
La preghiera del Pater è la più eccellente fra tutte anche perché produce tre vantaggi
Quanto ai vantaggi, questa preghiera procura tre grandi benefici.
1. È rimedio utile ed efficace contro il male perché:
libera dai peccati commessi: “Tu hai perdonato la malizia del mio peccato. Per questo ti prega ogni fedele” (Sal 32,5 6). Il ladrone in croce pregò così e ottenne il perdono: “Oggi sarai con me nel paradiso” (Lc 23,43), e per la sua preghiera il pubblicano tornò a casa giustificato (cf. Lc 18,14).
libera inoltre dalla paura dei peccati imminenti, dalle tribolazioni e dalle tristezze. Dice la Scrittura: “Uno di voi è triste? Preghi (serenamente)” (Gc 5,13).
libera infine dalle persecuzioni e dai nemici. Diceva al riguardo il salmista: “Invece di volermi bene, mi colpivano; ma io pregavo” (Sal 109,4).
2. È il mezzo efficace e utile per ottenere tutto ciò che desideriamo.
Lo ha promesso Gesù: “Tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato” (Mc 11,24).
Se poi non veniamo esauditi, è perché non ci atteniamo alla esortazione del Signore di “pregare sempre, senza stancarsi” (Lc 18,1).
Oppure perché non chiediamo quello che è meglio per la nostra salvezza, come dice S. Agostino: “È buono il Signore, il quale spesso non ci dà quel che vogliamo, per darci quello che dovremmo preferire”.
Ciò si riscontra in S. Paolo, che per tre volte chiese di venire liberato da una spina nella carne, ma non fu ascoltato (cf. 2 Cor 12, 7).
3. È utile poi perché ci rende familiari a Dio, così da potergli dire con confidenza: “Come incenso salga a te la mia preghiera” (Sal 141,2).
Padre
Su questa invocazione facciamo due riflessioni: in che senso Egli è Padre e quali siano i nostri doveri verso di Lui in quanto Padre.
Viene detto nostro Padre innanzitutto in ragione del modo speciale con cui ci ha creati, perché ci ha creati a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26): il che non fece invece con le altre creature. Così infatti la Scrittura: “É lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito” (Dt 32,6).
Viene poi detto Padre per il modo speciale con cui ci governa. Governa, è vero, anche tutti gli altri esseri, ma governa noi lasciandoci padroni di noi stessi. Gli altri, invece, li governa come schiavi. Questa cosa è bene espressa dal Libro della Sapienza: “Tutto è governato, o Padre, dalla tua Provvidenza... Tu ci tratti con grande riverenza” (Sap 14,3; 12,18).
Viene detto Padre anche per averci adottati. Se, infatti, alle altre creature egli ha fatto dei regalini, a noi invece ha dato l'eredità. E questo perché siamo suoi figli, e “se figli, siamo anche eredi” (Rm 8,17). Sicché l'Apostolo può dire: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi e di paura, ma avete ricevuto lo Spirito dei figli adottivi che ci fa esclamare ‘Abbà, Padre’” (Rm 8,15).
Da parte nostra quattro sono i doveri che derivano da questa paternità
1. Gli dobbiamo anzitutto onore.
Dio dice per bocca di Malachia: “Se io sono il Padre, dov’è l’onore che mi spetta?” (Ml 1,6). E questo onore si deve manifestare in tre modi.
Primo, nel dare lode a Dio, come dice il salmista: “Chi offre il sacrificio di lode, questi mi onora” (Sal 50,23). Lode, però, che non deve essere solo un omaggio delle labbra ma del cuore, per non meritare il rimprovero che Dio rivolgeva al popolo ebraico: “Questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me” (Is 29,13).
Secondo, lo onoriamo in noi stessi accogliendo l'esortazione di S. Paolo: “Glorificate Dio nel vostro corpo” (1 Cor 6,20).
Terzo, lo onoriamo nel prossimo col giudicarlo equamente, perché Dio è un Re potente che ama la giustizia” (Sal 99,4).
2. Inoltre dobbiamo imitarlo.
Dio dice a Geremia: “Voi mi direte: 'Padre mio', e non tralascerete di seguirmi” (Ger 3,19).
Questa imitazione si attua in tre modi:
Primo, con l'amarlo, come ci ricorda S. Paolo: “Fatevi imitatori di Dio quali figli carissimi, e camminate nella carità” (Ef 5,1). Questo amore deve essere evidentemente nel nostro cuore.
Secondo, lo dobbiamo imitare nell'esercitare la misericordia, come ci ha ordinato il Signore: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6,36).
Terzo, lo imitiamo tendendo alla perfezione, perché l'amore e la misericordia devono essere perfetti: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48).
3. Dobbiamo obbedirgli.
É infatti nostro Padre. Come dice S. Paolo “Noi abbiamo avuto come correttori i nostri padri secondo la carne e li abbiamo rispettati; non ci sottometteremo perciò molto di più al Padre degli spiriti, per avere la vita?” (Eb 12, 9). Questa obbedienza gli è dovuta per tre motivi.
Primo, per il dominio che ha su di noi, essendo egli il Signore di tutte le cose, per cui “quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo” (Es 24,7).
Secondo, per l'esempio che il suo vero Figlio ci ha dato facendosi obbediente al Padre fino alla morte (Fil 2,8).
Terzo, per il vantaggio che ne ricaviamo, come rispose Davide a Mikal che lo disprezzava per aver ballato davanti all'Arca: “L'ho fatto dinanzi al Signore, che mi ha scelto invece di tuo padre” (2 Sam 6,21).
4. Dobbiamo essere pazienti nelle prove che ci manda.
Dice infatti il Libro dei Proverbi. “Figlio mio, non disprezzare l'istruzione del Signore e non avere a noia la sua esortazione, perché il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto” (Pr 3,11 12).
nostro
Da questo aggettivo scaturiscono due doveri verso il prossimo.
1. Il primo è l'amore, perché sono nostri fratelli in quanto tutti gli uomini sono figli di Dio e “chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4,20).
2. Il secondo è il rispetto, perché sono figli di Dio. Per cui Malachia si chiede: “Non abbiamo forse tutti noi un solo Padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l'uno contro l'altro, profanando l'alleanza dei nostri padri?” (Ml 2,10). San Paolo ci esorta: “Gareggiate nello stimarvi a vicenda” (Rm 12,10).
Ciò ridonda a nostro vantaggio, perché “per tutti coloro che gli obbediscono egli divenne causa di salvezza eterna” (Eb 5,9).
Che sei nei cieli
Molte sono le cose necessarie per chi si mette a pregare. Ma la più importante è la fiducia. S. Giacomo dice: “Chieda con fede, senza esitare” (Gc 1,6).
Perciò il Signore, insegnandoci a pregare, presenta anzitutto le due realtà che servono per generare in noi la fiducia: la benignità del Padre e il suo immenso potere.
La benignità del Padre è messa in risalto dall’invocazione iniziale “Padre nostro”. Egli infatti ha detto: “Se voi che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono” (Lc 11, 13).
L’immensità del suo potere è messa in risalto dalle parole “che sei nei cieli”. A questo allude il salmo quando dice: “A te levo i miei occhi, a te che abiti nei cieli” (Sal 123,1).
L’espressione “che sei nei cieli” si riferisce a tre cose.
In primo luogo alla preparazione di chi si mette a pregare, secondo l’ammonimento che ci viene dalla Scrittura: “Prima dell’orazione prepara l’anima tua, per non essere come uno che tenta Dio” (Sir 18,23).
Sicché nell’espressione “nei cieli”, che si può intendere per “gloria celeste”, possiamo vedere un richiamo a quel premio che il Signore ha promesso agli Apostoli quando disse: “Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Mt 5,12).
E questa preparazione deve avvenire imitando gli esseri del cielo, ossia del Padre celeste, perché il figlio deve imitare il Padre, secondo quanto dice S. Paolo: “Come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste” (1 Cor 15,49).
La preparazione alla preghiera si fa anche tramite la contemplazione delle realtà celesti, perché gli uomini sogliono dirigere con più frequenza il loro pensiero là dove hanno il padre e le altre cose che amano. Infatti “dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (Mt 6, 21). A ragione dunque S. Paolo diceva che “il nostro interesse sta nei cieli” (Fil 3,20).
Infine la preparazione all’orazione si fa col desiderio e col tendere alle cose del cielo, in modo che a Colui che è nei cieli chiediamo soltanto beni celesti, secondo quanto si legge nella lettera ai Colossesi: “Cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo” (Col 3,1).
L’espressione “che sei nei cieli” indica anche la facilità con la quale il Signore ci ascolta, perché ci è vicino.
In tal caso per cieli vanno intesi i santi, nei quali Dio abita, perché, secondo quanto dice Geremia, egli abita in mezzo a noi (cfr. Ger 14,9). E anche quando il salmista dice: “I cieli narrano la gloria di Dio” (Sal 19,2), la parola cieli va presa per santi.
Dio abita nei santi in tre modi:
mediante la fede, per cui S. Paolo esorta gli Efesini: “Cristo abiti per la fede nei vostri cuori” (Ef 3,17);
mediante l’amore, perché “chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv 4,16);
e infine mediante l’osservanza dei comandamenti, perché dice il Signore: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23).
L’espressione “che sei nei cieli” allude anche al particolare potere di Colui che ci esaudisce.
In tal senso la parola cieli indica i cieli materiali, non quasi volessimo affermare che Dio vi sia contenuto, essendo scritto di Lui, che “i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti” (1 Re, 8,27); ma per significare che Dio è perspicace nello sguardo, perché vede dall’alto, come dice il salmista: “Egli si volge alla preghiera del misero e non disprezza la sua supplica... si è affacciato dall’alto del suo santuario, dal cielo ha guardato la terra” (Sal 102, 18.20); è sublime nel potere, perché “ha stabilito nel cielo il suo trono e il suo regno abbraccia l’universo” (Sal 103,19); è stabile nella sua eternità perché di lui dice ancora il salmista: “I tuoi anni durano per ogni generazione... i tuoi anni non hanno fine” (Sal 102,25.28). E di Cristo si dice che “il suo trono durerà come i giorni del cielo” (Sal 89,30). E il Aristotele dice che, per la loro incorruttibilità, tutti i popoli ritennero che i cieli fossero la sede degli esseri spirituali.
Per questo le parole “che sei nei cieli” ci danno fiducia nel pregare per tre ragioni: per il potere di Colui al quale ci rivolgiamo, per la familiarità di Colui al quale chiediamo, e per le condizioni richieste per la preghiera.
Il potere di Colui al quale ci rivolgiamo emerge chiaramente se per cieli intendiamo i cieli fisici, quantunque Dio non vi risieda né sia racchiuso in essi secondo quanto egli dice di sé: “Non sono forse io a riempire i cieli e la terra?” (Ger 23,24).
Affermando che egli è nei cieli vengono suggeriti due suoi attributi: la virtù della sua potenza e la sublimità della sua natura.
La virtù della sua potenza elimina l’errore di quanti pensano che tutto succeda per necessità, quasi in forza di un destino derivante dagli astri. Per costoro sarebbe inutile chiedere qualcosa a Dio nella preghiera.
Ma questa è una opinione stolta, perché quando si dice che egli è nei cieli, si vuole affermare che egli vi è come Signore dei cieli e delle stelle, secondo quanto afferma anche il salmo: “Il Signore ha stabilito nei cieli il suo trono e il suo regno abbraccia l’universo” (Sal 103,19).
Il secondo attributo divino, e cioè la sublimità della sua natura, è contro l’abitudine di coloro che nel pregare costruiscono fantasie materialistiche riguardo a Dio. Si dice nei cieli perché, indicando ciò che è il più alto tra le cose sensibili (i cieli), si viene ad affermare la sua divina sublimità che tutto trascende, compresi l’intelligenza e i desideri umani. Sicché qualunque cosa si possa pensare o desiderare è sempre meno di Dio, come mettono in evidenza questi testi della Sacra Scrittura: “Ecco, Dio è così grande che non lo comprendiamo” (Gb 36, 26); “Su tutti i popoli eccelso è il Signore, più alta dei cieli è la sua gloria” (Sal 113 [112], 4); “A chi potreste paragonare Dio e quale immagine mettergli a confronto?” (Is 40, 18).
L’espressione “che sei nei cieli” indica la familiarità con Lui, se per cieli si intendono i Santi.
Poiché alcuni, a causa della divina trascendenza, affermarono che Dio non si cura delle cose umane, occorre considerare quanto invece egli sia vicino a noi, anzi intimo. Per questo si dice che è nei cieli, cioè nei santi, secondo il significato di questa parola del salmo sopra citato: “I cieli narrano la gloria di Dio” (Sal 19,2). Vicinanza e intimità che ci vengono ricordate anche dal profeta Geremia quando afferma: “Tu sei in mezzo a noi, Signore” (Ger 14,9).
Queste considerazioni infondono fiducia in chi prega per due motivi.
Primo, perché ci rassicurano della vicinanza di Dio, come dice il salmo: “Il Signore è vicino a quanti lo invocano” (Sal 145,18) e come afferma Gesù: “Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera”, ossia nella camera del tuo cuore (Mt 6,6).
Secondo, perché l’intercessione degli altri santi ci fa ottenere quanto desideriamo, secondo il consiglio dato a Giobbe: “Rivolgiti a qualcuno dei Santi” (Gb 5,1) e l’esortazione di S. Giacomo: “Pregate gli uni per gli altri... molto vale la preghiera del giusto” (Gc 5,16).
L’espressione “che sei nei cieli” indica infine l’adeguatezza e l’idoneità della nostra preghiera.
Infatti la nostra preghiera ha le dovute condizioni se nella formula “che sei nei cieli” prendiamo i cieli per i beni spirituali ed eterni, nei quali è riposta la nostra eterna felicità. E questo per due motivi.
Primo, perché così si accende in noi il desiderio delle realtà celesti. Il nostro desiderio deve essere rivolto là dove abbiamo il Padre, perché là c’è la nostra eredità. Dicono gli Apostoli: “Cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio” (Col 3,1) e “per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce” (1 Pt 1,4).
Secondo, perché così la nostra vita si modella fino a diventare celeste, e noi diventiamo conformi al Padre celeste, secondo quanto si legge: “Quale è il Celeste, così anche i celesti” (1 Cor 15, 48).
Infatti il desiderio di cose celesti e una vita celeste sono le due cose che rendono l’orante idoneo a chiedere. E per esse la preghiera ha quello che deve avere per domandare.
Nessun commento:
Posta un commento