domenica 30 giugno 2024

Una rottura con la dottrina tradizionale fatta di nascosto?


Papa Francesco – Vatican Press


Articolo scritto da George Weigel, biografo personale di Papa Giovanni Paolo II, pubblicato su Catholic World Report. Traduzione curata da Sabino Paciolla (27 Giugno 2024).



George Weigel

Secondo una fonte ben informata, uno dei drammi dietro le quinte dell’attuale pontificato ha riguardato la determinazione di Papa Francesco a modificare il Catechismo della Chiesa cattolica e a dichiarare la pena capitale un atto intrinsecamente malvagio: qualcosa che non può mai essere tollerato. Dopo una lunga e accanita disputa sulla possibilità di farlo dal punto di vista dottrinale, è stato raggiunto un compromesso e il CCC 2267 dichiara ora la pena di morte “inammissibile” – un termine forte, ma privo di significato tecnico teologico o dottrinale.

La campagna papale contro la pena di morte ha ora raggiunto il suo obiettivo attraverso la recente dichiarazione del Dicastero per la Dottrina della Fede, Dignitas Infinita (Dignità infinita)?
In essa il Dicastero ha scritto che la pena di morte “viola l’inalienabile dignità di ogni persona, indipendentemente dalle circostanze” (34). Questa clausola subordinata (al di là di ogni circostanza, nell’originale italiano) colpisce. Infatti, il paragrafo della Dignitas Infinita in cui compare cita il paragrafo 27 della Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (Gaudium et Spes) del Vaticano II, in cui i padri conciliari identificano come crimini contro la dignità umana “tutte le offese contro la vita stessa, come l’omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e il suicidio volontario; tutte le violazioni dell’integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture fisiche e mentali (e) le pressioni psicologiche indebite…”. 

Questo, a sua volta, era il paragrafo citato da Papa Giovanni Paolo II nell’enciclica Veritatis Splendor del 1993 per identificare gli atti intrinsecamente malvagi: atti che sono malvagi per loro stessa natura. E come scrisse Giovanni Paolo II in Veritatis Splendor 81, “Se gli atti sono intrinsecamente malvagi, una buona intenzione o circostanze particolari possono diminuire la loro malvagità, ma non possono eliminarla. Rimangono atti ‘irrimediabilmente’ cattivi; di per sé e in sé, non sono in grado di essere ordinati a Dio e al bene della persona”.

Quindi, quando Dignitas Infinita 34 insegna che “si dovrebbe [anche] menzionare la pena di morte” quando si cita l’elenco dei mali gravi identificati in Gaudium et Spes 27, che sono i mali che Giovanni Paolo II ha usato in Veritatis Splendor 81 per illustrare il concetto di atti che sono intrinsecamente malvagi a prescindere dalle circostanze, Dignitas Infinita stava facendo una mossa furtiva per raggiungere l’obiettivo che Papa Francesco non è riuscito a raggiungere nella sua proposta di revisione del Catechismo della Chiesa catt olica sulla questione della pena capitale?

Non sono un fan della pena di morte. È applicata troppo spesso negli Stati Uniti. È certamente applicata in modo grottescamente disumano e promiscuo in Cina, in Russia e nei Paesi che soffrono di regimi jihadisti e islamici radicali.

Ma affermare che la pena capitale è intrinsecamente malvagia significa affermare che l’intera tradizione cattolica, da Sant’Agostino a San Giovanni Paolo II, ha sbagliato qualcosa di grave significato morale. È anche affermare che la Bibbia, la Parola di Dio rivelata, insegna falsamente, ad esempio in Romani 13,3-4:
I governanti infatti non sono un terrore per la buona condotta, ma per la cattiva. Non volete avere paura di colui che è in autorità? Allora fate ciò che è bene e riceverete la sua approvazione, perché egli è servo di Dio per il vostro bene. Ma se fate il male, abbiate paura, perché egli non porta la spada invano; è il servo di Dio per eseguire la sua ira sul malfattore”.

L’affermazione di una di queste due cose non può essere alla base di un autentico sviluppo della dottrina. Piuttosto, queste affermazioni rischiano di far collassare la dottrina in quello che il grande teorico dello sviluppo dottrinale, San John Henry Newman, chiamava “corruzione dottrinale” – un pericolo onnipresente nella Chiesa, brillantemente esplorato da Matthew Levering in Newman on Doctrinal Corruption (Word on Fire Academic, 2022).

Dato che Dignitas Infinita è stata il risultato di un processo editoriale alquanto travagliato (descritto in modo piuttosto blando nella nota prefatoria della dichiarazione dal prefetto del dicastero dottrinale, il cardinale Victor Manuel Fernández), non è chiaro se in Dignitas Infinita 34 si sia trattato di sciatteria editoriale o di una rottura intenzionale, anche se furtiva, con la rivelazione e la tradizione. Che possa trattarsi di quest’ultima ipotesi è suggerito dal fatto che, nell’ultimo decennio, sono state impiegate misure furtive, sotto forma di ambiguità, per raggiungere certi scopi che l’attuale pontificato non poteva ottenere con altri mezzi, come la Santa Comunione per i cattolici in matrimoni canonicamente irregolari o le benedizioni per coloro che vivono in unioni omosessuali.

Tutto ciò sottolinea la questione di fondo della Chiesa cattolica di oggi: La rivelazione divina, incarnata nelle Scritture e nella tradizione della Chiesa, è reale e ha un’autorità vincolante nel tempo? Oppure le verità della rivelazione, mediate attraverso due millenni di tradizione, possono essere modificate dall’esperienza e dalla sensibilità umana contemporanea?




sabato 29 giugno 2024

Investigatore Biblico. Perché Tradurre “Portae Inferi” con “Potenze”? Comunque Non Praevalebunt…






29 Giugno 2024 Pubblicato da Marco Tosatti 

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, offriamo alla vostra attenzione questo articolo di Investigatore Biblico, a cui va il nostro grazie. Buona lettura e condivsione.

§§§


Indizio n.194 Bibbia CEI 2008: “Versetto ‘iconico’ del Vangelo modificato tanto per il gusto di farlo. L’evidenza di voler sovvertire la tradizione: Matteo 16,18. Cestiniamo la traduzione del 2008 e torniamo alle traduzioni precedenti!” di INVESTIGATORE BIBLICO

Postato il 22/06/2024 di Investigatore Biblico


Questo estratto dimostra quanto la traduzione del 2008 sia arbitraria e tendenziosa in quanto al cambiamento.

Cambiare presuppone una presa di coscienza di un errore commesso nel passato. Un qualcosa che, alla luce di scoperte evidenti, impone una revisione forzata e seria.

In tema di traduzioni bibliche, cambiare significherebbe prendere consapevolezza che i predecessori hanno commesso dei gravi errori, forse dati dalla mancanza di maturità e di conoscenza, forse dati dall’ignoranza di persone vissute nel passato.

Nel caso in esame, invece, vediamo un cambiamento motivato da una componente irrazionale. Un po’ come accade nelle mode.

Negli anni Ottanta ci siamo stufati del capello lungo e abbiamo accorciato il capello.

Motivazione?

E chi può dirlo!

Ci siamo rotti del ‘capellone’ e ci siamo pettinati in modo diverso. Capelli corti.

Un ragazzino di 12 anni, oggi, guarda all’attore anni Settanta e dice: ‘che schifo di moda’, tanto quanto una ragazza nel ‘75 avrebbe detto: ‘che ragazzo alla moda, bellissimo!’.

Perché un’introduzione così lunga?

Per prepararvi al versetto di oggi.

La dimostrazione che i traduttori 2008 sono pilotati da un vento irrazionale di cambiamento senza un criterio ben definito.

Il caso di oggi, poi, coinvolge un versetto, direi, ‘iconico’ nel frasario cattolico.

Ecco, i neotraduttori sono riusciti a modificare anche questo.

Un po’ come se il proverbio ‘la calma è la virtù dei forti’ venisse modificato in ‘la serenità è la base dei coraggiosi’.

Ma, andiamo al sodo e leggiamo il versetto nelle diverse versioni.

CEI 74: “…e le porte degli inferi non prevarranno” (Mt 16,18)

Vulgata: “et portæ inferi non prævalebunt adversus eam” (Mt 16,18)

Martini: “e le porte dell’inferno non avran forza contro di lei” (Mt 16,18)

Ricciotti: “e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa” (Mt 16,18)

CEI 2008: “e le potenze degli inferi non prevarranno..” (Mt 16,18)

Rimaniamo sul lato linguistico:

Il termine in greco è “PULAI”, da “PULE” che significa “porta”, “entrata”.

Il dizionario di greco biblico del Buzzetti indica il termine anche con “potenza”, ma solo come significato figurativo, in riferimento a Mt 16,18. Sottolineo: significato figurativo.

Come sempre Cei 2008 pare debba modificare tanto per farlo.

Voglio citare un parallelismo utile, giusto per non scadere in opinionismi personali.

Apocalisse 3,7 dice:

“Così parla il Santo, il Verace, Colui che ha la chiave di Davide: quando egli apre nessuno chiude, e quando chiude, nessuno apre”

La chiave che viene citata in Apocalisse non è la chiave di San Pietro.

Infatti, indica la “chiave delle chiavi”, quella che ha in possesso Dio e con la quale chiude in eterno le porte dell’inferno.

Per questo la traduzione corretta è: “le porte degli inferi non prevarranno”.

Si indicano le porte che sono state chiuse per sempre da Gesù.

E allora, perché i traduttori della versione 2008 decidono di tradurre con ‘potenze’, dopo che per secoli la traduzione è stata sempre ‘le porte‘?

La risposta è semplice: sono presuntuosi, non sopportano la tradizione e sono convinti che la via migliore sia cambiare i significati a tutti i costi, e di conseguenza la mentalità cristiana.

Quando si dice che ‘il diavolo sta nei dettagli’, penso si adatti perfettamente all’analisi della traduzione biblica del 2008.

Per secoli si è tradotto in un modo – e il caso in esame, per di più, riguarda una frase del Vangelo diventata iconica, così come sempre è stata espressa: con l’espressione ‘le porte’.

Al contrario, la nuova traduzione sceglie un termine diverso, solo per discostarsi dalla tradizione, e, a mio parere, per partito preso.

Il che mi porta, dopo 194 indizi nel mio blog (non sono pochi), a prendere consapevolezza di quanto segue: cestiniamo la traduzione 2008 e riprendiamo in mano le traduzioni precedenti!!!

Investigatore Biblico






A scuola cattolica giochi unisex




«La gonna è per tutti» e «cowboy con i tacchi a spillo». In una scuola di Rapallo gestita dalle Suore Somasche il gender entra attraverso un progetto di decostruzione degli stereotipi nell'uso di giochi unisex. Ma è proprio la diversità naturale che porta a scegliere anche giochi diversi.

RAPALLO

Gender follie: la scuola delle suore "mette" la gonna ai maschietti

EDUCAZIONE 



La luce di Cristo viene sempre più scissa nei colori arcobaleno dentro le istituzioni cattoliche. Siamo a Rapallo, Scuola San Girolamo gestita dalle suore Somasche, ma con dipendenti tutti laici. Nell’istituto troviamo il nido, la scuola per l’infanzia e le elementari. Quale posto migliore per colorare di arcobaleno le pagine bianche dei cuori e delle menti dei bambini?

L’associazione femminile Soroptimist International ha realizzato per gli alunni di tutte le classi delle elementari – circa un centinaio di studenti – un progetto per la decostruzione degli stereotipi di genere, come oggi si usa dire. Insomma per inculcare nelle verdissime anime dei bambini l’idea che uomo e donna sono così uguali che si possono vestire allo stesso modo e possono usare gli stessi giochi. La presidente del Tigullio di Soroptimist, nonché ginecologa, Laura Grimaldi spiega: «Abbiamo scelto il tema della parità di genere […] facendo confrontare i bambini con la psicologa Alice Garbarino, oltre che con le loro insegnanti».

E così ecco un disegno di un uomo con il kilt e sotto la scritta: «La gonna è per tutti». La strategia è furba: prendere ad esempio il kilt per dimostrare che anche gli uomini possono mettere la gonna. Ma l’obiezione è facilmente superabile: in Scozia quel particolare tipo di gonna – e non tutti i tipi di gonna – è un capo di abbigliamento fortemente maschile, in molti altri contesti culturali la gonna è capo di abbigliamento squisitamente femminile. È una convenzione e costrutto sociale? Sì, ma voluto per identificare la differenza uomo-donna, per marcare la loro appartenenza sessuale. Citando quindi il kilt ci si dà la zappa sui piedi, perché nel contesto culturale scozzese è un indumento esclusivamente maschile: il kilt esalta la mascolinità dell’uomo che lo indossa, non la deprime né la confuta. Un vero autogol, dunque. In Italia, di contro, la gonna è ancora indumento esclusivamente femminile. E perciò far indossare in Italia la gonna ad un uomo è un modo o per femminilizzarlo oppure per cancellare la differenza sessuale, non certo per esaltare la sua virilità.

Il Secolo XIX, nell’articolo A scuola giochi unisex, racconta che un altro disegno realizzato dai bambini è accompagnato dalla scritta «I Lego sono per tutti» e in un altro si può vedere un cowboy con tanto di tacchi. L’articolo ci informa che, nonostante questi disegni commissionati dai responsabili del progetto per dis-orientare gli alunni verso l’indifferenza sessuale, per questi bambini dalla dura cervice alcuni giochi e colori sono adatti ai maschi e altri alle femmine. Ma quando si chiede loro il motivo, non sanno rispondere. Il lettore è così incline a pensare che l’azzurro e il rosa e le pistole e la Barbie hanno una loro caratterizzazione sessuale solo perché stereotipi artificiosi calati dall’alto, costrutti patriarcali imposti per secoli, ma assolutamente arbitrari. Non ci sarebbe quindi una valida motivazione antropologica, incardinata nella natura dell’uomo, per spiegare l’attribuzione di colori e giochi a seconda del sesso, tanto è vero che i bambini, così facilmente influenzabili dagli stereotipi, non sanno spiegare perché le femmine si vestono di rosa e i maschi usano le pistole.

Rispondiamo in sintesi. In merito ai colori ripetiamo la spiegazione già fornita per il kilt: un certo portato culturale vuole giustamente assegnare ad alcuni colori un caratteristica riferita al sesso, questo per marcare l’identità sessuale maschile e femminile, perché grazie anche ai colori uomini e donne si possano identificare nel proprio sesso biologico e mostrarlo con soddisfazione agli altri. In tal modo una donna che userà il rosa si sentirà più donna ad esempio. Una convenzione maturata nei secoli, ma rispettosa della natura umana che si manifesta nella duplicità dei sessi. Un costrutto sociale, ma assolutamente in accordo all’identità sessuale delle persone. Quindi non tutte le consuetudini sono da rigettare, ma solo quelle contrarie alla dignità personale. Ed infine un distinguo importante: i colori sono una convenzione, ma il sesso non è una convenzione inventata dagli uomini, bensì una realtà che gli uomini devono riconoscere.

In merito ai giochi invece il riferimento deve essere alla diversa psicologia femminile e maschile, quindi alle diverse attitudini, sensibilità, orientamenti. L’uomo e la donna hanno diverse inclinazioni naturali proprio perché differenti non solo fisicamente, ma anche metafisicamente e dunque psicologicamente. La diversità naturale porta a scegliere anche giochi diversi. Diversità che, ovviamente, si fonda sull’identica dignità personale.

Veniamo infine al perchè i piccoli non sanno dare una spiegazione del fatto che ci siano colori differenti per maschietti e femminucce e giochi diversi a seconda del sesso del bambino. A tal proposito è sufficiente ricordare che l’incapacità di spiegare un fatto, non significa che il fatto sia necessariamente infondato. I bambini anche piccolissimi conoscono benissimo il principio di proprietà: sanno perfettamente quando una cosa è loro. E questo avviene per connaturalità. Il nome del formaggino Mio è una prova provata di questa asserzione. Però, tentate di farvi spiegare da un bambino di tre anni cosa sia la proprietà privata. Non saprà dirvi nulla. Ma la sua legittima ignoranza non cancella il fatto che esista la proprietà privata e che sin da piccolissimi riusciamo a riconoscerla.

Questo approccio femminista, che offre una splendida sponda alla teoria gender la quale predica, tra le altre cose, che l’identità sessuale deve lasciare il posto all’identità psicologica sessuale, ossia alla identità di genere – il sesso percepito è più importante del sesso biologico, tanto per intenderci – questo approccio, dicevamo, ha trovato terreno fertile laddove non avrebbe mai dovuto trovarlo, cioè in seno ad un istituto educativo retto da religiose. Ma, ahinoi, non ci stupiamo che sia accaduto. Il «Chi sono io per giudicare?» – frase pontificia volutamente ambigua perché non sappiamo se fosse riferita alla condizione omosessuale o alla responsabilità della persona omosessuale – ha figliato molte iniziative pastorali catto-gay ed infine Fiducia supplicans.

Cosa c’entra l’omosessualità con il progetto realizzato a Rapallo? C’entra eccome. Infatti l’omosessualità si poggia sull’implicito che la differenza sessuale è indifferente in tema di sentimenti e di eros. Maschio o femmina uguali sono. E dunque, viste tali premesse così autorevoli, cosa volete che sia, in una scuola cattolica, un corso per bambini ideato per seppellire la diversità sessuale sotto qualche metro cubo di inclusività e femminismo?





venerdì 28 giugno 2024

Figli tra droga e omicidi, lo sfascio della famiglia tollerante presenta il conto



Senza ipocrisie: l'odio visto nell'omicidio di Pescara rimanda all'incapacità di mostrare il bene e l'amore in famiglie tolleranti non solo sulle droghe, come emerge dal rapporto sulle tossicodipendenze, ma anche nella scelta delle cattive compagnie.


IL CASO PESCARA

EDUCAZIONE


 Andrea Zambrano, 28-06-2024

È davvero difficile provare ad inquadrare con le nostre categorie la violenza cieca e bestiale che ha visto protagonisti i due ragazzi appena sedicenni di Pescara, che hanno ammazzato con 25 coltellate il loro coetaneo Christopher Thomas Luciani per una questione di droga. Come è possibile uccidere un essere umano per appena 250 euro di debito? E poi, dopo averlo lasciato morente tra le sterpaglie di un parco cittadino, andarsene in spiaggia come niente fosse, farsi i selfie e mostrare i muscoli?

È evidente che in questo caso siamo ben al di là delle dinamiche di violenza giovanile, di gang, di disagio. Quei ragazzi erano figli di un carabiniere e di un’insegnante; dunque, da famiglie così “per bene” non ci si aspetterebbe una deriva così abissale verso l’odio. Ma è un puntatore sbagliato, che riproduce letture “classiste” che nel campo dell’educazione sono state superate da un bel po’. Oggi, ad uccidere sono i ragazzi, indipendentemente dalla posizione dei genitori, perché a mancare è proprio un aspetto educativo che può essere assente anche nelle famiglie benestanti, perché il male è dentro il cuore dell’uomo, non nella loro posizione sociale.

Dunque, sgomberato questo fattore, rimane l’elemento droga che è centrale, ma non scatenante. I due ragazzi, stando a quanto riportato nel decreto di fermo del Gip di Pescara, avevano fumato uno spinello, ma non erano strafatti e completamente sganciati dalla realtà. Anzi, che fossero lucidi, lucidissimi è testimoniato dai racconti dei coetanei.

Quindi c’è qualcos’altro che alimenta questo odio capace di spegnere una vita per così poco, per il solo gusto di – scrive il giudice - «vederla soffrire» e al quale poi la droga offre un detonatore devastante.

Ed è da ricercare in una totale assenza di empatia verso l’altro che non può che inquietare.

Come si fa vivere senza un bene, un amore per l’altro essere umano? Significa che quei due ragazzi hanno vissuto per molto tempo senza quel riferimento di bene e di amore, non lo hanno respirato in casa nell’esempio e nella testimonianza e forse non lo hanno nemmeno assimilato nell’insegnamento a scuola. Nessuno ha portato loro ad assorbire nella loro vita la pietà che si genera dal riconoscere il bene dell’altro. Quell’altro che viene così calpestato come un insetto.

È inevitabile tornare, così, alle famiglie. Non per emettere sentenze, né giudizi, ma non si può ipocritamente dire che così fan tutti e che non bisogna giudicare i contesti famigliari in cui un ragazzo è cresciuto per sospendere così il giudizio sulle cose e allargare le braccia.

Certo, la musica trap fa da amplificatore perché indica ai ragazzi un modo di vivere violento e malsano, ma prima o poi il fermarsi a riflettere su che cosa sono diventate le famiglie oggi, ci aiuta per lo meno a orientarci e ad ammettere che anche le famiglie sono malate perché sono in crisi, perché tutto oggi porta a mettere in crisi le famiglie.

Negli stessi giorni in cui la cittadina adriatica veniva sconvolta da questo terribile fatto di cronaca, l’Osservatorio sulle tossicodipendenze ha pubblicato dei dati choccanti sull’uso degli stupefacenti nei ragazzi. Ce ne siamo occupati ieri QUI.

Ma nel report consegnato al Parlamento, c’è anche uno studio pilota rivolto proprio alle famiglie e alla loro percezione e competenza sul fenomeno degli stupefacenti. Quello che emerge non è meno choccante dei dati nudi e crudi sull’uso di droghe.

Su un campione di circa 5000 genitori, l’indagine ha individuato tre grandi problemi che possono essere delle metastasi educative.

Riguardo al consumo di cannabinoidi, si legge che circa la metà dei genitori intervistati ritiene che il consumo di hascisc e derivati vada contestualizzato prima di essere giudicato. Siamo così di fronte a genitori che, invece di allarmarsi di fronte all’uso che i figli fanno delle droghe, provano a minimizzare il fenomeno, cercando di inquadrarlo dentro non si sa bene quale fenomeno giovanile più o meno passeggero.

Dai dati emerge inoltre che chi possiede un elevato titolo di studio è maggiormente tollerante verso alcol e cannabinoidi, mentre si rivela più intollerante verso il consumo di tabacco e sigarette elettroniche. Il salutismo è una delle nuove ideologie dell’epoca moderna, perché se non ci si rende conto che è ben più grave l’uso di droghe di quello del tabacco, significa che la tolleranza ha preso il posto di una falsa accettazione del fenomeno droga, forse perché molti genitori intervistati da giovani facevano così «e in fondo a noi non è successo niente».

C’è poi un ulteriore dato: «A fronte di un 12% di genitori che ancora non si è informato in merito ai rischi, la maggior parte lo ha fatto attraverso televisione, radio e social», che, guarda caso, sono i principali estensori di una visione della droga leggera esclusivamente ricreativa, con campagne martellanti volte alla sua liberalizzazione e delle quali i Radicali alla Marco Cappato e molti partiti di Sinistra danno voce con una responsabilità morale evidente. Campagne che alterano la percezione del rischio, che presentano la droga come fenomeno innocuo ed esclusivamente inserito dentro una responsabilità personale di cui non rendere conto a nessuno. È un problema anche politico e bene ha fatto il Sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano a mettere in luce nel presentare il rapporto proprio questa tolleranza genitoriale così distruttiva.

Genitori che minimizzano la droga, la tollerano e la conoscono solo dalle escrescenze comunicative di un sistema mediatico che quella stessa droga la promuove “a diritto” non possono che produrre figli ad altissimo rischio tossicodipendenza. A cui poi i ragazzi, con la mancanza di riferimenti, di bene e di criteri di scelta aggiungono tutto il loro carico di odio che gli deriva da disagi più o meno sopiti.

Due genitori del caso Pescara hanno illustrato un aspetto fondamentale, ma spesso taciuto ai genitori stessi, perché difficile da accettare e da gestire: quello delle cattive compagnie. Il primo è una mamma che ha una figlia coetanea di uno dei due assassini, che era stata a scuola con lui. Ha detto che il giovane un anno fa aveva tentato il suicidio ed era entrato nella spirale distruttiva dell’hascisc, girando per strada come uno zombie; il secondo è un papà di uno dei ragazzi coinvolti nel delitto, ma non accusati di omicidio.

È anch’egli un carabiniere e suo figlio è quello che, parlando col fratello e poi coi genitori, ha fatto appello alla sua coscienza decidendo di raccontare tutto alla Polizia. Dice il papà: «La risposta era rassicurante e per certi versi ingannevole. Mi diceva (il figlio ndr.) “esco con il mio amico, figlio di un avvocato” oppure “mi vedo con quell’altro, figlio di un tuo collega”. Avrei dovuto indagare più a fondo? Avrei dovuto non accontentarmi?». Sono parole che chi è genitore comprende in tutta la loro disarmante verità.

Quando tuo figlio esce con coetanei dei quali tu genitore non hai stima o che non consoci o dei quali hai sentito parlar male, il primo compito di un padre non è quello di «non giudicare», ma quello di verificare i contesti famigliari e se è il caso di impedire anche fisicamente ai propri figli di proseguire nel frequentare certe compagnie. È politicamente scorretto dirlo, ed è difficile per un padre e una madre, perché significa salire con i figli su un ring permanente, accusati di voler entrare nella vita dei figli e orientarne le scelte. Però è l’unica strada, a volte, per illustrare loro che c’è qualcuno che ha a cuore il loro bene, mostrandogli così una via per raggiungerlo, che è fatta anche di rinunce e di messa in ordine delle priorità. Eppure bisognerebbe affermare con fermezza che sulla scelta delle amicizie, i genitori possono e devono avere voce in capitolo e se è il caso l'ultima parola.

Nessun giovane nasce assassino, ma lo diventa se l’aria che respira è un’aria di morte e le compagnie possono coltivare quest’aria mortifera. Non è un caso che il delitto di Pescara, se da un lato vede due ragazzi responsabili di omicidio, dall’altro vede un’intera compagnia di amici coinvolta, con livelli diversi di implicazione e partecipazione, ma una compagnia che, comunque, dopo il fatto, si è data appuntamento in spiaggia come niente fosse.

Il classico “no”, proverbiale “no”, così “boomer” “no” e sofferto “no” pronunciato dai genitori, non solo alla droga, ma anche alla musica che si ascolta e financo agli amici che si frequentano, costa fatica, provoca urla tra le mura domestiche, fa vivere i genitori in uno stato perenne di inadeguatezza, ma alla fine può essere uno dei pochi “no” in grado di salvare vite e farle germogliare.

Nessuno impara a scuola a farlo. L’unica scuola è quella di un amore verso l’altro impopolare e scomodo, capace di annullare anche se stessi e le proprie comodità. Molti genitori di oggi, feriti dalla vita, impoveriti dalla loro stessa solitudine, generati nella dinamica ultra permissivista del vietato vietare di sessantottina memoria consegnatoci da decenni di propaganda anti familista e libertaria, non sono più capaci di questo amore.





Aborto e difesa della vita (1974-2024)





di Roberto de Mattei, 26 Giugno 2024 

Il 12-13 maggio 1974 il divorzio venne confermato in Italia da un referendum che vide prevalere i “no” all’abrogazione della legge divorzista del 1970 con il 59,3% dei voti. I risultati del referendum, secondo i mass-media, rivelavano l’esistenza di un paese ormai “avanzato”, nel campo dei “diritti civili”, come gli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Scandinavia. “La Stampa”, il quotidiano della famiglia Agnelli, il 14 maggio titolava a tutta pagina: «L’Italia è un paese moderno. Vince il NO il divorzio resta».

In realtà, il sentimento cattolico era ancora forte nel paese. Molti italiani avevano votato il divorzio per rispettare il principio della “libertà di coscienza”, seguendo il sofisma per cui il matrimonio restava indissolubile per chi lo riteneva tale, ma dava la possibilità di divorziare a chi non ci credeva. Il problema in realtà non riguardava la vita dei singoli, ma le basi stesse della società che aveva nel matrimonio indissolubile un suo pilastro. Il crollo di questo fondamento avrebbe portato in breve tempo alla disgregazione della famiglia come istituzione sociale.

Pochi comprendevano che il divorzio era solo la prima tappa di una dinamica rivoluzionaria che non si sarebbe arrestata. Eppure, fin dal 1973, il padre della legge divorzista, Loris Fortuna, massone e deputato socialista, aveva presentato in Parlamento il primo progetto di legge per la parziale depenalizzazione dell’aborto. La campagna abortista fu inaugurata, immediatamente dopo i risultati del referendum del 1974. Questa campagna si inseriva nel quadro di due rivoluzioni culturali di portata planetaria: il Concilio Vaticano II (1962-1965) e la rivolta studentesca (1968). L’Italia aveva inoltre il principale partito comunista d’Occidente che nelle elezioni regionali del 1975, e poi in quelle politiche del 1976, conobbe un’affermazione senza precedenti.

L’esistenza di un’Italia cattolica dalle radici ancora profonde era confermata dal fatto che il PCI, nella sua marcia di conquista del potere, affermava di voler andare al governo “con”, e non “contro”, i cattolici. Era la strategia del compromesso storico, teorizzata da Enrico Berlinguer. Questa strategia prevedeva che, mentre il PCI tendeva la mano ai cattolici, una minoranza aggressiva avrebbe operato per scardinare le leggi conformi all’ordine naturale e cristiano. I comunisti e i socialisti aiutavano il Partito Radicale di Marco Pannella a raccogliere le firme per un referendum che avrebbe abolito ogni norma antiabortista del nostro ordinamento giuridico, ma il loro obiettivo, era quello di costringere i democristiani a trovare un compromesso sull’aborto in Parlamento. Nel dicembre del 1975, il presidente del Consiglio dei ministri Aldo Moro dichiarava la neutralità del governo in tema di aborto. La proposta di legge unificata abortista, grazie alla desistenza dei deputati della DC nei lavori delle commissioni, giunse nelle aule della Camera e del Senato dove fu definitivamente approvata il 19 maggio, con le defezioni determinanti della Democrazia Cristiana. Sulla Gazzetta Ufficiale del 22 maggio 1978, la legge n. 194, che autorizza l’omicidio, fu promulgata a firma di parlamentari tutti democristiani a cominciare dal Presidente della Repubblica Giovanni Leone e dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti.

In quegli anni Alleanza per la Vita, l’associazione legata ad Alleanza Cattolica e presieduta da Agostino Sanfratello, si batté con vigore contro l’aborto, denunciando la diserzione dei deputati cattolici ed organizzando il primo convegno internazionale per la vita, che si svolse a Roma dal 25 al 27 aprile 1980 (https://www.corrispondenzaromana.it/alle-origini-del-movimento-pro-life-internazionale/). Al tradimento democristiano iniziò ad accompagnarsi da allora quello dei vescovi italiani. Negli ultimi cinquant’anni, tutti i direttori del giornale dei vescovi “Avvenire”, da Angelo Narducci (1969-1980) a Pier Giorgio Liverani (1981-1983), da Dino Boffo (1994-2009) a Marco Tarquinio (2009-2024), seguendo le direttive della Conferenza Episcopale Italiana, hanno avuto nel mirino, come i peggiori nemici, non le forze abortiste, ma quelle anti-abortiste che hanno sistematicamente denigrato o ignorato. Il primo di questi direttori, Angelo Narducci, eletto al Parlamento europeo nel 1979, il 18 luglio dello stesso anno contribuì, con il suo voto, all’elezione a presidente dell’assemblea di Simone Veil, la promotrice della legge sull’aborto in Francia. L’ultimo direttore, Marco Tarquinio, in un’intervista rilasciata il 15 giugno 2024, all’indomani della sua elezione a europarlamentare, ha criticato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, per l’esclusione della parola “aborto” dai documenti finali del G7 appena conclusosi (https://www.corrispondenzaromana.it/puo-lex-direttore-di-avvenire-sostenere-laborto-e-dirsi-cattolico/).

A partire dal 1981 i vertici politici ed ecclesiastici trovarono il loro uomo di fiducia in un magistrato fiorentino, Carlo Casini, a cui affidarono il compito di guidare il neonato Movimento per la Vita. La consegna fu precisa: evitare in tutti i modi lo scontro politico e ideologico sull’aborto sostituendo allo slogan “No alla 194” quello “Sì alla Vita”. Soprattutto era necessario evitare manifestazioni di piazza, che potessero sfuggire al controllo dei vertici, come le Marce per la Vita che andavano nascendo un po’ dovunque nel mondo. Casini, fedele alle consegne, fu premiato con il seggio parlamentare alla Camera dei Deputati e quello, per lunghi anni, al Parlamento europeo, mentre la CEI assicurava il suo sostegno finanziario al Movimento per la Vita.

Agli inizi del 2000, alcuni giovani intellettuali cattolici, come Francesco Agnoli e Mario Palmaro, iniziarono a mettere in discussione la strategia disfattista del Movimento per la Vita, mentre Giuliano Ferrara con il partito Aborto? No grazie, cercava, senza successo, di portare il dibattito sulla vita in Parlamento. La CEI tentò di riprendere in mano la situazione organizzando nel maggio 2007 un grande Family Day che si rivelò però un fuoco di paglia. Nacque così, come un fiore nel deserto, senza negoziazioni al vertice, la Marcia Nazionale per la Vita che, dopo un felice esordio a Desenzano nel 2011, si svolse regolarmente per dieci anni consecutivi a Roma, sotto la guida di Virginia Coda Nunziante, all’insegna dello slogan “No all’aborto, senza eccezioni e senza compromessi”.

Intanto il neurochirurgo di Brescia Massimo Gandolfini, con un gruppo di collaboratori provenienti come lui dal Cammino Neocatecumentale, si proponeva come interlocutore al mondo politico ed ecclesiastico più sensibile ai temi della vita e della famiglia. Gandolfini, con l’ex-deputato del PD Mario Adinolfi, il 20 giugno 2015 promosse in piazza San Giovanni a Roma un nuovo Family Day, ma non riuscì a replicarlo negli anni successivi. Altrettanto insuccesso ebbe Adinolfi con il partito “Il Popolo della Famiglia” da lui fondato. La pandemia del 2020-20021, che divise i cattolici pro-life su questioni di ordine sanitario, spinse Virginia Coda Nunziante a lasciare la presidenza della Marcia per la Vita, da lei fondata con Francesco Agnoli dieci anni prima. Alla testa della nuova “Manifestazione per la Vita”, che si è svolta il 22 giugno 2024 è Massimo Gandolfini che nel marzo 2019, partecipando al Congresso delle famiglie di Verona, aveva dichiarato di voler far propria la linea indicata dall’allora presidente della CEI Gualtiero Bassetti: «non trasformare la famiglia in un’occasione di scontro».

La Manifestazione per la Vita del 2024 si è svolta sullo stesso percorso delle precedenti Marce, ma in evidente discontinuità con esse, nella forma e nei contenuti. L’obiettivo di abrogare la 194 non è mai stato affermato, mentre il corteo era aperto da alcune ragazze “Pon Pon” seminude, che davano alla manifestazione il tono di una “kermesse” priva di vigore morale e di spirito combattivo. E’ questo il futuro del movimento pro-life in Italia? Non si tratta di inutile polemica. La maggior carità che si può fare al nostro prossimo è sempre quella della verità, soprattutto quando è in gioco la vita umana e il bene delle anime.





giovedì 27 giugno 2024

Latino: lingua sacra e immortale




26 GIUGNO 2024



Lettera aperta di padre Spataro sull’intervista di MiL al prof. Grillo



Gentile Dott. Casalini,

Da attento lettore di MiL non posso che ringraziarla per l’ampia attenzione dedicata alla recente intervista rilasciata dal prof. Andrea Grillo sulla “Missa iuxta Ritum Romanum antiquiorem” (mi permetto di ricordare en passant che in lingua latina antiquior/ius ha pure e principalmente il significato di “più importante”) e alle reazioni che ha suscitato in illustri commentatori. I non pochi fedeli che leggono MiL, ai quali è invece del tutto ignoto il nome del prof. Grillo, e che avvicino nel servizio pastorale apprezzano molto le idee promosse dal sito da Lei lodevolmente diretto.

Le opinioni del prof. Grillo hanno suscitato in me grande perplessità. Tuttavia, vorrei soffermarmi su un unico punto, solo apparentemente marginale, laddove ha parlato di “lingue morte” conevidente riferimento alla lingua latina. Il mio stupore nasce da tre motivi.

Anzitutto, in altro articolo, risalente al 2021, facilmente rintracciabile sulla rete, lo stesso prof. Grillo, nega che tale possa essere considerata la lingua latina.

In secondo luogo, tra gli studiosidi questo tipo di fenomeni storico-linguistici, superando la dicotomia lingue vive/lingue morte, si preferisce parlare a proposito del latino e della sua storia peculiare di “lingua immortale”: il grande filologo Wilfried Stroh è stato autore di un fortunatissimo saggio intitolato “Latein ist tot: lebe Latein!”.

In terzo luogo, il latino assolve nel rito romano, prima e dopo la cosiddetta riforma liturgica postconciliare, la funzione di “lingua sacra”, come gli studiosi del calibro della Scuola di Nimega, tra cui l’eccellente Christine Mohrmann, sicuramente non ignota al prof. Grillo, hanno mostrato con solidi argomenti. Solo la lingua sacra, proprio perché sottratta all’uso quotidiano, lungi dall'essere "morta", dispone di una vitale carica espressivo-performativa religiosa che sostiene e promuove l’“actuosa participatio”.

In conclusione, mi sembra che l’utilizzo dell’espressione “lingue morte”, con riferimento al latino, sia stato un punto decisamente infelice dell’intervista del prof. Grillo, che riecheggia conversazioni di ragazzi di scuola superiore di primo livello che dileggiano i loro compagni che frequentano il Liceo Classico.

Satis intelligentibus.

Colgo l’occasione per salutarla con molta cordialità

Sac. Prof. Roberto Spataro*, sdb







*Segretario emerito della Pontificia Academia Latinitatis
Socio ordinario dell’Academia Latinitati Fovendae





Francia, la mezzaluna avanza nelle scuole e nelle aziende



Tensioni sempre più frequenti oltralpe per le pretese di studenti o dipendenti islamici di imporre i dettami del Corano a scuola o sul posto di lavoro. Con il supporto di sindacati di estrema sinistra e l'anomala convergenza con la lobby arcobaleno.

ISLAMIZZAZIONE

ESTERI 



Lorenza Formicola, 27-06-2024

Siamo nel ventesimo arrondissement di Parigi, e il preside del liceo Maurice-Ravel, nel timore di andare incontro al medesimo destino di Samuel Patty o Dominique Bernard – due delle tante vittime dell’islamizzazione delle scuole d’oltralpe: sgozzate per aver parlato d’islam non come i musulmani vorrebbero –, ha deciso per il pensionamento anticipato. Tutto inizia il 28 febbraio, quando, il preside ricorda a tre studentesse di togliere il velo prima di entrare in aula, come vuole la legge. Due obbediscono, la terza no. Invitata a lasciare la scuola, sporge denuncia per “violenze” (poi archiviata per mancanza di prove) e si affida alla pagina Facebook del Collectif contre l’islamophobie en Europe (associazione dissolta per propaganda islamista nel dicembre 2020). Secondo il meccanismo ormai consolidato, la comunità islamica si è sollevata: piovono violentissime minacce di morte contro il preside che trenta giorni dopo decide di lasciare, certo di non poter godere di nessuna protezione.

Gli analisti registrano come i giovani immigrati di seconda e terza generazione ostentino un esacerbato ossequio nei confronti del loro credo, certamente maggiore dei loro genitori o nonni. E così accade che nelle scuola sia sempre più difficile far rispettare le regole ordinarie, quelle che valgono per tutti. A Mayotte, dipartimento d’oltremare della Francia, e dove la popolazione musulmana è già al 95%, la nuova università aperta per volontà dell’ex primo ministro Élisabeth Borne lo scorso gennaio è stata inaugurata da un rappresentante musulmano con tanto di preghiera islamica. Tempo tre mesi, è stata anche allestita una sala di preghiera, arrivata persino prima degli uffici per i professori.

In tutta la Francia gli studenti polemizzano per i programmi scolastici e per ogni sorta di regola che non risponda all’islam. Dimostrano di voler rimanere sostanzialmente “diversi” in attesa di plasmare ogni cosa secondo i dettami islamici. Non vogliono studiare storia dell’arte, scienze e storia, mentre l’ora di educazione fisica vede le ragazze presentare costantemente un certificato medico per non indossare la divisa sportiva. Durante il Ramadan, a mensa c’è una tensione costante.

Bernard – nome fittizio di un professore di Hauts-de-Seine – descrive a Le Figaro l’ingerenza dei sindacati di estrema sinistra che difendono e sponsorizzano il “comunitarismo” islamico. Risultato? «Gli insegnanti sono terrorizzati all’idea di parlare apertamente. Vi racconto il mio caso: nella mia classe avevo studenti segnalati come “Fiche S” – quanti sono considerati potenzialmente una minaccia per la sicurezza dello Stato –, ma nessuno mi ha mai detto chi fossero e perché erano stati segnalati. Una volta uno studente salafita mi ha minacciato di morte perché secondo lui avevo detto inesattezze sul re del Marocco. Ogni volta che c’è da affrontare il tema della Shoah è una tragedia. Apertamente, durante la lezione, c’è chi si rammarica che i nazisti “non abbiano portato a termine il lavoro” sostenendo che “gli ebrei si siano meritati ogni cosa”. Guai a denunciare l’antisemitismo. Sai di essere solo di fronte a questo problema e che nessuno ti difenderà nel mondo della scuola».

Ma l’islamizzazione avanza anche in gran parte del mondo del lavoro. RATP, EDF, La Poste, Orange, Stellantis (ex PSA Peugeot), BNP Paribas: non si contano le aziende, pubbliche o private, che hanno adottato una guida per aiutare il loro dirigenti a gestire le “richieste religiose”. Secondo il report condotto dall’Institut Montaigne sulle tensioni sul posto di lavoro, nel 2022 il 22% erano legate all’islam. Nel 2013 erano il 6%. «In molte aziende si improvvisano cartelli esplicativi su cosa possono e non possono fare i dipendenti proprio per far fronte all’entrismo islamico. Nel 20% delle aziende (grande distribuzione, logistica, subfornitura aeroportuale, pulizia, sicurezza, etc.), si riscontrano situazioni di grande tensione, con opposizione alla dirigenza e misoginia di “ispirazione religiosa”», commenta l’autore di uno studio a riguardo, l’accademico Lionel Honoré.

Le aziende hanno difficoltà, per esempio, ad imporre un capo donna a uomini islamici. E durante il Ramadan c’è la pretesa di fare un orario ridotto. Lo scorso aprile, il direttore di un negozio Geox di Strasburgo ha ricevuto minacce di morte – che qualcuno ha definito, per entità ed eco, una specie di fatwa –, corredate da un video denuncia che ha superato in poche ore il milione di visualizzazioni, per aver rifiutato di accettare che la donna che stava per assumere indossasse il velo nelle ore di lavoro.
Le grandi aziende, invece, onde evitare problemi simili, da H&M a Uniqlo, accettano di buona lena che le commesse siano velate, anche dalla testa ai piedi.

Dal 2010 le aziende, soprattutto nella regione parigina, si sono rese conto, forse per la prima volta, che l’espressione religiosa di alcuni dei loro dipendenti si stava trasformando in separatismo. Mense trasformate in sale di preghiera, autisti che rifiutano di mettersi al volante dell’autobus se nel turno precedente c’è stata una donna, bagni riservati alle abluzioni, scale d’improvviso privatizzate il venerdì a mezzogiorno per la preghiera.

L’islamizzazione non solo sta cambiando irrimediabilmente il volto del Paese – vedi la difficoltà di trovare un taxi all’aeroporto, la sera, nelle settimane del Ramadan – ma si registra anche un’anomala convergenza di lotta tra la lobby Lgbtq e quella islamica: la religione è diventata una rivendicazione identitaria come tutte le altre di moda in tempi recenti. Basti pensare al successo di una sorprendente campagna pubblicitaria della Planned Parenthood francese con tanto di donna velata che rivendica per sé il nuovo pronome “eil”, che nella lingua francese è utilizzato dalle persone che si definiscono non-binarie e dunque non si riconoscono né nel genere maschile né in quello femminile.

Secondo l’ultimo studio Havas, realizzato da Arielle Schwab e Benoît Loz, lo scorso marzo, nelle aziende francesi il 34% dei dipendenti approva l’uso del velo, rispetto al 29% nel 2021. E la percentuale sale al 53% tra gli under 35, contro il 41% nel 2023. In nome di una certa inclusività, alcune aziende si giocano allora l’asso vincente: Ikea offre direttamente ai propri dipendenti un velo con il logo dell’azienda. Visti i problemi con il Ramadan, invece, l’azienda olandese di passeggini Bugaboo ha deciso di offrire ai dipendenti la possibilità di scegliere i giorni festivi in base alla loro religione.

L’islam cambia la Francia, ma per Parigi non è un problema.





Nessuna misericordia per gli amanti delle Messe in latino?


Roma, basilica papale di san Pietro, 15 maggio 2011: all’altare della Cattedra, il card. Brandmüller celebra la Santa Messa secondo il rito tradizionale


Articolo scritto da Mons. Charles Fink, pubblicato su The Catholic Thing. Traduzione curata da Sabino Paciolla (27 Giugno 2024).





Mons. Charles Fink

Voglio essere perfettamente chiaro, come piace dire ai politici: Non ho alcun interesse a promuovere la Messa latina tradizionale. Anzi, sono stato allevato come episcopale e quindi, se fossi preso da un attacco di nostalgia, mi struggerei per la versione di Re Giacomo della Bibbia e per una liturgia modellata sull’inglese insuperabilmente elegante del vecchio Book of Common Prayer. Inoltre, sono entrato nella Chiesa cattolica dopo la chiusura del Concilio Vaticano II e non ho vissuto l’esperienza di una Messa tridentina fino a quando, dopo una trentina d’anni di sacerdozio, sono stato direttore della formazione spirituale in un seminario.

Se non ricordo male, quella Messa veniva offerta una volta al semestre, in modo che i seminaristi la conoscessero bene. Non so dire quanti siano stati trasportati dall’esperienza. Io non lo sono stato. A volte scherzo sul fatto che il motivo principale che ha spinto lo Spirito Santo a permettere l’abbandono quasi totale della liturgia latina a favore di quella vernacolare è stato quello di rendere possibile la mia ordinazione, perché dubito fortemente che avrei mai potuto padroneggiare il latino. E anche ora, se improvvisamente venissero ripristinate e rese obbligatorie le Messe in latino, probabilmente dovrei scivolare nell’invisibilità e chiedere il permesso di offrire Messe private in inglese.
Non sono certo, quindi, uno strenuo sostenitore o promotore della Messa latina tradizionale e ancor più non metto in dubbio la validità o l’efficacia della Messa che celebro quotidianamente da quasi cinquant’anni. Detto questo, posso affermare senza esitazione che alcuni dei più bravi, dedicati, pastorali e fedeli sacerdoti che ho conosciuto nel corso di questi decenni, sacerdoti di tutte le età, hanno amato la Messa latina tradizionale e hanno desiderato, e continuano a desiderare, che sia resa disponibile ai fedeli la cui esperienza è stata molto diversa dalla mia.

Molti di questi fedeli sono giovani, e tra loro non pochi sentono il richiamo di una vocazione religiosa. Alcuni di loro possono essere estremi nella loro critica al Novus Ordo e nel loro desiderio, se dovessero essere ordinati, di servire solo coloro la cui visione liturgica coincide con la loro. Ma sono l’eccezione, non la regola.

Mi chiedo allora come sia possibile che in una Chiesa dai molteplici riti liturgici approvati e dai molti adattamenti culturali della pratica liturgica, una Chiesa che è disposta a tendere la mano senza riserve alla Cina comunista (che perseguita brutalmente le minoranze religiose) e alla comunità LGBTQ, che recentemente ha mostrato il suo totale disprezzo per tutto ciò che è cattolico trasformando una liturgia funebre nella Cattedrale di St. Patrick’s Cathedral di New York in un circo, il Vaticano non riesca a trovare nel suo cuore compassionevole e accompagnatore la possibilità di permettere ai cattolici che amano la Messa latina tradizionale, che esiste da secoli, di celebrare il culto nel modo che desiderano, con la benedizione della Chiesa.

Ciò potrebbe persino contribuire ad alleviare la fatica di dover celebrare Messe in decine di lingue in una stessa domenica nella stessa diocesi.

Anni fa, in una parrocchia in cui ero parroco, una donna anziana mi si avvicinò con le lacrime agli occhi. Non la vedevo da tempo e voleva spiegarmi. Mi disse che amava la nostra parrocchia, ma che, soprattutto dopo la morte del marito, era emotivamente svuotata, in lutto e cercava di sentirsi a casa con il Novus Ordo come con la Messa tridentina. Così aveva trovato una parrocchia in cui si sentiva a casa e confortata. Continuò a sostenere la nostra parrocchia, ma la domenica si recava in un’altra chiesa, che sono abbastanza sicuro non fosse all’epoca approvata da Roma.

Che cosa ha da dire il Vaticano a una persona del genere: “Lasciatele mangiare la torta”? Certo, era anziana ed emotivamente legata a qualcosa che aveva conosciuto e amato per la maggior parte della sua vita. Certo, questo non è il caso della maggior parte di coloro che sono attualmente innamorati della Messa latina tradizionale. Tuttavia, molti di questi cattolici sperimentano Dio, la Sua grazia e il Suo amore trascendente in questa Messa, come non fanno con il Novus Ordo (come, ripeto, faccio io). Perché mettere in dubbio le loro motivazioni? Perché deriderli? Perché ostracizzarli?

A quanto pare l’FBI considera i cattolici tradizionali una seria minaccia per ciò che resta della nostra democrazia. Se questo è ciò che chiamano tenerci al sicuro, mi sento davvero molto insicuro. Il Vaticano, in un mondo di caos morale, di massicce defezioni dalla Chiesa tra i cattolici di base e di una perdita ancora maggiore di fede nella verità cattolica fondamentale, sembra pronto a spendere il suo capitale morale, limitato e in diminuzione, per emarginare i cattolici che desiderano la Messa latina tradizionale, per raggiungere coloro che disprezzano apertamente tutto ciò che rappresentiamo e per blaterare di cambiamento climatico e di altre questioni di tendenza. Se questo è ciò che passa per saggezza, allora segnatemi come uno sciocco.

Non molto tempo fa, in un’intervista con Colm Flynn di EWTN, il dottor Jordan Peterson si è preoccupato ad alta voce che la Chiesa cattolica avesse perso la fede nel suo messaggio fondamentale. Mi piacerebbe pensare che non sia vero, ma certamente sembra che qualcosa sia andato perso. Potrebbe essere il coraggio? Dopotutto, è molto più facile fare il bullo con un ometto che non rappresenta una minaccia per nessuno, piuttosto che affrontare i veri bulli che hanno dalla loro parte la maggior parte dei media, compresa l’industria dello spettacolo, e gran parte dell’intellighenzia occidentale.

Comunque sia, ecco un ex-episcopale che ama celebrare il Novus Ordo, ma che augura ogni bene a tutti gli amanti della Messa latina tradizionale. Almeno quando si tratta di una cosa del genere, chiamatemi “pro-choice”.






mercoledì 26 giugno 2024

La risposta di Alcuin Reid all’intervista del prof. Andrea Grillo. Sbagliato, professor Grillo – ci ripensi!



Risposta pubblicata il 20 giugno sul blog Rorate Cæli di Alcuin Reid, fondatore del Monastère Saint-Benoît di Brignoles e studioso di liturgia di fama internazionale, all’intervista al prof. Andrea Grillo, docente di Teologia dei sacramenti e Filosofia della religione presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo e Liturgia presso l’Abbazia di Santa Giustina [vedi]. 




di Alcuin Reid,

In mezzo alle «guerre della liturgia» di oltre un decennio fa, padre John Baldovin S.I. pubblicò un articolo: Idoli e icone: riflessioni sullo stato attuale della riforma liturgica (Worship 2010, n. 5). Egli sosteneva che alcuni erano dediti all’idolatria di certe forme rituali, lamentando di aver riscontrato «un tipo paradossale di narcisismo in certi atteggiamenti verso la liturgia, in cui le persone pensano di sostenere una maggiore trascendenza nello stesso momento in cui promuovono un atteggiamento idolatrico verso la liturgia stessa». Prendendo a prestito il fenomenologo francese Jean-Luc Marion, padre Baldovin sostiene che la liturgia dovrebbe invece essere iconica, dove (secondo le parole di Marion) «l’icona non è il risultato di una visione, ma ne provoca una… convoca la vista lasciando che il visibile si saturi a poco a poco dell’invisibile». Padre Baldovin cita ancora: «Nell’idolo lo sguardo dell’uomo è congelato nel suo specchio; nell’icona lo sguardo dell’uomo si perde nello sguardo invisibile che lo prospetta visibilmente» (pag. 389).


Padre John Baldovin S.I. è attento ad affermare che non considera il «rito romano tradizionale idolatrico» in sé, ma che pensa che «l’atteggiamento di insistere su di esso o su un ritorno a molte delle sue caratteristiche alla “riforma della riforma” sia idolatrico» nel modo descritto sopra. Ha ragione: la Sacra Liturgia non è un idolo morto da venerare. È invece un’icona vivente nel cui sguardo siamo attratti, che ci trasforma e ci forma in ciò che è «fonte e culmine» di tutta la vita cristiana.

Questa importante distinzione mi è venuta in mente leggendo la recente intervista del prof. Andrea Grillo al blog MiL-Messainlatino.it. Se c’è un esempio di idolatria di certe forme rituali e di «un paradossale narcisismo in certi atteggiamenti verso la liturgia, in cui si pensa di sostenere una maggiore trascendenza e allo stesso tempo si promuove un atteggiamento idolatrico verso la liturgia stessa», è proprio questo. Il prof. Grillo lo prende in un colpo solo!


Perché se c’è una cosa che sappiamo con certezza – grazie a un giornalismo d’inchiesta molto diligente – è che l’attuale autorevole regno del terrore contro l’usus antiquior del rito romano (le forme liturgiche preconciliari della Santa Messa, dei sacramenti, dei sacramentali ecc.) di cui si potrebbe quasi chiamare il buon prof. Andrea Grillo l’addetto stampa, nasce proprio da questa idolatria narcisistica delle riforme liturgiche promulgate dopo il Concilio Vaticano II. Esse sono scolpite nella pietra. Non è permesso parlare della loro riforma e parlare del loro abbandono a favore dell’uso vivo e crescente dell’usus antiquior è semplicemente un abominio che non può più essere tollerato – suggerisce l’impensabile: che tutto il sangue, il sudore e le lacrime versati per cambiare la liturgia non erano poi necessari. E nessuno può permettersi di dire questo.

In effetti, questo è considerato un tale abominio che un gruppo di Cardinali anziani a Roma, per la maggior parte non impegnati nel ministero pastorale, ha pensato di organizzare un sondaggio tra i Vescovi del mondo nel 2020. Sembrava come chiedere ai politici se volessero un aumento di stipendio, solo che, da quello che sappiamo, molti di loro hanno risposto di no! Vale a dire che le fughe di notizie che abbiamo sui risultati non pubblicati del sondaggio suggeriscono che i Vescovi del mondo non considerano l’usus antiquior un problema. Non veniva venerato come un idolo, ma di fatto serviva sempre più come icona di Colui che tutti siamo chiamati ad adorare.


Le loro Eminenze, tuttavia, non si lasciarono scoraggiare. Con le buone o con le cattive il Santo Padre è stato convinto a sostituire il card. Robert Sarah alla Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti con il card. Arthur Roche e mons. Vittorio Francesco Viola O.F.M. e a firmare la famigerata lettera apostolica in forma di «motu proprio» Traditionis custodes sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970 nel luglio 2021, con gli scagnozzi già pronti a garantirne la spietata attuazione. La riforma liturgica successiva al Concilio Vaticano II, che papa Francesco aveva curiosamente trovato la necessità nel 2017 di affermare «con certezza e con autorità magisteriale» come «irreversibile», è stata stabilita come «espressione unica della lex orandi del rito romano» (cioè l’unico modo veramente legittimo di praticare il culto) a cui i recalcitranti all’usus antiquior dovevano essere convertiti, se necessario con la coercizione, «nella costante ricerca della comunione ecclesiale», come insiste la lettera apostolica Traditionis custodes. Alcuni hanno attribuito la curiosa espressione «l’espressione unica…» all’influenza del prof. Andrea Grillo. Che io sappia, egli non ha mai confermato questa affermazione, ma se il cappello si adatta…

Il card. Arthur Roche non ha perso tempo nell’affilare la lettera apostolica in forma di «motu proprio» Traditionis custodes con chiarimenti stalinisti in nome del Santo Padre, come l’insistenza sul fatto che i servitori dell’altare all’usus antiquior abbiano il permesso del Vescovo diocesano e che tali Sante Messe non siano pubblicizzate nei bollettini parrocchiali eccetera, con l’intenzione dichiarata di portare tutti all’«espressione unica della lex orandi del Rito Romano». La campagna a questo scopo è stata portata avanti costantemente da allora, con la prospettiva di un’altra legislazione in arrivo che affronterebbe l’usus antiquior una volta per tutte.


In tutto questo il prof. Andrea Grillo si è mostrato compiaciuto nel ritenere che coloro che, come ha osservato Papa Benedetto XVI, «hanno scoperto questa forma liturgica [l’usus antiquior], ne hanno sentito l’attrattiva e hanno trovato in essa una forma di incontro con il Mistero della Santissima Eucaristia, particolarmente adatta a loro» siano in realtà, come afferma nell’intervista, persone arretrate che non comprendono il significato della tradizione e che formano «poco più di una setta che sperimenta la infedeltà come una salvezza, spesso legata a posizioni morali, politiche [presumibilmente intende cattive] e di costume del tutto preoccupanti» e che coltivano «la nostalgia del passato».

Sono inclusi in questo giudizio negativo gli oltre 18.000 pellegrini del Pèlerinage de Pentecôte da Parigi a Chartres («il futuro della Chiesa in Francia», secondo un Vescovo diocesano francese), le fedeli ed eroiche famiglie cattoliche che osano avere figli e crescerli con le forme liturgiche tradizionali, i seminari, i monasteri e le case religiose in cui l’usus antiquior è il cuore vivo e pulsante, e naturalmente ogni accademico che osa difenderne il valore continuo. Sono tutti membri di «un club della alta società [e di] una associazione per parlare una lingua strana o per identificarsi nel passato, coltivando ideali reazionari». L’uso della «lingua morta» del latino è deprecato (anche se il Concilio Vaticano II ha insistito per mantenerlo) e persino la povera cappa magna (lo strascico cerimoniale per Vescovi e Cardinali che è ancora un’opzione nei libri liturgici riformati) è condannata – il tutto perché «la tradizione non è passato, ma futuro».


Se questa intervista non fosse stata fatta a un professore di un’università pontificia romana e di un’importante facoltà liturgica italiana, le cui idee sembrano avere una certa influenza sulle politiche attuali della Santa Sede, sarebbe stata eminentemente da scartare. Ma poiché il prof. Andrea Grillo si trova in questa posizione, le sue risibili farneticazioni sono molto importanti per la mancanza di profondità teologica e di sensibilità ed esperienza pastorale che dimostrano e, anzi, per la loro esposizione del puro terrore che i partigiani dell’usus recentior hanno per l’usus antiquior.


Ironia della sorte, il prof. Andrea Grillo si lamenta a gran voce della scarsa capacità di ragionamento. Prendiamo la sua affermazione fondamentale: «la tradizione non è passato, ma futuro».


Nostro Signore ha insegnato che «ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52). Papa Benedetto XVI, chiarendo che l’usus antiquior non è mai stato abolito ed è quindi sempre stato in linea di principio consentito, e riconoscendo il suo valore pastorale nel XXI secolo e liberandolo da qualsiasi restrizione, ha agito di conseguenza: buona teologia e buona pratica pastorale, a mio avviso.


La Tradizione non è né il passato né esclusivamente il futuro. La Tradizione è la presenza viva nella Chiesa di oggi di tutto ciò che è stato tramandato dagli Apostoli e sviluppato nel corso dei secoli nella vita della Chiesa nel suo culto, nella sua dottrina e nei suoi costumi. In primo luogo comprende ovviamente ciò che è stato direttamente rivelato da Dio, di cui la Sacra Scrittura è un testamento singolarmente privilegiato e ispirato. Ma la Sacra Liturgia è il luogo in cui questa Tradizione vive, in cui la Scrittura viene letta nel suo contesto, in cui offriamo le nostre primizie a Dio Onnipotente nel culto come meglio possiamo (come dimostrano le magnifiche, ma diverse, forme di architettura ecclesiastica, la musica liturgica, i paramenti e altre forme di arte liturgica). I riti stessi della liturgia e le cose che essi impiegano diventano sacramentali – cose create che hanno il privilegio di riflettere la santità di Dio attraverso il loro uso nel Suo culto. Non possono essere trattati in modo profano o scartati a piacimento.

È per questo motivo che, come ci ha ricordato un recente documento pontificio, i Papi e i Vescovi sono «custodi della tradizione», il che implica tutto ciò che un Papa precedente ha insegnato quando a proposito dell’ufficio papale (e mutatis mutandis della Sacra Liturgia) ha detto che:


Il potere conferito da Cristo a Pietro e ai suoi successori è, in senso assoluto, un mandato per servire. La potestà di insegnare, nella Chiesa, comporta un impegno a servizio dell’obbedienza alla fede. Il Papa non è un sovrano assoluto, il cui pensare e volere sono legge. Al contrario: il ministero del Papa è garanzia dell’obbedienza verso Cristo e verso la Sua Parola. Egli non deve proclamare le proprie idee, bensì vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all’obbedienza verso la Parola di Dio, di fronte a tutti i tentativi di adattamento e di annacquamento, come di fronte ad ogni opportunismo (omelia di Papa Benedetto XVI nella celebrazione eucaristica ed insediamento sulla Cathedra Romana del Vescovo di Roma, 7 maggio 2005).

È quindi difficile accettare il puro positivismo che sta alla base dell’idoleggiamento delle riforme postconciliari da parte del prof. Andrea Grillo. Le forme liturgiche precedenti erano «sacre e grandi» e possono certamente essere «sacre e grandi» anche oggi. Il fatto che questo terrorizzi coloro che hanno puntato la loro reputazione e la loro carriera su un discutibile atto di positivismo papale (l’imposizione di nuovi riti che non sono quelli richiesti dal Concilio Vaticano II e che non sono in continuità organica con la tradizione liturgica sviluppatasi nel corso dei secoli) e che alimentano l’imposizione opportunistica della loro ideologia mentre hanno la capacità politica di farlo, non cambia la verità che se la Tradizione si sviluppa, lo fa organicamente, per arricchimento, non per riforma o sostituzione in radice.


Altrimenti, nulla è vero, nulla ha valore – tutto è semplicemente una questione di convenienza politica. Ecco perché Papa Benedetto XVI non ha sbagliato a insegnare che «ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso», e che «ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto».


Per essere chiari, questo non significa che un Papa non possa legittimamente proporre un nuovo sviluppo o rito liturgico, come fece San Paolo VI. Ma deve guadagnarsi il posto nella Tradizione per i suoi meriti, per così dire, e non per imposizione positivista da parte dell’autorità. Né può essere sostenuto da sussidi disonesti. Se diventa parte della Tradizione, così sia. Se subisce la sorte dell’innovativo Breviario cinquecentesco del card. Francisco de los Ángeles Quiñones O.F.M.Obs., che ha goduto per decenni del sostegno papale prima di morire a lungo – ebbene, così sia. Al contrario, bisogna dire che se un rito continua a vivere e a respirare e a portare buoni frutti anche di fronte all’opposizione papale, è molto difficile negare che abbia un posto legittimo nella tradizione viva della Chiesa di oggi e del futuro.

La mancanza di acume pastorale del prof. Andrea Grillo è stupefacente. Sembra che abbia sperimentato l’usus antiquior solo via internet e che abbia reagito (forse giustamente) ad alcune celebrazioni ostentate e a volte curiosamente antiquarie di esso. Se solo lui, il card. Arthur Roche e mons. Vittorio Francesco Viola O.F.M. trascorressero il fine settimana di Pentecoste camminando da Parigi a Chartres con le migliaia di persone che lo fanno ogni anno, incontrerebbero Cattolici ordinari, eroicamente fedeli, di tutte le età (ma soprattutto giovani) per i quali i tesori dei riti più antichi sono sempre nuovi oggi e li nutrono nelle loro diverse vocazioni cristiane. Certo, ci sarebbero persone e chierici strani, ma l’usus antiquior non ha una pretesa esclusiva su di loro – e anche loro hanno anime da salvare.

Il Professore, Sua Eminenza e Sua Eccellenza incontrerebbero anche ricche celebrazioni della Sacra Liturgia, alle quali queste migliaia di persone partecipano pienamente, consapevolmente, attivamente e fruttuosamente con grande devozione, come dimostra la profonda riverenza con cui ricevono la Santa Comunione (in qualsiasi tempo). Questo, ovviamente, è un’eresia per i nostri idolatri che credono che i riti liturgici riformati siano la conditio sine qua non per tale partecipazione. Ma è qui che sono pastoralmente ingenui. La maggior parte delle celebrazioni dell’usus antiquior oggi mostra tutto ciò che il movimento liturgico classico e i Padri del Concilio Vaticano II desideravano. Certo, questi ultimi hanno imposto alcune riforme moderate e organiche del rito per facilitare tutto ciò, ma non erano così stupidi da credere che queste fossero fini a se stesse, o addirittura da idolatrare.


La partecipazione piena, consapevole, attiva e fruttuosa alla Sacra Liturgia era ciò che il Concilio Vaticano II cercava, e coloro che rifiutano di riconoscere che questo si riscontra spesso nelle celebrazioni dei riti non riformati oggi stanno semplicemente negando la verità. È una realtà nelle parrocchie, nei monasteri, nelle case religiose e nei seminari di tutto il mondo che tutti possono vedere, compresi il prof. Andrea Grillo e i suoi amici. Se aprissero gli occhi sul bene che è e che porta, e lo incoraggiassero e lo promuovessero!

Mettere in discussione i giudizi prudenziali di un Papa dopo il Concilio Vaticano II (e questo è ciò che è la riforma liturgica di San Paolo VI – una serie di suoi giudizi prudenziali) non significa rifiutare il Concilio stesso, come sostiene il prof. Andrea Grillo. Le due cose sono distinte. Applicare il principio fondamentale della sua costituzione liturgica (sulla partecipazione) nelle celebrazioni dei riti liturgici più ricchi e inediti significa, invece, onorare i desideri più cari del Concilio Vaticano II (un desiderio espresso da tanti, da dom Prosper-Louis-Pascal Guéranger nel XIX secolo in poi). Scusi, professore, ma questo è molto lontano dal negare il Concilio Vaticano II.


Né, necessariamente, lo è la celebrazione oggi anche dei riti della Settimana Santa anteriori alle riforme del venerabile Papa Pio XII. Per il prof. Andrea Grillo, chi lo fa «si colloca oggettivamente al di fuori della tradizione cattolica». Il nostro piccolo monastero ha ricevuto il permesso dalla Santa Sede di utilizzarli e, dopo averlo fatto, ne ha scoperto la ricchezza e la bellezza: un tesoro che non possiamo seppellire di nuovo. Posso essere d’accordo con il prof. Grillo sul fatto che la scelta della data preferita nella cronologia della riforma liturgica può essere arbitraria e poco informata e priva di spirito ecclesiale, ma quando l’autorità della Chiesa autorizza qualcosa come un bene oggi (come ha fatto), è molto difficile capire come la stessa autorità possa all’improvviso proibirlo completamente o considerarlo dannoso.
È difficile concludere senza prendere le distanze dall’affermazione del prof. Andrea Grillo secondo cui i seminari «tradizionali» «generano non vita di fede, ma spesso grande risentimento e irrigidimento personale». Si può essere d’accordo sul fatto che nei seminari si trovano professori e candidati strani, praticamente in tutti. Narcisisti insicuri si annidano in molti saloni di facoltà, uffici di superiori e cancellerie, ma non sono affatto proprietà esclusiva dei «tradizionalisti». E ci sono seminaristi che lasciano i seminari, e talvolta anche la fede cattolica, con grande risentimento e di fatto con poca vita di fede. Ma ancora una volta, non si tratta di «tradizionalisti d’autore». Laddove questi abusi e problemi esistono, devono essere affrontati con decisione e in modo trasversale.


Ma ciò che deve essere affrontato – e accettato come vero e rispettato – è che ci sono decine di formatori e centinaia di candidati nei cosiddetti seminari tradizionali, nei monasteri e nelle case religiose che lottano quotidianamente per la santità, la conversione della loro vita, l’aumento delle virtù, l’incremento della loro capacità di svolgere fedelmente la missione della Chiesa nel mondo di oggi e in futuro, pastoralmente e intellettualmente ecc. Questi bravi uomini e queste brave donne non cercano di conservare le ceneri di un’epoca passata, ma inculcano in loro stessi (come Gustav Mahler) il fuoco di quella Tradizione vivente che è il Vangelo di Gesù Cristo. Non sono parte dei problemi della Chiesa; piuttosto, costituiscono una parte significativa della soluzione al suo confronto, finora disastroso, con un mondo post-cristiano.


In questo momento della storia della Chiesa è difficile credere che i suoi gerarchi chiudano narcisisticamente congregazioni e comunità giovani, fiorenti e in crescita, o le costringano all’irregolarità canonica o, ancora di più, al di fuori della Chiesa, in nome di un’unità desiderata che in realtà non è altro che un’insistenza politicamente motivata sull’uniformità per placare l’idolo di loro scelta: la liturgia riformata (invecchiata e non tanto bene). Ed è uno scandalo che professori di rinomati istituti pontifici sostengano i loro sforzi. Farebbero tutti bene a seguire il consiglio di Gamaliele: «Non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questa teoria o questa attività è di origine umana, verrà distrutta; ma se essa viene da Dio, non riuscirete a sconfiggerli; non vi accada di trovarvi a combattere contro Dio!» (At 5, 38-39).






Leone XIII e la consacrazione al Sacro Cuore di Gesù





Di Osservatorio Card. Van Thuan, 26 GIU 2024

Il mese di giugno è dedicato dalla tradizione della Chiesa alla devozione del Sacro Cuore di Gesù. Siamo in attesa in settembre di un documento vaticano su questo stesso argomento (QUI). Il tema teologico e spirituale del Sacro Cuore è denso di rimandi alla Dottrina sociale della Chiesa e al posto di Cristo nella società e nella storia. Leone XIII, cui si deve la costruzione dell’impianto della Dottrina sociale nell’epoca moderna, aveva dedicato al tema l’enciclica Annum sacrum (leggi QUI il testo). Quel papa nel 1889 aveva innalzato a rito di prima classe la festa del Sacro Cuore e con l’enciclica Annum sacrum stabiliva che nei giorni 9, 10 e 11 del mese di giugno fosse recitata la “Formula di consacrazione al sacratissimo Cuore di Gesù” da lui annessa all’enciclica.

In una prima parte dell’enciclica che qui riportiamo, papa Leone spiega il significato del culto del Sacro Cuore: “Gesù Cristo è re e signore di tutte le cose:

“Questa universale e solenne testimonianza di onore e di pietà è pienamente dovuta a Gesù Cristo proprio perché re e signore di tutte le cose. La sua autorità, infatti, non si estende solo ai popoli che professano la fede cattolica e a coloro che, validamente battezzati, appartengono di diritto alla chiesa (anche se errori dottrinali li tengono lontani da essa o dissensi hanno infranto i vincoli della carità), ma abbraccia anche tutti coloro che sono privi della fede cristiana. Ecco perché tutta l’umanità è realmente sotto il potere di Gesù Cristo. Infatti colui che è il Figlio unigenito del Padre e ha in comune con lui la stessa natura, “irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza” (Eb 1,3), ha necessariamente tutto in comune con il Padre e quindi il pieno potere su tutte le cose. Questa è la ragione perché il Figlio di Dio, per bocca del profeta, può affermare: “Sono stato costituito sovrano su Sion, suo monte santo. Il Signore mi ha detto: Tu sei mio Figlio; io oggi ti ho generato. Chiedi a me e ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra” (Sal 2,6-8). Con queste parole egli dichiara di aver ricevuto da Dio il potere non solo su tutta la chiesa, raffigurata in Sion, ma anche su tutto il resto della terra, fin dove si estendono i suoi confini. Il fondamento poi di questo potere universale è chiaramente espresso in quelle parole: “Tu sei mio Figlio”. Per il fatto stesso di essere il figlio del re di tutte le cose, è anche erede del suo potere universale. Per questo il salmista continua con le parole: “Ti darò in possesso le genti”. Simili a queste sono le parole dell’apostolo Paolo: “L’ha costituito erede di tutte le cose” (Eb 1,2).

Si deve tener presente soprattutto ciò che Gesù Cristo, non attraverso i suoi apostoli e profeti, ma con le stesse sue parole ha affermato del suo potere. Al governatore romano che gli chiedeva: “Dunque tu sei re”, egli, senza esitazione, rispose: “Tu lo dici; io sono re” (Gv 18,37). La vastità poi del suo potere e l’ampiezza senza limiti del suo regno sono chiaramente confermate dalle parole rivolte agli apostoli: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18). Se a Cristo è stato concesso ogni potere, ne segue necessariamente che il suo dominio deve essere sovrano, assoluto, non soggetto ad alcuno, tanto che non ne può esistere un altro ne uguale ne simile. E siccome questo potere gli è stato dato e in cielo e in terra, devono stare a lui soggetti il cielo e la terra. Di fatto egli esercitò questo suo proprio e individuale diritto quando ordinò agli apostoli di predicare la sua dottrina, di radunare, per mezzo del battesimo, tutti gli uomini nell’unico corpo della chiesa, e di imporre delle leggi, alle quali nessuno può sottrarsi senza mettere in pericolo la propria salvezza eterna”.

In una seconda parte dell’enciclica che riportiamo qui sotto, Leone XIII applica al proprio tempo la necessità della consacrazione al Sacro Cuore di Gesù:

“In questi ultimi tempi si è fatto di tutto per innalzare un muro di divisione tra la chiesa e la società civile. Nelle costituzioni e nel governo degli stati, non si tiene in alcun conto l’autorità del diritto sacro e divino, nell’intento di escludere ogni influsso della religione nella convivenza civile. In tal modo si intende strappare la fede in Cristo e, se fosse possibile, bandire lo stesso Dio dalla terra. Con tanta orgogliosa tracotanza di animi, c’è forse da meravigliarsi che gran parte dell’umanità sia stata travolta da tale disordine e sia in preda a tanto grave turbamento da non lasciare vivere più nessuno senza timori e pericoli? Non c’è dubbio che, con il disprezzo della religione, vengono scalzate le più solide basi dell’incolumità pubblica. Giusto e meritato castigo di Dio ai ribelli che, abbandonati alle loro passioni e schiavi delle loro stesse cupidigie, finiscono vittime del loro stesso libertinaggio.

Di qui scaturisce quella colluvie di mali, che da tempo ci minacciano e ci spingono con forza a ricercare l’aiuto in colui che solo ha la forza di allontanarli. E chi potrà essere questi se non Gesù Cristo, l’unigenito Figlio di Dio? “Non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12). A lui si deve ricorrere, che è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). Si è andati fuori strada? bisogna ritornare sulla giusta via. Le tenebre hanno oscurato le menti? è necessario dissiparle con lo splendore della verità. La morte ha trionfato? bisogna attaccarsi alla vita.
Solo così potremo sanare tante ferite. Solo allora il diritto potrà riacquistare l’autentica autorità; solo così tornerà a risplendere la pace, cadranno le spade e sfuggiranno di mano le armi. Ma ciò avverrà solo se tutti gli uomini riconosceranno liberamente il potere di Cristo e a lui si sottometteranno; e ogni lingua proclamerà “che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil 2,11)”.

(Foto: http://www.rawpixel.com)




martedì 25 giugno 2024

Le benedizioni dello scandalo secondo Mons. A. Schneider



Nella traduzione di Chiesa e postconcilio la sapiente articolata critica di Mons. Athanasius Schneider a Fiducia supplicans, pubblicata da Crisis Magazine.




Titolo originale:

Fiducia Supplicans non è un atto di autentica cura pastorale, né di vera carità.
Propone benedizioni che sono un vero e proprio scandalo


+Mons. Athanasius Schneider*

Il Documento Fiducia Supplicans, emanato dal Dicastero per la Dottrina della Fede il 18 dicembre 2023 e approvato da Papa Francesco, circa la possibilità di concedere benedizioni “semplici”, “spontanee”, “brevi” e “non liturgiche” alle coppie che convivono in stato di adulterio o in relazioni omosessuali, colpisce profondamente e negativamente sia la Chiesa cattolica universale, che le singole comunità cattoliche.

1. Il vero significato della benedizione.


L’autorizzazione a “benedire” unioni omosessuali o adulterine non esprime una cura autenticamente “pastorale”, perché tale “benedizione” non è in realtà una “benedizione” nel vero senso biblico. La vera benedizione può avvenire solo quando coloro che la chiedono sono pronti ad accettare l’insegnamento della Chiesa in ordine a ciò per cui chiedono la benedizione e, se così non è, sono disposti a pentirsi e a vivere secondo l’insegnamento della Chiesa. Coloro che si sono volontariamente allontanati dai comandamenti di Dio e conducono una vita a Lui sgradita, Lo offendono, rifiutano consapevolmente la Sua grazia e non possono ricevere efficacemente la benedizione di Dio senza prima pentirsi di uno stile di vita peccaminoso.

L’ordinazione sacerdotale conferisce al sacerdote il potere spirituale e l’autorità di impartire benedizioni per scopi moralmente leciti che rientrano nel vero significato di “benedizione” secondo l'insegnamento perenne della Chiesa. Un sacerdote non è autorizzato a impartire benedizioni che vadano al di là di questo ambito, perché sarebbe un’offesa a Dio, una trasgressione dei suoi poteri, un abuso della sua autorità e un uso improprio della benedizione, perché viene impartita per scopi diversi da quelli a cui è destinata. Per esempio, un sacerdote non può benedire un professore di filosofia che dichiara che terrà una conferenza che approva l’ateismo, perché ciò equivarrebbe ad avallare le convinzioni atee di questo filosofo. Se lo facesse, il sacerdote sarebbe complice nel sostenere l’ateismo, che è un grave peccato, e la sua benedizione sarebbe illecita, poiché contraddirebbe la legge naturale e le verità divinamente rivelate.

Gli effetti della benedizione del sacerdote includono la benedizione degli oggetti, la santificazione dei fedeli e l’invocazione della bontà e delle grazie di Dio su di loro, e in questi contesti il termine “benedetto” equivale al termine “santificato”. Per questo motivo, coloro che ricevono la benedizione sono chiamati a vivere rettamente. Pertanto, chiudere un occhio sul peccato dell’omosessualità, cioè sul compimento di atti omosessuali, e arrivare a benedire una persona che si identifica con lo stile di vita omosessuale, equivale a benedire l’abominio. Mai nella storia della Chiesa è stata data ai sacerdoti l’autorità e il potere di benedire stili di vita peccaminosi, perché ciò significa condonarli e incoraggiarli!

La Chiesa benedice individui e gruppi in generale (come la benedizione impartita dal sacerdote al termine di una celebrazione liturgica), anche se alcuni dei presenti sono in stato di peccato. Tuttavia, il dilemma sta nella “possibilità di benedire partner dello stesso sesso”, designando specificamente come destinatari di una benedizione quelle coppie la cui relazione in atto contraddice direttamente le verità divinamente rivelate. Il documento Fiducia Supplicans dice che in questo caso il sacerdote deve omettere di “indagare sulla loro situazione”, cioè non deve informarsi sulla loro situazione né discuterne con loro; il che vuol dire chiudere un occhio su qualsiasi situazione o status disordinato in cui possano vivere. Allo stesso tempo, tale ingiunzione non consente al sacerdote di invitarli al pentimento. Infatti, non solo una simile “benedizione” è inutile, posto che non produrrà alcun bene per quelle “coppie”, ma al contrario produrrà il male, inducendole a credere, non solo che la loro unione e le loro espressioni di “amore” omoerotico non sono peccaminose, ma che sono volute da Dio come cosa buona.

2. La “benedizione” delle coppie omosessuali comporta un danno spirituale per le persone.


Se le persone non intendono condurre una vita morale secondo la Parola di Dio, con tutta probabilità non chiederanno la benedizione. Drammaticamente, però, Fiducia Supplicans ha spinto “coppie in situazioni irregolari e coppie dello stesso sesso” a chiedere la benedizione, nonostante la loro intenzione di continuare a condurre uno stile di vita oggettivamente peccaminoso. E così, il documento permette scandalosamente ai chierici di benedire coloro che conducono apertamente una vita di peccato e che possono commettere abitualmente gravi peccati senza alcuna intenzione di pentirsi. Le coppie eterosessuali che convivono senza contrarre il “matrimonio” hanno il diritto di ricevere una benedizione “semplice”, “spontanea” e “non liturgica”. Ancora più grave è la benedizione data alle coppie omosessuali, poiché il peccato di sodomia è più grave della fornicazione. “Benedire” una coppia omosessuale significa logicamente e implicitamente benedire il suo stile di vita peccaminoso e, soprattutto, la sua convinzione che sia intrinsecamente buono e quindi moralmente e socialmente accettabile. E se queste unioni sono lecite, perché le relazioni “poliamorose” non possono ricevere una benedizione “semplice” e “spontanea”? Secondo la logica di Fiducia Supplicans, un sacerdote potrebbe benedire lecitamente anche un uomo sposato e la sua amante, un sacerdote che vive in aperto concubinato, un membro di una gang assassina e impenitente, o un dittatore che affama milioni di persone innocenti.

Invocare la grazia di Dio su coloro che vivono in stili di vita palesemente peccaminosi senza chiamarli al pentimento desensibilizza clero e laici alla peccaminosità degli atti omosessuali e delle relazioni peccaminose in generale. Alla fine, il peccato sessuale non sarà più considerato come una violazione del comandamento di Dio “Non commettere adulterio”, ma come una realtà accettabile da benedire invece che da condannare.

Coloro che difendono la liceità di Fiducia Supplicans hanno sostenuto che benedire una coppia dello stesso sesso significa benedire i due individui separatamente e non la relazione, ma come può la benedizione di una coppia dello stesso sesso non comportare la benedizione della relazione che lega la coppia? Infatti, benedire un uomo e una donna che hanno ricevuto il sacramento del matrimonio non significa solo benedire ciascuno degli sposi separatamente, ma anche il loro sacro legame. La Lettera agli Ebrei dice: “Il matrimonio sia tenuto in onore” (Ebr 13,4). Ciò conferma quanto stabilito da Dio e ribadito da Nostro Signore Gesù. Il sacramento del matrimonio lega esclusivamente un uomo e una donna per tutta la vita ed è l’unica istituzione per un esercizio moralmente lecito della sessualità accettato da Dio.

3. La “benedizione” delle coppie omosessuali contraddice la missione della Chiesa di chiamare al pentimento.

Una delle missioni principali della Chiesa consiste nell'invitare i peccatori al pentimento: “Nel suo nome saranno proclamati a tutte le nazioni il pentimento e il perdono dei peccati” (Luca 24:46). E il primo annuncio pronunciato da Nostro Signore Gesù è: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 4, 17). La Chiesa è stata fondata e continua a esistere, crescere e prosperare grazie al pentimento dei peccatori, che li apre a ricevere la grazia santificante di Dio. È inutile che una persona si converta al cattolicesimo senza pentirsi e condurre una nuova vita virtuosa e casta in Cristo. La Chiesa chiama costantemente al pentimento anche coloro che sono cattolici praticanti, perché mantengano una vita virtuosa. Trascurare la chiamata al pentimento provoca grandi danni alla Chiesa e ai fedeli.

Benedicendo una coppia omosessuale, un ecclesiastico trascura il suo dovere di esortare gli omosessuali al pentimento e mina il suo dovere di invitare al pentimento, con il dovuto amore pastorale, non solo le coppie omosessuali ma tutti coloro che commettono peccati sessuali e coloro che vivono in uno stato di peccato sessuale. La “benedizione” dello stato di peccato rafforza le convinzioni morali errate dei peccatori e li mette a proprio agio con il loro peccato, rendendoli meno propensi al pentimento. Pertanto, coloro che sostengono tali benedizioni, di fatto incoraggiano le coppie dello stesso sesso a perseguire il loro stile di vita peccaminoso, per il quale incorreranno nella condanna di Dio. Coloro che autorizzano la “benedizione” delle coppie omosessuali portano il peso e la responsabilità del grave danno spirituale causato a queste persone. Pertanto, tali “benedizioni” rientrano nella definizione tradizionale di scandalo, poiché inducono altri al peccato.

In tutta evidenza la Dichiarazione Fiducia Supplicans non è un atto di autentica cura pastorale, né un’iniziativa di vera carità verso persone che vivono in situazioni che contraddicono le verità divinamente rivelate. Lo scopo della cura pastorale è quello di fare il bene alle persone, aiutando i peccatori a pentirsi, consolando gli afflitti, assistendo i malati e così via. Ma dalla “benedizione” delle coppie omosessuali non si può trarre alcun beneficio; al contrario, c’è un danno a diversi livelli. Le persone attratte dallo stesso sesso che ricevono tale “benedizione”, e lo stesso sacerdote che la impartisce, affermano tacitamente che il loro agire omosessuale è accettabile. Ciò mette in serio pericolo la loro salvezza eterna. Tale “benedizione” sarebbe come un sigillo dato loro dalla Chiesa – che permetterebbe loro di vantarsi di aver ricevuto la “benedizione della Chiesa” – e costituirebbe una pietra miliare nella loro vita! E non c’è motivo per cui non possano andare da un sacerdote più di una volta per ricevere tale “benedizione”. Inoltre, le persone attratte dallo stesso sesso che partecipano alle “parate gay”, vestite in abiti queer e brandendo cartelli e slogan pro-gay, possono anche entrare in una chiesa cattolica, probabilmente previo accordo con il sacerdote, mettersi in fila e chiedere una “semplice” e “spontanea” benedizione.

Tutto questo serve a sostenere in modo significativo i gruppi e le lobby “LGBTQ” e il loro “orgoglio gay”, ed eleva gli omosessuali praticanti al livello di una “comunità” accettabile all’interno della Chiesa. Questa “benedizione” rafforza anche le “comunità LGBTQ” nella falsa convinzione che il loro stile di vita peccaminoso sia buono, scoraggiandole così dal pentirsi. Soprattutto, li aiuta a giustificare le loro iniziative militanti per ottenere il “diritto” di sposarsi, adottare bambini e normalizzare l’attività omosessuale. In questo modo, intere società, e persino alcune comunità ecclesiali, diventeranno di fatto promotrici dell’ideologia “LGBTQ”.

4. La “benedizione” delle coppie dello stesso sesso è una contraddizione tra la fede e la prassi della Chiesa.


Quando i vescovi dichiarano che oggi la Chiesa “benedice” le coppie dello stesso sesso, affermano essenzialmente che essa “benedice” il peccato per cui Dio punì Sodoma e Gomorra (cfr. Gen 19, 1-29). Quando un ecclesiastico “benedice” una coppia dello stesso sesso, significa che non si oppone al fatto che egli sia coinvolto in una relazione omosessuale a lungo termine. Dichiara anche, di fatto, il suo consenso alla relazione peccaminosa di due o più individui, indipendentemente dal tipo di devianza sessuale che praticano.

Il maggior pericolo potenziale della decisione di “benedire” le coppie omosessuali è la possibilità di ulteriori ripercussioni. È inutile chiarire che tale “benedizione” è solo “semplice” e “spontanea” e che non afferma il legame tra le due parti, così come è inutile sostenere che non ha un significato liturgico. I non credenti e le persone di altre religioni non capiscono il significato di una benedizione cattolica, per cui è naturale che presumano che ricevere simile “benedizione” significhi contrarre una sorta di vincolo matrimoniale. È quindi inutile sostenere che la decisione di benedire le coppie omosessuali “non equivale al sacramento del matrimonio”. Sia le conseguenze immediate che le implicazioni nascoste di vasta portata di questa decisione, potenzialmente poco chiare a prima vista, sono significative a livello religioso, morale, ecclesiastico e sociale. A tali effetti sarà difficile porre rimedio, e altrettanto difficile sarà correggere i danni causati, che con ogni probabilità si aggraveranno.

Se due laici che hanno una relazione omosessuale possono ricevere una “benedizione”, non c’è motivo per cui non la possa ricevere anche un sacerdote omosessuale con il suo partner. E dunque nella Chiesa cattolica ci saranno persone, sia chierici che laici, che sembra abbiano il “diritto” di vivere permanentemente nel peccato mentre l’autorità ecclesiastica non solo ignora ma incoraggia direttamente il loro stile di vita peccaminoso. E così, nella comunità dei fedeli, queste “benedizioni” diventeranno uno strumento di corruzione morale, soprattutto nei confronti dei minori e dei giovani. Perché mai qualcuno dovrebbe diventare membro di una chiesa che di fatto promuove e benedice il peccato e l’omosessualità?

5. La “benedizione” delle coppie omosessuali e l’abuso della parola “discriminazione”.


Fiducia Supplicans
viene brandita come un’arma contro i fedeli cattolici – sia chierici che laici – in quanto sostiene che queste “benedizioni” sono un’iniziativa pastorale di amore e cura verso le persone attratte dallo stesso sesso, che soffrono di discriminazione all’interno della Chiesa. Ma coloro che fanno questa affermazione confondono il linguaggio. Il termine “discriminazione” è attualmente utilizzato per indicare un comportamento ingiusto o non caritatevole nei confronti degli altri, e in questo senso tutti i cattolici concordano sul fatto che la carità, nel senso proprio del termine, deve essere mostrata a tutti. Ma bisogna anche distinguere e differenziare il bene dal male. Questo non lo fanno solo le creature razionali, ma lo fa certamente anche Dio stesso, che distingue o discrimina tra azioni cattive e buone, condannando le prime e benedicendo le seconde. Coloro che accusano la Chiesa di “discriminare” gli omosessuali condannano quindi anche qualsiasi distinzione tra comportamenti buoni e cattivi.

6. La “benedizione” delle coppie omosessuali e la propaganda dell’ideologia gender.


Fiducia Supplicans è anche un’arma che i nemici della Chiesa e i gruppi “LGBTQ” possono facilmente usare per corrompere le società e renderle indulgenti verso stili di vita peccaminosi. Possono facilmente usare questo documento vaticano come un potente mezzo per chiedere uno status legale per le unioni omosessuali nella sfera civile e l’accettazione di questo status all’interno della Chiesa cattolica, solo per esacerbare la profonda divisione già presente all’interno della Chiesa.

Fiducia Supplicans crea una situazione secondo la quale, ai vescovi e ai sacerdoti fedeli che prestano servizio in Paesi in cui la sodomia è ora legalmente permessa, potrebbe essere vietato parlare contro di essa e invitare gli omosessuali al pentimento, e nella quale potrebbe essere vietato ai terapeuti curare coloro che cercano la guarigione. Come potranno vescovi e sacerdoti dire che l’insegnamento della loro Chiesa non permette loro di “benedire” le coppie dello stesso sesso? Anzi, si dirà loro che la loro Chiesa ha autorizzato tali “benedizioni” e che il loro rifiuto di concederle costituisce un “comportamento ostile” contro gli omosessuali, esponendoli così a essere perseguiti, espulsi e impediti di servire come sacerdoti.

7. La “benedizione” di coppie omosessuali durante una cerimonia simile a un matrimonio.


Fiducia Supplicans afferma che la benedizione deve essere “semplice”, “spontanea” e “non liturgica”. Tuttavia, i partner dello stesso sesso probabilmente fisseranno un appuntamento con il sacerdote per ricevere questa benedizione “spontanea” e “non liturgica” e potrebbero persino contrarre un “matrimonio” omosessuale in un tribunale civile o in una “chiesa” non cattolica poco prima di riceverla. Può anche accadere che questa “benedizione” sia accompagnata da una predica. Cosa può impedirlo, purché la “benedizione sia semplice e spontanea”? Il sacerdote potrebbe comporre una preghiera “non liturgica” per la “benedizione”, che potrebbe essere relativamente lunga e includere un linguaggio commovente ed emotivo che assomiglia al linguaggio dell'”impegno” usato nel sacramento del matrimonio. I termini “semplice”, “spontaneo” e “breve” si prestano a un’ampia varietà di interpretazioni.

8. La “benedizione” delle coppie omosessuali e l’accettazione di altre situazioni di peccato.


Le autorità civili, soprattutto nei Paesi che hanno legalizzato il “matrimonio omosessuale”, accoglieranno naturalmente con favore la decisione di alcuni chierici della Chiesa cattolica di “benedire” le coppie omosessuali. E se questa pratica dovesse diventare comune nella Chiesa, sarà difficile farla cessare. Fiducia Supplicans è un preludio alla richiesta di una sorta di cerimonia di matrimonio per le coppie omosessuali nella Chiesa cattolica? La facilità con cui si è sviluppata questa “benedizione” fa pensare che dietro la sua emissione ci siano obiettivi latenti a lungo termine e di vasta portata.

Data la risposta positiva di molti gruppi ecclesiastici e laici nei confronti di Fiducia Supplicans, il significato di questa “semplice” o “breve” benedizione può essere facilmente ampliato ben oltre il suo intento esplicito iniziale. Infatti, come si è notato sopra (n. 2), Fiducia Supplicans apre la porta a una serie infinita di situazioni peccaminose. Se una coppia omosessuale può essere “benedetta”, perché non due minori attratti dallo stesso sesso che si rivolgono a un sacerdote per una “benedizione”? Cosa impedisce di “benedire” un uomo omosessuale adulto che si presenta a un sacerdote con un minore? Secondo la logica di Fiducia Supplicans, il sacerdote non può rifiutarsi di “benedirli”, poiché il documento non dice nulla sull’età di coloro che chiedono tale “benedizione”. Un’indagine da parte del sacerdote sull’età delle parti potrebbe portare al tipo di “analisi morale esaustiva” che la Dichiarazione proibisce.

9. La “benedizione” di coppie dello stesso sesso e l’abuso dell’obbedienza ecclesiastica.


Un altro effetto gravemente dannoso di Fiducia Supplicans è che coloro che non approvano le coppie dello stesso sesso nel cuore della Chiesa cattolica saranno ora etichettati come disobbedienti all’autorità ecclesiastica. Tuttavia, la verità è che rifiutare di “benedire” le coppie dello stesso sesso non è un atto di disobbedienza alla Chiesa, ma solo a quelle autorità ecclesiastiche che abusano del loro potere dato da Dio. Rifiutarsi di dare tali “benedizioni” è, in realtà, una vera obbedienza a Dio, che è più degno di essere obbedito.

I poteri secolari, le lobby “LGBTQ” e le agende anti-Chiesa sono in ultima analisi la forza trainante che ha provocato questa Dichiarazione, il cui scopo è quello di gettare il seme del dubbio profondo nel cuore della Chiesa. Sono prevedibili pressioni significative per costringere i cattolici ad accettarla e promuoverla. Invocheranno falsamente l’obbligo di obbedire all’insegnamento della Chiesa e i sacerdoti e i fedeli che criticheranno Fiducia Supplicans e si rifiuteranno di applicarla saranno accusati di essere infedeli al Papa.

10. La “benedizione” delle coppie dello stesso sesso e la sua influenza sui bambini e sui giovani.


Oggi i genitori e gli educatori cattolici si trovano di fronte a notevoli difficoltà nell’insegnare la sana morale cattolica, soprattutto quella sessuale, poiché i bambini e gli adolescenti sono costantemente bombardati da idee “LGBTQ” attraverso i social media e, peggio ancora, da molte scuole cattoliche e persino dal clero cattolico. Ora, come se non bastasse, Fiducia Supplicans trasmette ai minori e agli adolescenti il messaggio che la Chiesa accetta e approva le coppie dello stesso sesso e le loro relazioni. Gli educatori cattolici e gli insegnanti di catechismo, ingannati dalla pratica di “benedire” le coppie omosessuali, possono benissimo alterare il loro insegnamento sulla vera morale cattolica, fino a giustificare e propagare, direttamente o indirettamente, lo stile di vita omosessuale e la devianza sessuale più in generale.

Conclusione


Fiducia Supplicans mina seriamente la fede e la morale cattolica, trasformando la Chiesa cattolica, almeno nella prassi, in un ambiente accogliente e stimolante per omosessuali e adulteri impenitenti che conducono stili di vita peccaminosi, invece di esortare tali peccatori al pentimento. Il profeta Isaia dichiara: “Guai a voi che chiamate il male bene e il bene male, che sostituite le tenebre con la luce e la luce con le tenebre… perché hanno rigettato la legge del Signore degli eserciti” (Is 5:20, 24). Questa condanna si riferisce in particolare ai pastori della Chiesa che sviano il popolo.

Fiducia Supplicans non è né autenticamente pastorale né autenticamente magisteriale, in quanto mina l’immutabile verità divina l'insegnamento costante del Magistero della Chiesa riguardo al male intrinseco degli atti sessuali al di fuori di un matrimonio valido, in particolare degli atti omosessuali. Ciò impedisce alla Chiesa di riflettere in modo convincente il vero volto di Cristo risorto e di irradiare la bellezza della sua verità davanti al mondo intero.





*Mons. Athanasius Schneider è vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Santa Maria ad Astana, in Kazakistan.