L'annuncio da parte di papa Francesco su un prossimo sinodo dedicato alla sinodalità non può non preoccupare. Malgrado i proclami questi ultimi sinodi sono stati un pessimo esempio di sinodalità, ma soprattutto non ci può essere sinodalità senza fedeltà alla tradizione e senza il consapevole inserimento in quanto la Chiesa ha sempre insegnato.
Stefano Fontana EDITORIALI
30-10-2019
La sinodalità è il problema, non la soluzione. Quando papa Francesco, nel discorso a conclusione del sinodo sull’Amazzonia ha segnalato la possibilità di un prossimo sinodo sulla sinodalità molti avranno tremato. Se si fa un sinodo sulla sinodalità vuol dire che sulla sinodalità c’è incertezza. Ma allora il futuro sinodo che dovrà appunto parlare di sinodalità, avrà un fondamento debole, perché è proprio la sinodalità a fondare e legittimare il sinodo.
A parte questo curioso gioco di parole, un prossimo eventuale sinodo sulla sinodalità preoccupa molto perché si teme che esso possa convalidare l’attuale versione di sinodalità e consacrarne l’uso fatto in questi ultimi tempi; un uso, bisogna riconoscere, poco sinodale. La sinodalità è oggi una parola passepartout, che dovrebbe aprire ogni porta e condurre alla soluzione di ogni problema, mentre invece è l’origine di molti problemi.
La sinodalità viene tanto conclamata e declamata, ma in realtà non viene applicata. È una parola-copertina, una parola-paravento, una parola-foglia-di-fico. La gravissima questione degli abusi sessuali doveva essere risolta con la sinodalità. Anche quella dei divorziati risposati doveva essere risolta con la sinodalità. Pure l’ecologia integrale andrebbe risolta con la sinodalità, come del resto la riforma della Chiesa. Non ci saranno né conversione pastorale né conversione ecologica senza conversione sinodale, così si dice. La conversione sinodale sembra precedere perfino la conversione a Cristo.
Però, nonostante queste declamazioni, né il sinodo sulla famiglia, né quello sui giovani, né ora questo sull’Amazzonia sono stati impostati e condotti in modo veramente sinodale. Il contestatissimo Instumentum laboris è stato scritto da una manciata di persone della REPAM, la Rete ecclesiale panamazzonica, e la propagandata consultazione di 80 mila indigeni non sembra essere realmente avvenuta. Le nomine dei Padri sinodali sono state fortemente orientate a senso unico. Qualcuno nutriva forse dei dubbi su come avrebbero votato padre Spadaro o il cardinale Marx? Le indicazioni fondamentali su dove si vuole arrivare sono state date in anticipo al punto che ora, uscito il documento finale, si discute degli stessi problemi ampiamente previsti dei quali si discuteva prima del sinodo, ossia sacerdozio agli sposati, donne diacono, riti amazzonici.
La conduzione del sinodo è stata preparata e accompagnata da una comunicazione addomesticata: nessun minimo cenno da parte di trasmissioni televisive, giornali o riviste cattoliche allineate a qualche punto interrogativo sul sinodo, a qualche perplessità. Solo un coro unanime ed entusiasta. Su queste basi molti pensano che sia il documento finale (almeno in bozza) sia la futura esortazione apostolica (almeno in bozza) siano già stati scritti prima dell’inizio dei lavori.
Questo modo non sinodale di attuare la sinodalità, in virtù del principio di coerenza, si ripercuoterebbe anche sull’eventuale futuro sinodo sulla sinodalità e l’effetto segnerebbe una ulteriore delegittimazione sia della sinodalità che del sinodo. Sinodi condotti in questo modo mettono in crisi l’adesione credente dei fedeli, ossia indeboliscono la sinodalità stessa, che non riguarda solo chi partecipa attivamente ad un sinodo, ma anche tutto il corpo ecclesiale che, pur non avendovi partecipato, ha pregato e ha creduto.
C’è però anche di più. Oltre ai difetti di applicazione e alle contraddizioni nell’esercizio della sinodalità, oggi si nota una concezione di sinodalità piuttosto pericolosa. Non ci può essere sinodalità senza fedeltà alla tradizione e senza il consapevole inserimento in quanto la Chiesa ha sempre insegnato. La sinodalità non è una relazione assembleare o un metodo di discussione, è il convinto inserimento nella vita stessa della Chiesa, in comunione con tutta la Chiesa, compresa la Chiesa di ieri, fino agli apostoli, compresa la Chiesa che non è più peregrina sulla terra, sotto il papa regnante e sotto la tradizione dei papi non più regnanti.
Senza fedeltà assoluta alla dottrina non c’è sinodalità perché uno è lo Spirito che ha ispirato la rivelazione e che anima l’unione tra i membri della Chiesa. Non sono i Padri sinodali a sinodalizzarsi con il loro-convenire, è Cristo che li sinodalizza (ammesso che la parola esista) con il loro convocarli costituendoli in unità. Se la sinodalità guarda solo avanti e non anche indietro rischia di diventare una assise assembleare a disposizione per cambiamenti decisi al di fuori della sinodalità.
Se la sinodalità parte dall’uomo, o dal popolo, o dalla situazione, e non da Dio, rischia di rendersi funzionalmente dipendente da un progetto umano. Il fariseo non è colui che ricorda ai Padri sinodali che c’è una dottrina che non è nata in Amazzonia e che l’Amazzonia ha il diritto di ricevere integra, ma al contrario è chi mette la sinodalità a servizio di una dottrina che si dice nasca dall’Amazzonia. La sinodalità non è un con-venire da cui far nascere la verità, ma è la verità a servizio della quale con-venire. La sinodalità non è un come senza un contenuto, non è un contenitore da riempire di con-divisioni, ma ha alle spalle un contenuto veritativo da servire insieme. È per questo che, parlando a rigore, per avere sinodalità non è nemmeno necessario fare i sinodi. E se si fanno, bisogna sempre tenere presente che è la sinodalità a fare i sinodi e non i sinodi a fare la sinodalità. Con uno slogan: meno sinodi e più sinodalità.
Nessun commento:
Posta un commento