Marco Tosatti, 13-10-2019
Cari Stilumcuriali, Luca Del Pozzo ci ha inviato una sua personale riflessione su John Henry Newman, che oggi sarà elevato agli onori degli altari. Buona lettura.
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Tra coloro che oggi in S. Pietro saranno elevati agli onori degli altari spicca senza dubbio la figura del beato John Henry Newman. L’occasione è quanto mai propizia per sfatare uno dei più colossali abbagli della storia della teologia moderna.
Si dà il caso infatti che il grande apologeta convertitosi dall’anglicanesimo al cattolicesimo nonché autore del famoso “brindisi alla coscienza” della Lettera al Duca di Norfolk- “Se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo (il che in verità non mi sembra proprio la cosa migliore), brinderò, se volete, al Papa; tuttavia prima alla coscienza, poi al Papa” – sia tuttora ostaggio di quegli ambienti sedicenti cattolici che hanno fatto di Newman l’araldo della libertà di coscienza contro ogni forma di autorità, in primis quella del magistero.
Peccato che le cose stiano diversamente, e che la coscienza di cui parlava Newman fosse (è) sideralmente lontana dalla quella visione soggettivista e relativista che oggi (ma non da oggi) va per la maggiore.
Lo spiegò da par suo il compianto card. Caffarra in un memorabile intervento preparato per un convegno proprio su Newman (che non riuscì a fare perchè scomparve poche settimane prima, ma che fu poi recuperato e reso pubblico grazie a quei benemeriti di Tempi, ndr).
Due sono i pilastri su cui si regge la dottrina di Newman sulla coscienza: il cosiddetto “principio dogmatico” e il rapporto naturale della coscienza morale con Dio.
Principi, spiegava il card. Caffarra, che fanno sì che la coscienza morale “…non è la capacità di decidere, sia pure dopo serio discernimento ciò che è bene/male. È la capacità di giudicare e dire al soggetto ciò che è bene/male, alla luce di una Verità che le è superiore.
Pertanto il primo assioma della dottrina sulla coscienza non è: «Segui sempre la tua coscienza», ma: «Ricerca la verità circa il bene/male»”.
Come si vede, una visione diametralmente opposta a quella della modernità che storicamente si è imposta, e che ha coinciso con la comparsa sul proscenio della storia di un uomo che ha inteso sé stesso come ab-soluto, cioè sciolto da ogni legame e in grado di autodeterminarsi.
Un uomo che rinnegando Dio ha elevato a valore e programma di vita ciò che per la dottrina cattolica è il peccato per eccellenza, il peccato all’orgine di ogni altro peccato ossia il farsi dio di sè stessi decidendo da soli ciò che è bene e ciò che è male, descritto nel racconto bliblico della caduta (Gen 3) che lungi dall’essere una favoletta per bamboccioni creduloni, come sostiene certa teologia all’amatriciana, è la fotografia esatta di ciò che è la situazione dell’uomo.
Al contrario per Newman la coscienza è coincidenza tra “moral sense” e “sense of duty”, ossia – spiegava Caffarra – “luce circa ciò che è bene/male e, al contempo, guida della nostra vita quotidiana, delle nostre scelte”.
E senza che vi sia nessuna contrapposizione, come vorrebbero i protestanti anonimi già cattolici, con il magistero della Chiesa. Entrambi infatti hanno come referente ultimo la legge divina, la luce della divina Verità.
In questa dinamica compito del Papa, che del magistero è il primo servitore, è di aiutare la coscienza ad ascoltare la voce della Verità che Dio ha impresso in ogni uomo.
Detto altrimenti: essendo l’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio, per Newman ciò comporta che ogni persona è dotata di coscienza morale, cioè ogni persona è in grado di giudicare se le sue azioni sono in accordo o meno con la Verità inscritta nel suo essere profondo.
Perché tuttavia questa facoltà possa essere esercitata occorre un aiuto esterno: “Il bambino – commentava Caffarra – ha una naturale capacità di parlare, ma è necessario l’intervento esterno di un altro perché la naturale capacità funzioni. La madre non impone nulla dall’esterno, ma porta a compimento una capacità già presente nel bambino.
Analogamente avviene nel rapporto coscienza morale-magistero del Papa. Quest’ultimo, sul piano morale, non impone nulla dall’esterno. Impedisce che l’uomo cada nella peggiore amnesia, quella del bene e del male…”.
Ecco spiegato il senso vero e profondo del famoso “brindisi”, che pone la dottrina della coscienza morale di Newman nel solco della migliore tradizione cattolica.
Dottrina la cui eco è rintracciabile, ad esempio, nel magistero di S. Giovanni Paolo II, che al tema della libertà e della coscienza dedicò una serie di catechesi di straordinaria bellezza tenute nell’estate del 1983 durante l’Anno Santo straordinario della Redenzione, dalle quali emerge in maniera vivida la consonanza con le tesi di Newman (anche questa è comunione dei santi).
Il tema era, appunto, la Redenzione. O meglio, gli effetti della Redenzione sulla vita morale dell’uomo. Il che portò Wojtyla ad affrontare la questione della libertà e della coscienza.
Punto di partenza, la domanda su come debba vivere l’uomo redento da Cristo. Posto che la Redenzione pone l’uomo in uno stato di vita completamente diverso da prima, come si manifesta in concreto l’opera redentrice di Cristo nella vita di tutti i giorni?
La risposta è presto detta: seguendo la legge di Dio. Che nell’ottica paolina a cui il Papa si rifà vuol dire non aderire a degli obblighi esteriori quanto piuttosto compiere la volontà di Dio nella propria vita.
“Questo progetto creativo di Dio – disse il Papa nell’udienza del 27 luglio 1983 – in quanto conosciuto e partecipato dall’uomo, è ciò che noi chiamiamo legge morale”. Che quindi lungi dall’essere un qualcosa che si contrappone alla libertà, è esattamente “…ciò che garantisce la libertà, ciò che fa sì che essa sia vera, non una maschera di libertà: il potere di realizzare il proprio essere personale secondo verità”.
Ora che posto occupa in tale ottica la coscienza? O se si preferisce, come conciliare libertà dell’uomo e adesione alla legge/volontà di Dio?
La risposta a questa domanda sta in due, straordinarie catechesi tenute dal santo Papa polacco 17 e 24 agosto di quell’anno. Due perle di sapienza la cui lettura e meditazione andrebbe imposta in tutti i seminari dell’orbe cattolico (e in tanti altri posti, ma lasciamo stare).
Allo stesso modo per cui ogni uomo ha innato una sorta di senso estetico che lo porta a dire “questo è bello, questo è brutto”, esiste anche un “senso morale”, dice il Papa, che ci fa dire “questo è giusto, questo è sbagliato”.
Ma sulla base di cosa, cioè di quali criteri?
Il Papa qui cita un brano della Dignitatis Humanae (alla cui elaborazione, come è noto, lo stesso Wojtyla contribuì non poco) del Vaticano II, che in sostanza dice due cose: 1) norma suprema dell’agire morale è la legge di Dio; 2) l’uomo coglie gli imperativi della legge divina mediante la sua coscienza che è tenuto a seguire per arrivare a Dio, suo fine.
Arriviamo al punto: “la coscienza morale – dice Wojtyla – non è un giudice autonomo delle nostre azioni. Essa desume i criteri dei suoi giudizi da quella «legge divina, eterna, oggettiva e universale»…di cui parla il testo conciliare”.
Per questo, prosegue Wojtyla, il Concilio ha detto che “l’uomo, nella sua coscienza, è «solo con Dio». Si noti: il testo non si limita ad affermare: «è solo», ma aggiunge: «con Dio». La coscienza morale non chiude l’uomo dentro una invalicabile e impenetrabile solitudine, ma lo apre alla chiamata, alla voce di Dio”.
Chiarito che la coscienza morale può solo discernere, ascoltando Dio che parla, ma non decidere ciò che è bene e ciò che è male, Wojtyla va dritto al passaggio successivo: la coscienza non è infallibile e, anzi, può sbagliare. Per questo è un qualcosa che va maneggiato con estrema cura.
Il Papa lo dice a chiare note: “Non è sufficiente dire all’uomo: «Segui sempre la tua coscienza». E’ necessario aggiungere subito e sempre: «Chiediti se la tua coscienza dice il vero o il falso, e cerca instancabilmente di conoscere la verità»”.
E’ necessario insomma che la coscienza sia opportunamente formata, il che richiede l’assidua frequentazione della dottrina della Chiesa (quando questa è “sana”, ci permettiamo di aggiungere, il che non sempre è scontato).
Ma, dice ancora il Papa, quando parliamo di formazione della coscienza c’è un problema per così dire, a monte, che dev’essere risolto.
Problema che nell’ottica del pontefice è una vera e propria “malattia mortale” che va sotto il nome di “indifferenza verso la verità”. “Come potremmo, infatti, – si chiede Wojtyla – essere preoccupati che la verità abiti nella nostra coscienza, se riteniamo che l’essere nella verità non sia un valore di importanza decisiva per l’uomo?”.
Se insomma tutto è relativo; se bene e male non hanno un connotato oggettivo ma soggettivo; se vero e falso è una questione di gusti personali; se ciò che conta è fare ciò che uno pensa senza badare se quello che pensa sia giusto o sbagliato, o ritenere più importante cercare la verità che trovarla dal momento che la verità non è mai raggiungibile, col risultato di confondere “il rispetto dovuto ad ogni persona, qualunque siano le idee che professa, con la negazione dell’esistenza di una verità obiettiva”: chiaro che in questa prospettiva non ha alcun senso preoccuparsi di formare la propria coscienza. Col risultato di ritrovarsi, prima o poi, a “confondere la fedeltà alla propria coscienza con l’adesione a una qualsiasi opinione personale o della maggioranza”.
Ecco dunque il primo passo, il punto di partenza nel percorso di formazione di ogni coscienza: l’amore alla verità, perché “non si trova la verità se non la si ama; non si conosce la verità, se non si vuole conoscerla”.
Non basta conoscere la legge morale per saper discernere, nelle scelte di tutti i giorni, ciò che è bene e ciò che male; è necessario che l’uomo sia come “sintonizzato”, se mi si passa il termine, sulla stessa lunghezza d’onda di Dio in modo da poter percepire, “quasi per una forma di istinto spirituale”, dice Wojtyla, da che parte sta il bene e sapersi orientare di conseguenza.
Tornando a Newman, e per concludere: nessuna presunta contrapposizione, nessun irriducibile contrasto quanto piuttosto piena sinergia tra coscienza e magistero, ciò che mette al riparo la prima – ovviamente se ben formata – dal cadere vittima dei tanti ciarlatani e falsi profeti che, ieri come oggi, fuori sembrano pecore ma dentro sono lupi rapaci.
Anche per questo suona più che appropriata la definizione di ”Agostino della Chiesa moderna” data dallo stesso card. Caffarra al futuro santo. Direi che un brindisi, stavolta a Newman, ci sta proprio tutto.
Luca Del Pozzo
P.S. per una singolare quanto provvidenziale coincidenza la seconda lettura dell’Ufficio di ieri proponeva questo bellissimo testo di S.Vincenzo Lérins sullo sviluppo del dogma, com’è noto tema anch’esso centrale nella riflessione di Newman, ma soprattutto di grande attualità visti i sommovimenti in atto nella Chiesa. Chi ha orecchie per intendere, intenda.
Dal «Primo Commonitorio» di san Vincenzo di Lerins, sacerdote (Cap. 23; PL 50, 667-668)
Lo sviluppo del dogma
Qualcuno forse potrà domandarsi: non vi sarà mai alcun progresso della religione nella Chiesa di Cristo? Vi sarà certamente e anche molto grande. Chi infatti può esser talmente nemico degli uomini e ostile a Dio da volerlo impedire? Bisognerà tuttavia stare bene attenti che si tratti di un vero progresso della fede e non di un cambiamento. Il vero progresso avviene mediante lo sviluppo interno. Il cambiamento invece si ha quando una dottrina si trasforma in un’altra.
È necessario dunque che, con il progredire dei tempi, crescano e progrediscano quanto più possibile la comprensione, la scienza e la sapienza così dei singoli come di tutti, tanto di uno solo, quanto di tutta la Chiesa. Devono però rimanere sempre uguali il genere della dottrina, la dottrina stessa, il suo significato e il suo contenuto. La religione delle anime segue la stessa legge che regola la vita dei corpi. Questi infatti, pur crescendo e sviluppandosi con l’andare degli anni, rimangono i medesimi di prima. Vi è certamente molta differenza fra il fiore della giovinezza e la messe della vecchiaia, ma sono gli stessi adolescenti di una volta quelli che diventano vecchi. Si cambia quindi l’età e la condizione, ma resta sempre il solo medesimo individuo. Unica e identica resta la natura, unica e identica la persona.
Le membra del lattante sono piccole, più grandi invece quelle del giovane. Però sono le stesse. Le membra dell’uomo adulto non hanno più le proporzioni di quelle del bambino. Tuttavia quelle che esistono in età più matura esistevano già, come tutti sanno, nell’embrione, sicché quanto a parti del corpo, niente di nuovo si riscontra negli adulti che non sia stato già presente nei fanciulli, sia pure allo stato embrionale.
Non vi è alcun dubbio in proposito. Questa è la vera e autentica legge del progresso organico. Questo è l’ordine meraviglioso disposto dalla natura per ogni crescita. Nell’età matura si dispiega e si sviluppa in forme sempre più ampie tutto quello che la sapienza del creatore aveva formato in antecedenza nel corpicciuolo del piccolo.
Se coll’andar del tempo la specie umana si cambiasse talmente da avere una struttura diversa oppure si arricchisse di qualche membro oltre a quelli ordinari di prima, oppure ne perdesse qualcuno, ne verrebbe di conseguenza che tutto l’organismo ne risulterebbe profondamente alterato o menomato. In ogni caso non sarebbe più lo stesso.
Anche il dogma della religione cristiana deve seguire queste leggi. Progredisce, consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età. È necessario però che resti sempre assolutamente intatto e inalterato.
I nostri antenati hanno seminato già dai primi tempi nel campo della Chiesa il seme della fede. Sarebbe assurdo e incredibile che noi, loro figli, invece della genuina verità del frumento, raccogliessimo il frutto della frode cioè dell’errore della zizzania.
È anzi giusto e del tutto logico escludere ogni contraddizione tra il prima e il dopo. Noi mietiamo quello stesso frumento di verità che fu seminato e che crebbe fino alla maturazione.
Poiché dunque c’è qualcosa della primitiva seminagione che può ancora svilupparsi con l’andar del tempo, anche oggi essa può essere oggetto di felice e fruttuosa coltivazione.
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