Editoriale di S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi al Bollettino 3/2019 dedicato a “Il Progressismo cattolico: un bilancio”Il Progressismo e la Dottrina sociale della Chiesa
S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi
Presidente dell’Osservatorio
Questo numero del “Bollettino” è dedicato al Progressismo, sia esso politico che filosofico e teologico. Era una riflessione doverosa da fare da parte del nostro Osservatorio, perché il progressismo, se assunto nelle sue radicali motivazioni, rende inutile la Dottrina sociale della Chiesa in quanto tale, che viene contestata alle radici.
Non c’è dubbio che l’evento cristiano abbia avuto delle salutari conseguenze anche sociali e politiche e che, quindi, abbia anche migliorato la conduzione umana e sociale[1]. Se questo non è adeguatamente risaputo è perché proprio l’ideologia progressista lo ha sempre negato, presentando il progresso come una liberazione dalla religione cristiana. Si è così costituita una mentalità diffusa, anzi addirittura una cultura, secondo la quale il cristianesimo non ho prodotto miglioramenti e progressi, ma il contrario. La realtà è però ben diversa: il cristianesimo ha liberato l’umanità dalla schiavitù del paganesimo e continua a farlo anche oggi quando il paganesimo si è fatto evoluto, sofisticato, snob e post-moderno, rimanendo però paganesimo. Ha liberato l’umanità dalla schiavitù dei miti e delle credenze, collegando tra loro la ragione e la fede nella verità[2]. Ha illuminato il senso dei legami naturali, dalla famiglia alla nazione, creando così un’etica pubblica fondata sull’ordine finalistico della società. Non ha abbandonato l’autorità politica all’arbitrio o alla convenzione, ma l’ha legittimata nel bene e nel Sommo Bene. Ha creato spazi di pace senza essere pacifista in senso ideologico. Ha messo in guardia dalle ideologie disumane, mostrando come tutte alla fine si fondino sulla superbia umana e sull’aspirazione a costruire un mondo non secondo verità ma secondo le proprie aspirazioni e desideri.
Come si può quindi negare che il cristianesimo abbia prodotto dei miglioramenti o, come anche si dice, dei progressi? Eppure il cristianesimo non è progressista. Il progressismo, infatti, pone la ragione del progresso nel progresso stesso. Esso è evolutivo in senso immanentistico. Ci sarebbe una dinamica interna alla storia che condurrebbe la storia sempre in avanti, verso il meglio, sicché il “nuovo” sarebbe anche sempre “migliore”. Il progressismo non tiene conto del peccato originale[3], la cui dottrina ci dice che in ogni caso la condizione umana attuale è decaduta e ferita e non più in grado di bastare a se stessa. Il progressismo non può accettare delle realtà e delle verità che rimangano sempre uguali a se stesse, diciamo delle verità assolute, perché allora il progresso sarebbe solo accidentale e marginale e non sostanziale. Riguarderebbe le applicazioni o i dettagli e non l’essenza stessa della realtà. Ecco perché il progressismo rifiuta l’idea di “natura” e progressivamente intende tutto come storia, come processo, come percorso. Ciò implica il soggettivismo, sia esso dell’io individuale o dell’io collettivo. Per annullare ogni residuo naturalistico, la storia deve essere un fatto di coscienza, una coscienza in divenire nella quale la realtà (o la verità) non distinguono dalla loro conoscenza da parte di una coscienza, ripeto: individuale o collettiva poco cambia. Storicismo, immanentismo, soggettivismo, evoluzionismo sono alcuni dei caratteri principali del progressismo.
Basterebbero queste indicazioni a dimostrare la incompatibilità del progressismo con la Dottrina sociale della Chiesa. Essa affronta sì le sempre nuove problematiche storiche ma a partire dal messaggio evangelico che non cambia; sostiene la impossibilità di costruire la storia di questo mondo senza riferimento alla dimensione trascendente; dà la precedenza alla realtà oggettiva sostenendo che anche il soggetto stesso è, prima di tutto, qualcosa di oggettivo e di indisponibile a se stesso; rifiuta l’evoluzionismo che annullerebbe la moralità degli atti umani, togliendo all’uomo la propria libertà e responsabilità.
Il progressismo è un fatto prima di tutto teologico, e consiste nell’intendere l’auto-comunicazione di Dio all’umanità come un fatto compiutamente storico[4], e quindi evolutivo nella coscienza dell’uomo e nell’autocoscienza della Chiesa. Il contenuto dogmatico del kerigma è in continuo divenire e non esiste verità dottrinale che non sia costituta anche dalla coscienza che la Chiesa ne ha nella storia e nel tempo. Il dogma è sempre interpretato, e sta tra la Parola e la situazione in cui la Chiesa vive in quel momento. Proprio del progressismo è la sostituzione completa della metafisica con l’ermeneutica. Ciò comporta che il luogo teologico non sia più la fede apostolica fedelmente trasmessa, ossia che non sia più il dogma, ma la situazione storica ed esistenziale dal cui punto di vista la Parola viene via via letta nel tempo e interpretata. In questo senso il progressismo coincide con il modernismo.
Se il progressismo è prima di tutto teologico sul piano dei contenuti, su quello del metodo è prima di tutto filosofico, in quanto consiste nella applicazione del principio moderno di immanenza alla dogmatica. Non è un caso che tutti i “progressismi” (comprese le posizioni antiprogressiste che proponevano un ritorno alle origini, ad una natura non ancora contaminata dalla civiltà) appartengano all’epoca moderna. Questo perché è nella modernità che, filosoficamente parlando, si ritiene che non esista un oggetto di conoscenza indipendente dal soggetto che lo conosce, un contenuto indipendente dal metodo, una verità indipendente dalla coscienza. E’ nella modernità che viene assunto come un postulato indimostrato[5] – come un “dogma” non religioso potremmo dire – il principio del razionalismo: l’essere è solo e sempre nel pensiero. Da quel momento essere e coscienza sono diventati sinonimi, sicché la verità evolve insieme alla coscienza: in ciò consiste appunto il progressismo.
Il progressismo ha però anche un carattere politico, oltre che teologico e filosofico. I criteri della prassi politica non possono venire indicati dal di fuori della prassi politica stessa, ma dall’interno. Venendo meno la possibilità di attingere alla trascendenza e alla sovrannatura, venendo meno la stessa possibilità di attingere ad una natura perché si tratterebbe nel primo caso di un integralismo religioso e nel secondo caso di un integralismo etico, non rimane che lasciare la coscienza individuale libera di fare proprie o meno le diverse prassi politiche, vivendo in modo radicalmente laico la condizione politica, senza residui confessionali. Come si vede, anche in questo caso la Dottrina sociale della Chiesa è messa radicalmente fuori gioco. Si può comprendere come i cattolici impegnati in politica che si sono ispirati al progressismo politico non abbiano mai seriamente opposto alle ideologie del soggettivismo radicale non solo il riferimento alla dottrina della fede ma nemmeno quello alla legge morale naturale: si sarebbe trattato, dal loro punto di vista, di residui del regime di cristianità.
I contributi del presente numero del “Bollettino” mettono in luce i diversi aspetti del progressismo – teologico, filosofico, politico – e, data la diffusione di queste idee oggi, chiariscono sia i motivi di una certa “stasi” della Dottrina sociale della Chiesa, sia le cose da fare per rilanciarla. -
Presidente dell’Osservatorio
Questo numero del “Bollettino” è dedicato al Progressismo, sia esso politico che filosofico e teologico. Era una riflessione doverosa da fare da parte del nostro Osservatorio, perché il progressismo, se assunto nelle sue radicali motivazioni, rende inutile la Dottrina sociale della Chiesa in quanto tale, che viene contestata alle radici.
Non c’è dubbio che l’evento cristiano abbia avuto delle salutari conseguenze anche sociali e politiche e che, quindi, abbia anche migliorato la conduzione umana e sociale[1]. Se questo non è adeguatamente risaputo è perché proprio l’ideologia progressista lo ha sempre negato, presentando il progresso come una liberazione dalla religione cristiana. Si è così costituita una mentalità diffusa, anzi addirittura una cultura, secondo la quale il cristianesimo non ho prodotto miglioramenti e progressi, ma il contrario. La realtà è però ben diversa: il cristianesimo ha liberato l’umanità dalla schiavitù del paganesimo e continua a farlo anche oggi quando il paganesimo si è fatto evoluto, sofisticato, snob e post-moderno, rimanendo però paganesimo. Ha liberato l’umanità dalla schiavitù dei miti e delle credenze, collegando tra loro la ragione e la fede nella verità[2]. Ha illuminato il senso dei legami naturali, dalla famiglia alla nazione, creando così un’etica pubblica fondata sull’ordine finalistico della società. Non ha abbandonato l’autorità politica all’arbitrio o alla convenzione, ma l’ha legittimata nel bene e nel Sommo Bene. Ha creato spazi di pace senza essere pacifista in senso ideologico. Ha messo in guardia dalle ideologie disumane, mostrando come tutte alla fine si fondino sulla superbia umana e sull’aspirazione a costruire un mondo non secondo verità ma secondo le proprie aspirazioni e desideri.
Come si può quindi negare che il cristianesimo abbia prodotto dei miglioramenti o, come anche si dice, dei progressi? Eppure il cristianesimo non è progressista. Il progressismo, infatti, pone la ragione del progresso nel progresso stesso. Esso è evolutivo in senso immanentistico. Ci sarebbe una dinamica interna alla storia che condurrebbe la storia sempre in avanti, verso il meglio, sicché il “nuovo” sarebbe anche sempre “migliore”. Il progressismo non tiene conto del peccato originale[3], la cui dottrina ci dice che in ogni caso la condizione umana attuale è decaduta e ferita e non più in grado di bastare a se stessa. Il progressismo non può accettare delle realtà e delle verità che rimangano sempre uguali a se stesse, diciamo delle verità assolute, perché allora il progresso sarebbe solo accidentale e marginale e non sostanziale. Riguarderebbe le applicazioni o i dettagli e non l’essenza stessa della realtà. Ecco perché il progressismo rifiuta l’idea di “natura” e progressivamente intende tutto come storia, come processo, come percorso. Ciò implica il soggettivismo, sia esso dell’io individuale o dell’io collettivo. Per annullare ogni residuo naturalistico, la storia deve essere un fatto di coscienza, una coscienza in divenire nella quale la realtà (o la verità) non distinguono dalla loro conoscenza da parte di una coscienza, ripeto: individuale o collettiva poco cambia. Storicismo, immanentismo, soggettivismo, evoluzionismo sono alcuni dei caratteri principali del progressismo.
Basterebbero queste indicazioni a dimostrare la incompatibilità del progressismo con la Dottrina sociale della Chiesa. Essa affronta sì le sempre nuove problematiche storiche ma a partire dal messaggio evangelico che non cambia; sostiene la impossibilità di costruire la storia di questo mondo senza riferimento alla dimensione trascendente; dà la precedenza alla realtà oggettiva sostenendo che anche il soggetto stesso è, prima di tutto, qualcosa di oggettivo e di indisponibile a se stesso; rifiuta l’evoluzionismo che annullerebbe la moralità degli atti umani, togliendo all’uomo la propria libertà e responsabilità.
Il progressismo è un fatto prima di tutto teologico, e consiste nell’intendere l’auto-comunicazione di Dio all’umanità come un fatto compiutamente storico[4], e quindi evolutivo nella coscienza dell’uomo e nell’autocoscienza della Chiesa. Il contenuto dogmatico del kerigma è in continuo divenire e non esiste verità dottrinale che non sia costituta anche dalla coscienza che la Chiesa ne ha nella storia e nel tempo. Il dogma è sempre interpretato, e sta tra la Parola e la situazione in cui la Chiesa vive in quel momento. Proprio del progressismo è la sostituzione completa della metafisica con l’ermeneutica. Ciò comporta che il luogo teologico non sia più la fede apostolica fedelmente trasmessa, ossia che non sia più il dogma, ma la situazione storica ed esistenziale dal cui punto di vista la Parola viene via via letta nel tempo e interpretata. In questo senso il progressismo coincide con il modernismo.
Se il progressismo è prima di tutto teologico sul piano dei contenuti, su quello del metodo è prima di tutto filosofico, in quanto consiste nella applicazione del principio moderno di immanenza alla dogmatica. Non è un caso che tutti i “progressismi” (comprese le posizioni antiprogressiste che proponevano un ritorno alle origini, ad una natura non ancora contaminata dalla civiltà) appartengano all’epoca moderna. Questo perché è nella modernità che, filosoficamente parlando, si ritiene che non esista un oggetto di conoscenza indipendente dal soggetto che lo conosce, un contenuto indipendente dal metodo, una verità indipendente dalla coscienza. E’ nella modernità che viene assunto come un postulato indimostrato[5] – come un “dogma” non religioso potremmo dire – il principio del razionalismo: l’essere è solo e sempre nel pensiero. Da quel momento essere e coscienza sono diventati sinonimi, sicché la verità evolve insieme alla coscienza: in ciò consiste appunto il progressismo.
Il progressismo ha però anche un carattere politico, oltre che teologico e filosofico. I criteri della prassi politica non possono venire indicati dal di fuori della prassi politica stessa, ma dall’interno. Venendo meno la possibilità di attingere alla trascendenza e alla sovrannatura, venendo meno la stessa possibilità di attingere ad una natura perché si tratterebbe nel primo caso di un integralismo religioso e nel secondo caso di un integralismo etico, non rimane che lasciare la coscienza individuale libera di fare proprie o meno le diverse prassi politiche, vivendo in modo radicalmente laico la condizione politica, senza residui confessionali. Come si vede, anche in questo caso la Dottrina sociale della Chiesa è messa radicalmente fuori gioco. Si può comprendere come i cattolici impegnati in politica che si sono ispirati al progressismo politico non abbiano mai seriamente opposto alle ideologie del soggettivismo radicale non solo il riferimento alla dottrina della fede ma nemmeno quello alla legge morale naturale: si sarebbe trattato, dal loro punto di vista, di residui del regime di cristianità.
I contributi del presente numero del “Bollettino” mettono in luce i diversi aspetti del progressismo – teologico, filosofico, politico – e, data la diffusione di queste idee oggi, chiariscono sia i motivi di una certa “stasi” della Dottrina sociale della Chiesa, sia le cose da fare per rilanciarla. -
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[1] Tutti i documenti del magistero sociale mettono in evidenza le conseguenze benefiche del cristianesimo per la società umana. Non si tratta di benefici occasionali, accidentali o residuali, ma fondamentali, al punto che senza del cristianesimo la società non può sopravvivere. Per questo non è accettabile la tesi contraria di Karl Löwith secondo il quale nonostante il cristianesimo siamo rimasti all’età dei vandali. Si può sostenere questa pessimistica conclusione e dire addirittura che, per certi aspetti, siamo oggi anche peggio dei Vandali, ma a causa dell’abbandono del cristianesimo non per la sua inefficacia anche in termini di civiltà.
[2] Cfr. J. Ratzinger, Fede verità tolleranza. Il Cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003.
[3] Cfr. S. Fontana, Il peccato delle origini e il problema politico della modernità, in AA.VV., La persona al centro del Magistero sociale della Chiesa. Omaggio al Rev. Prof. Enrique Colom Costa, a cura di P. Requena e Martin Schlag, EDUSC, Roma 2011, pp. 115-132.
[4] Cfr. K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di cristianesimo, San Paolo, Cinisello Balsamo 1990.
[5] Che il razionalismo sia un postulato indimostrato trova concordi Etienne Gilson, Cornelio Farbo, Augusto Del Noce e Joseph Ratzinger.
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