martedì 1 novembre 2016
Lutero, Francesco e gli altri. Alcune note a margine dell'incontro di Lund
Andrea Sandri (1 novembre 2016)
Quella di Lutero fu un’eresia medioevale che, nonostante le pretese dei suoi nemici e di chi si rifà ancora al suo nome, non sopravvisse al suo tempo. Se si vogliono tracciare le coordinate che individuano la posizione teologica di Lutero bisogna ripercorrere da un canto gli sviluppi della tarda scolastica verso la concezione nominalistica rispetto agli universali – verso l’opinione secondo cui la realtà è costituita assolutamente dalla volontà divina e non può essere indagata se non convenzionalmente dall’uomo: le essenze non sono che nomina per chiamare cose di cui l’uomo non può ultimamente conoscere la ragione – e dall’altro le tappe della reazione anticuriale in Francia e, soprattutto, in Germania, quando, per soddisfare le pretese di dominio di Ludovico il Bavaro, teologi e filosofi come Guglielmo da Ockham e Marsilio da Padova teorizzarono la perfetta autonomia del potere temporale dal potere spirituale del Papa. Mentre il nominalismo contribuiva a disgiungere l’incerta conoscenza umana e il diritto naturale, che su di essa si fonda, dalla lex aeterna, il pensiero politico anticuriale fondava su quella disgiunzione, secondo un modello non meno volontaristico, l’autonomia del potere terreno. Secondo un’allegoria fisiologica diffusa a quel tempo la Chiesa, come la, pensava, e il Principe, a mo’ del cuore, voleva e dava propulsione e vita al proprio regno in tutta indipendenza dalla funzione spirituale della Chiesa.
Lutero prima della propria ordinazione sacerdotale aveva meditato l’Expositio canonis missae di Gabriel Biel (1408-1495) nella quale questo autore, che fu teologo e predicatore a Erfurt e a Magonza, uomo pio e apologeta del dovere di subordinazione al Pontefice, interpreta le parole del Te igitur ("Una cum famulo tuo Papa nostro N. et antiste nostro N. et rege nostro") affermando sì, con Ockham e la lezione anticuriale, che il Papa e il re sono ciascuno princeps nel proprio ambito, ma aggiungendo che i due poteri, pur reciprocamente autonomi, sono luci nel firmamento della Chiesa - intesa qui agostinianamente quest'ultima più come universale congegatio fidelium che come potere organizzato giuridicamente. Proprio l'unità superiore che sovrasta e raccoglie in sé le potestà, spirituale e terrena, giustifica i loro reciproci doveri - così il regno deve prestare assistenza alla potestà spirituale e questa, secondo un modello antico ricorrente nei Padri, è obbligata alla preghiera per il regno. Come si vede il rigido dualismo della politica di Ockham è conciliato da Biel con una visione che, da un lato, si lascia ricondurre all'equilibrio già individuato a più riprese da San Tommaso d’Aquino nei suoi scritti, e, dall'altro, opera una rilevante variazione di significato all'interno di quello stesso equilibrio. Infatti il teologo tedesco non soltanto ristabilisce un rapporto di reciprocità, anche se non di subordinazione, tra i due poteri, bensì riassegna al potere terreno uno scopo trascendente che è mediato dalla appartenenza alla universale comunità dei fedeli e si traduce nel campeggiare della luce naturale nel firmamento della Chiesa. Ma è sul concetto stesso di Chiesa, in quanto elemento dell'unità soteriologica che si compie nell'imperium spirituale e si spezza nella discessio dei regni da esso, che Biel, per restare fedele allo schema di Ockham, deve prendere congedo dall'Aquinate - mentre infatti quest'ultimo indica, proprio nel senso della continuità dell'Imperium romanum, la Chiesa romana con a capo il Papa come struttura in cui si realizza l’auctoritas e l'attuazione catechontica della fede e rispetto alla quale può avvenire la discessio dei regni, per Biel ecclesia è l'agostiniana comunità dei santi orientata al compimento della civitas dei, la congregatio fidelium di cui sono parti tanto il potere spirituale quanto i regni terreni, e dalla quale entrambi possono secedere.
La Expositio canonis missae nel tentativo di neutralizzare in un'unità superiore la contrapposizione tra regni e Chiesa romana insinua in realtà un preoccupante elemento di instabilità nel momento in cui sullo sfondo del firmamento della Chiesa, che è totalità e mediazione di entrambi i poteri, riconosce al potere spirituale il diritto, "supernaturaliter et specialiter" conferito da Cristo, di comunicare la grazia attraverso i sacramenti e la cura delle anime e, di conseguenza, di esercitare lo ius excomunicandi. La rappresentazione esteticamente armoniosa del firmamento di Biel appare così contenere i presupposti della propria catastrofe - perché, se si accetta l'idea che la Chiesa romana è unica mediatrice in terra della grazia e della fede in Cristo, allora tutta la realtà universale della congregatio fidelium è qui riassunta nella cattolicità romana, e se, invece, si sostiene che la mediazione è tutta nel firmamento, il potere spirituale non può che ridursi a segno esteriore e relativo di una comunione in Cristo la quale lo sovrasta e lo comprende infinitamente - e diventare, se si vuole rimanere nell'immagine di Biel, una stella quasi spenta. Mentre la prima attribuzione di significato porta evidentemente all'equilibrio sostenuto da San Tommaso e, in fondo, alla stessa concezione di Biel che immaginava ancora il rapporto fra congregatio fidelium e Chiesa romana alla stregua di un'unità dialettica, la seconda allude invece a una svolta radicale e a una rottura con la Tradizione.
Proprio all'interno dei problemi posti dalle tesi di Biel bisogna cercare l'inizio del pensiero teologico, ecclesiologico e politico di Martin Lutero. Il possibile significato antiromano dell'Expositio dovette rivelarsi a Lutero durante la disputa sulle indulgenze, laddove la distinzione tra congregatio fidelium e potere spirituale può costituire un argomento per negare l’autorità del Pontefice e della gerarchia ecclesiastica quanto alla interpretazione delle Sacre Scritture e alla remissione dei peccati.
Notoriamente la lettura antiromana dell’Expositio di Biel fu la via eletta da Lutero che negò al Papa ogni giurisdizione sulle anime (il potere delle chiavi) che non fosse legata al diritto canonico. Ogni successiva posizione teologica e politica di Lutero può essere compresa nel contesto della riduzione della mediazione della grazia al cielo della universale congregatio fidelium retto da Cristo. Così finalmente poté affermare, dissolvendo la Cristianità medioevale, l’immediatezza del potere dei principi a Cristo (“unmittelbar zu Gott”), ridefinire, in base alla stessa immediatezza applicata all’individuo, in senso soggettivo il concetto di fede, sostenere coerentemente la natura meramente amministrativa dell’istituzione ecclesiastica cui naturaliter era assegnato a capo il principe, indicare la lettura della Scrittura all’interno delle mura di quella stessa istituzione come grande sacramento rispetto al quale dissolvono ben cinque sacramenti e altri due sono conservati in maniera instabile: il battesimo come segno esterno di una conversione in fondo già avvenuta per opera di Cristo (di qui la difficoltà protestante ad accettare il battesimo degli infanti nonostante l’insegnamento esplicito di Lutero) e l’eucarestia come sacramento della misericordia rispetto al quale la confessione dovette apparire uno scandaloso pleonasmo inventato dal Papa per conoscere i peccati dei cristiani (l’idea di una cena della misericordia non è infrequente nella teologia “cattolica” odierna).
Non ci sono motivi per dubitare che l’Unmittelbarkeit del rapporto tra individuo e Dio si iscriva ancora, per Lutero e i fautori della rivoluzione protestante, in un sistema della trascendenza di Dio. Tale immediatezza può ancora essere letta, soprattutto per quanto riguarda il teologo di Erfurt, secondo le categorie della mistica eckhartiana, impoverita però quest’ultima della auctoritas della Chiesa che aspettava e giudicava con giusto discernimento le parole del mistico di ritorno dalla sua unione immediata con la Trinità (o pretesa tale). Tuttavia proprio la negazione di una giurisdizione sulla fede e la fatale inclinazione a ridurre quest’ultima all’esperienza individuale introdusse una instabilità che si risolse, approssimativamente nel giro di un secolo, in una comprensione soggettiva – in senso letterale perché il soggetto si muta in orizzonte ultimo del cristianesimo – e trascendentale (non trascendente) della fede. Ha così origine il pensiero moderno, trascendentale e non trascendente, come comprensione dell’uomo, del mondo e di Dio essenzialmente distinta dalla teologia di Lutero che è ancora medioevale pur nel grave errore professato.
Non è un caso che la congregatio fidelium convocata da Cristo ossia la stessa “chiesa universale”, che Lutero e i primi fautori della Riforma pongono a fondamento trascendente del mondo morale, si ripresenti nei secoli in versioni che corrispondono allo sviluppo filosofico dell’io e della ragione umana autonoma, dell’Unmittelbarkeit dell’uomo a se stesso, e che possono essere riassunte nei singoli passaggi rappresentanti, a ben vedere, le scansioni della filosofia e della giurisprudenza moderna: veritas lex naturalis, veritas lex rationalis, veritas noumenon, veritas spiritus, veritas jus, veritas factum e, infine, veritas ipsa voluntas. Tra l’idea ancora agostiniana e medioevale per la quale veritas divina lux - e alla quale i mistici renani, gli scolastici nominalisti del XIV secolo e lo stesso Lutero non sono estranei – e l’asserzione assolutizzante secondo cui veritas lex naturalis si apre un abisso che coincide con la stessa inconciliabilità tra trascendenza di Dio e dominio trascendentale della ragione. Secondo percorsi complessi, che rasentano il paradosso borgesiano, levatrice di questo salto abissale verso il pensiero moderno fu proprio la seconda scolastica ultimamente impegnata nella battaglia post-tridentina contro le tesi di Lutero. In particolare nell’opera di Francisco de Vitoria, gli anni della cui vita terrena coincidono pressappoco con quelli dell’inventore del servum arbitrium, ma già nei commenti alla Summa di San Tommaso stilati dal Cardinal Caetano e da Domingo de Soto e più tardi nella scolastica suareziana, la lex naturalis tende a neutralizzarsi, a porsi in una condizione di relativa autonomia rispetto al radicamento trinitario in cui San Tommaso l’aveva riconosciuta. Emerge così la lex naturalis come sistema del diritto internazionale nell’epoca delle scoperte geografiche e del disfacimento della Cristianità medioevale causato dalla stessa eresia luterana. Non può stupire il fatto che la fondazione della Società delle Nazioni e quindi delle Nazioni Unite sia stata accompagnata da un continuato revival delle dottrine vitoriane, e che la statua di de Vitoria, e non quella di Lutero, sia collocata dinnanzi alla sede dell’Onu a New York. Come in campo riformato la congregatio fidelium, nella quale si attua irrazionalmente la fede in Cristo, degrada vieppiù, per la sua instabilità, in un regno morale dove la ragione (la grande “puttana” contro la quale inveisce Lutero) riprende dominio nella forma del razionalismo più radicale, in campo post-tridentino la “chiesa universale” si estende ai confini esterni della lex naturalis equivocamente disgiunta dalla partecipazione alla lex aeterna che esige l’atto sovrannaturale di assenso della fede: ancora razionalismo. Nell’etiam si Deus non daretur del protestante Ugo Grozio, la cui venerazione per de Vitoria è provata, confluiscono in un unico fiume, quello del pensiero moderno, le due correnti, e si annunciano le fasi successive che sfociano nel mare apertamente anticristiano della veritas ipsa voluntas. La lettura evolutiva, formalizzata in tempi recenti dal professor Plinio Corrêa de Oliveira e ripresa da più autori, secondo la quale non vi sarebbe alcuna soluzione di continuità tra Lutero e la Rivoluzione francese è, almeno in parte, fuorviante, e vela gli inizi cinquecenteschi della profonda crisi moderna della Chiesa cattolica e del mondo.
Mentre il fiume del pensiero moderno, con la sua sostanza razionalistica, immanentistica e trascendentalista, è divenuto per lo più la dottrina ufficiale delle facoltà teologiche protestanti soprattutto in Germania dove il nome di Lutero è stato il marchio di fabbrica per diffondere, di volta in volta, sotto le false spoglie di Dio, le scansioni dell’io, della ragione illuminista, del noumeno kantiano, del sentimento religioso di Schleiermacher, dello spirito hegeliano e del soggetto dell’etica mondiale delle più recenti scuole teologiche, è continuato a scorrere in maniera carsica nella teologia cattolica insinuandosi nei dubia e nelle soluzioni dei commentatori moderni (gesuiti e non) di San Tommaso e attraverso una mai assopita accondiscendenza verso uno stile cartesiano che si manifesta nella sistematicità dei trattati di teologia ed emerge in maniera preoccupante con la codificazione del Diritto canonico cui fa pendant l’infallibilismo ovvero una lettura sovranista che si è impossessata del dogma dell’infallibilità sfigurando terribilmente il papato e facendone una funzione della veritas ipsa voluntas. Durante il Concilio Vaticano II il fiume esce da ogni canale sotterraneo e confluisce, sotto il sole, nel bacino della dichiarazione Nostra Aetate sulle “relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane” nella quale l’impostazione neutralizzante di de Vitoria e del razionalismo successivo è sostanza evidente sia delle premesse:
Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l'interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane. Nel suo dovere di promuovere l'unità e la carità tra gli uomini, ed anzi tra i popoli, essa in primo luogo esamina qui tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino;
come delle conclusioni:
Viene dunque tolto il fondamento a ogni teoria o prassi che introduca tra uomo e uomo, tra popolo e popolo, discriminazioni in ciò che riguarda la dignità umana e i diritti che ne promanano.
L’indifferenza compulsiva con cui nel post-concilio le case editrici cattoliche ufficiali e accreditate presero a pubblicare nelle stesse collane le opere di de Lubac, Theilard de Chardin, Rahner, Küng, Marxsen, Vorgrimler, Lehmann, Metz, Tillich, Schillebeeks, Auer, Häring, Käsemann, Schnackenburg, Schoonenberg, Schweizer, Bultmann, Bonhoeffer, Gogarten, Hulsbosch, testimonia il sorgere di una “nuova patristica” (così all’incirca si espresse Cornelio Fabro) i cui preamboli non sono né luterani né cattolici ma semplicemente razionalistici e moderni. Anche la riforma liturgica, che è di sovente attribuita alla piaggeria conciliare verso i protestanti, sembra piuttosto corrispondere, in maniera assai più profonda e grave, come è stato puntualmente dimostrato dal padre oratoriano canadese Jonathan Robinson nel suo libro The Mass and Modernity (Ignatius Press, San Francisco 2005; it.: Messa e modernità, Cantagalli, Siena 2010), alle esigenze acquisite alla gerarchia cattolica di un pensiero dell’immanenza e dell’io trascendentale.
Nella prospettiva, fin qui delineata, dell’emergenza di un pensiero moderno che ha sin dall’inizio del suo apparire catturato sia la teologia protestante che quella cattolica, e che, seguendo percorsi talora differenti talora di reciproca seppur celata influenza, ha finito per imporsi egualmente in entrambi i campi nella seconda metà del secolo XIX, ci si chiede se veramente l’incontro a Lund tra Francesco e gli esponenti mondiali delle chiese luterane per la celebrazione del cinquecentesimo anniversario della Riforma possa essere criticato come un cedimento della Chiesa cattolica alle tesi luterane originarie sulla fede in Cristo o se piuttosto non si tratti di un convegno di cultori dell’io trascendentale e delle sue possibilità esistenziali (diritti dell’uomo, solidarietà ed etica mondiale) assisi attorno a un monaco medioevale che per zelo amaro e infinita melanconia distrusse la gloriosa chiesa medioevale. La seconda ipotesi, che appare più probabile, è persino più cupa della prima e richiede un più faticoso approfondimento da parte dei cattolici fedeli alla Tradizione.
A.S.
Pubblicato da Vigiliae Alexandrinae
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