martedì 8 novembre 2016

Due profezie di Paolo VI, il papa più amato da Bergoglio. Entrambe avverate

 
 


Sandro Magister - 8 novembre 2016

Se c'è un papa al quale Jorge Mario Bergoglio dice di volersi ispirare di più, questo è sicuramente Paolo VI. L'ha detto e ridetto più volte, soprattutto nell'omelia della messa di beatificazione di questo suo amato predecessore, il 19 ottobre 2014, in cui lo elesse a umile e coraggioso "profeta" dei nuovi tempi della Chiesa.

E infatti, come non riconoscere un'affinità tra ciò che disse Paolo VI sul tema dell'ecumenismo, nell'udienza generale del 22 gennaio 1969, e ciò che papa Francesco dice e pratica oggi?
Disse Paolo VI in quella sua catechesi di 47 anni fa:

"Verso i cristiani separati dobbiamo guardare con nuovo spirito. Non possiamo più rassegnarci alle situazioni storiche della separazione. Dobbiamo umilmente riconoscere la parte di colpa morale che i cattolici possano avere avuto in tali rovine. Dobbiamo apprezzare ciò che di buono si è conservato e coltivato del patrimonio cristiano presso i fratelli separati".

Poche righe più avanti, però, Paolo VI cambiò musica. E qui di colpo sparisce l'affinità tra lui e l'attuale pontefice, specie dopo la trasferta luterana di Lund.

Proseguì così papa Giovanni Battista Montini, con impressionante anticipazione dell'oggi:

"Ma facciamo attenzione, figli carissimi, di non compromettere il cammino e l’esito d’una causa di somma importanza, qual è quella dell’autentico ecumenismo, con procedimenti superficiali, frettolosi e controproducenti. Si notano infatti fenomeni pericolosi e dannosi in questo improvviso entusiasmo di riconciliazione fra cattolici e cristiani da noi separati. Alcuni aspetti di questa incauta precipitazione ecumenica devono essere tenuti presenti affinché tanti buoni desideri e tante fortunate possibilità non abbiano a perdersi nell’equivoco, nell’indifferenza, nel falso irenismo.

"Quelli, ad esempio, che vedono tutto bello nel campo dei fratelli separati, e tutto pesante e censurabile nel campo cattolico non sono più in grado di promuovere efficacemente ed utilmente la causa dell’unione. Come osservava con tristezza ironica uno dei migliori ecumenisti contemporanei, protestante costui: "Il più grande pericolo per l’ecumenismo è che i cattolici vengano ad entusiasmarsi per tutto ciò di cui noi abbiamo riconosciuto la nocevolezza, mentre essi abbandonano tutto ciò di cui noi abbiamo riscoperto l’importanza". È questo un atteggiamento servile né vantaggioso, né decoroso.

"Così potremmo dire di quell’altro atteggiamento, oggi anche più diffuso, che pretende ristabilire l’unità a scapito della verità dottrinale. Quel credo, che ci fa e che ci definisce cristiani e cattolici, sembra, in tale modo, diventare l’ostacolo insuperabile alla restaurazione dell’unità stessa. Esso pone certamente delle esigenze molto severe e molto gravi; ma la soluzione delle difficoltà che ne derivano non può consistere, pena l’incomprensione della realtà delle cose, pena il tradimento della causa, nel sacrificare la fede, nell’illusoria fiducia che a ricomporre l’unità basti la carità; basti cioè la pratica empirica, spoglia da scrupoli dogmatici e da norme disciplinari.

"Gli episodi della così detta 'intercomunione', registrati in questi ultimi mesi, si iscrivono in questa linea, che non è la buona e che dobbiamo lealmente riprovare. Ricordiamo il Concilio, il quale 'esorta i fedeli ad astenersi da qualsiasi leggerezza o zelo imprudente, che potrebbero nuocere al vero progresso dell’unità' (Unitatis redintegratio n. 24)".

Il grande ecumenista citato da Paolo VI è Louis Bouyer, che da luterano si convertì a cattolico e per poco non fu fatto cardinale dallo stesso papa Montini.

Ma vale riprendere di Paolo VI anche un altro passaggio, dall'udienza generale della settimana successiva a quella ora citata. Un passaggio anch'esso tanto "profetico" da sembrare un ritratto della Chiesa d'oggi:

"Perché, sotto certi aspetti, la Chiesa dopo il Concilio non si trova in condizioni migliori di prima? Perché tante insubordinazioni, tanto decadimento della norma canonica, tanti tentativi di secolarizzazione, tanta audacia nell’ipotizzare trasformazioni di strutture ecclesiali, tanta voglia di assimilare la vita cattolica a quella profana, tanto credito alle considerazioni sociologiche in luogo di quelle teologiche e spirituali?

"Crisi di crescenza, si dice da molti; e sia. Ma non è anche crisi di fede? Crisi di fiducia di alcuni figli della Chiesa nella Chiesa stessa? Vi è chi, scrutando questo allarmante fenomeno, parla d’uno stato d’animo di dubbio sistematico e debilitante in mezzo alle file del clero e dei fedeli. E chi parla di impreparazione, di timidezza, di pigrizia. E chi addirittura accusa di paura sia l'autorità ecclesiastica che la comunità dei buoni, quando l’una e l’altra lasciano prevalere, senza ammonire, senza rettificare, senza reagire, certe correnti di manifesto disordine nel campo nostro, e cedono, quasi per un complesso d’inferiorità, al dominio affermato nell’opinione pubblica, mediante poderosi mezzi di comunicazione sociale, di tesi discutibili, e spesso punto conformi allo spirito del Concilio stesso, per timore del peggio, si dice; o per non apparire abbastanza moderni e pronti all’auspicato aggiornamento".










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