13-04-2016
Un documento come l’Esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia, per la sua lunghezza e per il particolare momento della storia della Chiesa nel quale è stato redatto e promulgato, richiede un commento quanto mai responsabile e prudente, che io qui faccio avvalendomi della mia competenza specifica nel campo dell’ermeneutica teologica e della mia lunga esperienza di direzione spirituale di sacerdoti, religiosi e laici.
1. Debbo premettere, per render meglio comprensibile quanto sto per dire, che gli atti del Romano Pontefice hanno un valore e una portata diversi, a seconda della materia della quale trattano e della forma prescelta per rivolgersi al popolo cristiano. Gli atti del Romano Pontefice (registrati come tali negli Acta Apostolicae Sedis) possono essere:
1) veri propri insegnamenti circa la fede e la morale della Chiesa cattolica, nel qual caso il Papa si limita a interpretare autorevolmente i dogmi già formulati dal Magistero precedente (magistero universale ordinario), a meno che, parlando ex cathedra, non enuncia novi dogmi (caso che nella storia si è verificato pochissime volte);
2) nuove norme disciplinari riguardanti i Sacramenti, la liturgia, gli incarichi ecclesiastici, eccetera (norme che entrano a far parte del corpus del diritto canonico, attualmente compendiate nel Codice di Diritto Canonico per la Chiesa latina e in quello per la Chiesa Orientale);
3) orientamenti e criteri per la prassi pastorale che non cambiano sostanzialmente ciò che è già stabilito nei principi della dottrina dogmatica e morale, così come non aggiungono o non tolgono nulla a ciò che è prescritto nelle vigenti leggi della Chiesa.
In base a questa fondamentale distinzione, diversi sono i doveri di coscienza di un cattolico, nel senso che:
1) gli insegnamenti del Papa, quando egli intende confermare o sviluppare e verità della fede cattolica, vanno accolti da tutti in fedeli con ossequio esteriore ed interiore della mente e del cuore; analogamente,
2) gli ordini e disposizioni disciplinari del Papa vanno rispettati ed eseguiti prontamente da tutti coloro ai quali gli ordini sono rivolti, per quanto a ciascuno compete direttamente; al contrario,
3) quelli che sono meri orientamenti per la pastorale vanno accolti da tutti gli interessati, a cominciare dai vescovi, come criteri da tener presenti nell’esercizio del loro ufficio pastorale di governo e di catechesi; in quanto criteri, essi entrano a far parte di tutta una serie di principi di ordine dogmatico, morale e disciplinare che già sono ordinariamente presenti alla coscienza dei Pastori al momento di prendere responsabilmente una decisione su situazioni generali della loro diocesi o su qualche caso concreto.
Ora, l’Esortazione apostolica post-sinodale, sia per il tipo di documento che per gli argomenti che in esso vengo o affrontati, è indubbiamente un atto pontificio del terzo tipo tra quelli che ho prima elencato. In effetti, come genere di documento pontificio, questa Esortazione non è e non vuole essere un atto di magistero con il quale si insegnano dottrine nuove, fornendo ai fedeli nuove interpretazioni autorevoli del dogma.
Si tratta invece di una serie di indirizzi pastorali, rivolto principalmente ai vescovi e ai loro collaboratori nel clero e nel laicato, affinché la dottrina sull’amore umano e sul matrimonio – che viene esplicitamente confermata in ogni suo punto – sia meglio applicata ai singoli casi concreti con prudenza, con carità e con desiderio di evitare divisioni all’interno della comunità ecclesiale. Queste sono le intenzioni del Papa, quali risultano dal tipo di documento che sto commentando.
Naturalmente, come ogni fedele cristiano, io, che poi sono anche sacerdote, ho il dovere di accogliere senza riserve queste indicazioni pastorali, ben disposto a tenerne conto quando si presenti l’occasione di aiutare i fedeli in difficoltà ad accostarsi ben preparati al sacramento della Penitenza o di consigliare convenientemente quelli che dovessero trovarsi nelle condizioni di “divorziati risposati”. Ma ho anche il dovere di interpretare tali indicazioni alla luce del dogma, della morale e del diritto canonico vigente, visto che il documento papale non può e non intende abrogare tutto ciò che la Chiesa ha già stabilito in materia. E quando l’interpretazione si presenta difficile, per la complessità e l’ambiguità di molte pagine del documento papale, ho il dovere di rifarmi alla regola d’oro dell’ermeneutica teologica: «In necessariis, unitas; in dubiis, libertas; in omnibus, caritas».
2. Io sono sempre stato e sempre sarò, con la grazia di Dio, un figlio fedele della Chiesa, che non è, come alcuni dicono, «la Chiesa di Bergoglio» ma è la Chiesa di sempre, la Chiesa di Cristo. Per Cristo ho venerato tanti papi, da Pio XI a Benedetto XVI e a Francesco. Riguardo alle indicazioni contenute nella Amoris laetitia, non mi è lecito dubitare che le intenzioni pastorali del Papa siano tutte sante e tutte a vantaggio del bene comune della Chiesa di Cristo. Nemmeno posso dubitare che gli indirizzi pratici da lui suggeriti siano di per sé atti a provvedere il maggior bene possibile dei fedeli di tutto il mondo cattolico.
Resta però il fatto che la lettura del documento lascia molto perplessi quanto alla effettiva chiarificazione dei punti messi in discussione nella Chiesa da alcuni anni, sia da parte di molti teologi di ampia notorietà internazionale (ad esempio, il cardinale Walter Kasper) sia da parte di una ristretta ma molto rumorosa minoranza di padri sinodali durante le due sessioni del Sinodo sulla famiglia.
La discussione all’interno dei lavori del Sinodo è stata preceduta e seguita da una amplissima discussione sui media, sia cattolici che laicisti. E l’opinione pubblica ha percepito come reale l’esistenza di due contrapposte fazioni, una ostinata a mantenere i “formalismi astratti” del passato e una decisa a riformare la Chiesa, con quest’ultima che oggi va proclamando in tutto il mondo cattolico la propria “vittoria finale”, come se il documento pontifico avesse veramente realizzato quella «rivoluzione» della quale ha parlato Kasper, o quelle «aperture» delle quali ha parlato il direttore della Civiltà Cattolica, il gesuita padre Antonio Spadaro, in un’intervista alla Radio Vaticana.
L’effetto di questa immagine - troppo umana e in definitiva ideologica - delle discussioni avvenute all’interno del Sinodo è lo sconcerto e il disorientamento dell’opinione pubblica cattolica riguardo ai grandi temi dottrinali concernenti la sessualità umana, il matrimonio e la famiglia. Chi ha sensibilità veramente pastorale non può non desiderare, in tale situazione, un autorevole intervento pontificio di chiarimento, un discorso accessibile a tutti, espresso in termini precisi e definitivi: e invece il documento di papa Francesco, per come è stato recepito dai fedeli (anche per le interpretazioni strumentali da parte di ambienti ostili alla fede cattolica) ha purtroppo aumentato lo sconcerto in mezzo al popolo di Dio.
In effetti, il Papa, pur affermando che non c’è alcun cambiamento nella dottrina, quando parla dei cambiamenti che ritiene necessari nella prassi delle diocesi e delle conferenze episcopali induce a credere che egli intenda per “pastorale” un’attività anarchica del clero che, una volta lasciata la “dottrina” in soffitta, assume come “regola pastorale” le opinioni “secolari” prevalenti nel proprio ambiente sociale. Così facendo papa Bergoglio sembra lanciare una severa censura nei confronti delle posizioni “conservatrici” per giustificare senza riserve le posizioni “riformiste”. A nulla sarebbero valse le proteste del cardinale Mueller e di molti altri autorevoli prelati contro la tesi di una prassi disgiunta dalla dottrina, già formulata da molti teologi e da alcuni padri sinodali; si ricordano, ad esempio, le parole accorate del cardinale africano Sarah, che aveva ricordato come detto l’idea di incoraggiare una prassi pastorale che potrebbe evolvere secondo le mode e le passioni mondane sia «una forma di eresia, una pericolosa patologia schizofrenica» (cfr La Stampa, 24 febbraio 2015).
Beninteso, nulla nel testo scritto può giustificare questa interpretazione, ma la prolissità del testo, l’abuso delle metafore e l’ambiguità delle affermazioni di principio (talvolta addirittura in palese contraddizione l’una con l’altra) lasciano aperta la possibilità di ogni malevola interpretazione, anche da parte di chi non ha alcun titolo per interpretare il Papa ma approfitta del fatto che il Papa non ha voluto - per motivi che saranno certamente buoni e santi – essere chiaro e preciso, usando un linguaggio che potesse evitare ogni strumentalizzazione.
Ciò riguarda soprattutto la valutazione «caso per caso» della situazione ecclesiale dei fedeli che hanno mancato alla fedeltà coniugale, hanno fatto ricorso al divorzio civile e hanno costituito una convivenza adulterina; si tratta di quelle coppie che erroneamente vengono chiamate di «divorziati risposati», con un linguaggio che non è teologico, perché nella Chiesa cattolica c’è un solo matrimonio riconosciuto come valido, quello sacramentale, che per sua natura è indissolubile e quindi non ammette divorzio né consente alcuna nuova forma di unione coniugale, sia pure riconosciuta dall’autorità civile.
Il Papa dice che nulla cambia nella situazione canonica di queste persone, perché la cosa è stata precedentemente esaminata e giudicata dal papa Giovanni Paolo II in seguito al Sinodo dei vescovi sulla famiglia svoltosi agli inizi degli anni Ottanta (cfr Esortazione apostolica Familiaris consortio, 22 novembre 1981.). Ma la prassi nuova che Francesco consiglia di adottare in sede di «accompagnamento pastorale» e in “foro interno” è formulata con espressioni talmente equivoche da consentire ai malintenzionati di celebrare la grande vittoria dei riformisti, i quali chiedevano appunto al Papa di introdurre nella prassi ecclesiastica una specie di “divorzio cattolico”, consentendo l’approvazione da parte dei singoli vescovi delle nuove nozze, così come l’accesso alla Comunione dei fedeli «in situazione irregolare».
In realtà il Papa non parla affatto della possibilità di “benedire” le nuove nozze, e nemmeno accenna direttamente di un “diritto all’Eucaristia”: si limita a consigliare la riammissione di questi fedeli come padrini ad alcune cerimonie religiose (battesimi, cresime, matrimoni), e invita a considerare la possibilità di consentire loro di assumere incarichi nelle parrocchie o di insegnare la religione nelle scuole. Ma gli argomenti addotti a sostegno di questi criteri di «inclusione ecclesiale» sono purtroppo molto confusi e possono anche intendersi – certamente contro le reali intenzioni del Papa – come un radicale cambiamento nella dottrina morale cattolica a riguardo del peccato grave (detto “mortale” in quanto comporta la perdita della grazia santificante e il pericolo della dannazione eterna, che la Scrittura chiama «la seconda morte») e riguardo alla sua imputabilità soggettiva, specie in relazione con le condizioni per ottenere il perdono sacramentale con la Confessione.
3. Per documentare quanto ho detto, riporto adesso alcune espressioni della Amoris laetitia che risultano, se non proprio formalmente erronee, almeno penosamente confuse. A ogni citazione farà seguito una breve postilla di chiarimento dottrinale.
Lo stato di peccato mortale. - «Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante. I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere “valori insiti nella norma morale” si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa. Come si sono bene espressi i Padri sinodali, “possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione”» (Amoris laetitia, § 301).
Evidentemente, in materia di “peccato mortale” non ha senso parlare di qualifiche morali che “oggi” sono diverse da quelle di “ieri”: la dialettica storicistica che tanto piace ai teologi ascoltati da papa Francesco (come Walter Kasper) è del tutto fuori luogo in un documento pontificio che dà consigli su come intervenire pastoralmente in una situazione che dal punto di vista morale è stata definitivamente qualificata come peccato grave (adulterio) già dal Signore stesso, le cui parole sono state la norma prossima di valutazione da parte del magistero ecclesiastico di sempre (non di “ieri”), con un carattere di definitività che non ammette un “oggi” riformista.
Quanto poi ai “limiti” soggettivi (ignoranza, debolezza, dipendenza da passioni o condizionamenti sociali) che possano rendere meno imputabile in un determinato soggetto l’atto peccaminoso, essi sono sempre stati presi in attenta considerazione dai buoni confessori: ma non per coonestare una situazione che si è prolungata nel tempo e che sembra priva di soluzione proprio perché il peccato è stato ostinatamente ripetuto malgrado gli incessanti inviti della grazia divina alla conversione e alla riparazione dei danni arrecati al coniuge e alla Chiesa. La buona direzione spirituale da parte dei buoni confessori è sempre stata impegnata a suscitare nell’animo del cristiano che fino ad allora non ha mai voluto cambiare vita le risorse per «resistere fino al sangue nella lotta contro il peccato», che è quello che a tutti chiede il Vangelo (cfr Lettera agli Ebrei ).
Peccato “materiale” e peccato “formale”. - «A partire dal riconoscimento del peso dei condizionamenti concreti, possiamo aggiungere che la coscienza delle persone dev’essere meglio coinvolta nella prassi della Chiesa in alcune situazioni che non realizzano oggettivamente la nostra concezione del matrimonio. Naturalmente bisogna incoraggiare la maturazione di una coscienza illuminata, formata e accompagnata dal discernimento responsabile e serio del Pastore, e proporre una sempre maggiore fiducia nella grazia. Ma questa coscienza può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo. In ogni caso, ricordiamo che questo discernimento è dinamico e deve restare sempre aperto a nuove tappe di crescita e a nuove decisioni che permettano di realizzare l’ideale in modo più pieno» (nn. 302-303).
Ho sottolineato, nel testo pontificio, l’aggettivo “nostra” riferito alla «concezione del matrimonio» della Chiesa Cattolica: perché attribuirla a un assurdo “noi”, come se il soggetto di questa concezione fosse un qualsiasi opinion leader dei tanti che si agitano nella nostra società e non la Chiesa che custodisce e interpreta infallibilmente il Vangelo di Cristo? Non era certo questo il linguaggio, ad esempio, di san Giovanni Paolo II, che nelle sue catechesi sull’amore umano insisteva nel presentare la morale cattolica come l’espressione puntuale e fedele dell’intenzione d’amore di Dio creatore, che la Chiesa, depositaria della rivelazione di Gesù Cristo, si limita a esprimere in formule dogmatiche, dalle quali derivano sia i “precetti” che i “consigli”, senza nulla inventare e nulla imporre che non sia davvero il “piano di Dio”.
Il giudizio della Chiesa sull’imputabilità soggettiva degli atti contrari alla legge di Dio. - «È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano» (n. 304).
Qui il discorso è ancora più ambiguo, perché confonde volutamente la valutazione “esterna” della situazione morale di un fedele dalla conoscenza della sua situazione “interna” davanti a Dio: la condizione di coscienza dell’individuo sfugge all’occhio umano, anche a quello del direttore spirituale o del confessore, e l’autorità della Chiesa non è chiamata a dare giudizi sulla coscienza («de internis neque Ecclesia iudicat»).
Quindi la valutazione dall’esterno, per ciò che risulta evidente agli occhi degli uomini, è quanto basta per un giudizio meramente prudenziale che non pretende di essere assoluto e definitivo ma riguarda il dovere dell’autorità ecclesiastica di riconoscere i comportamenti esterni conformi alla legge orale giusti e di sanzionare quelli ingiusti (un caso tipico di sanzione ecclesiastica, a parte la scomunica per reati più gravi, è appunto quello di negare l’accesso alla Comunione a chi pubblicamente vive in una condizione di adulterio senza intenzione di porvi rimedio). Non può che ingenerare ancora più confusione nei fedeli il fatto che un Papa parli della legge morale - già codificata dalla Chiesa da secoli in dogmi e disposizioni canoniche - come di qualcosa di “astratto” che non si può applicare a situazioni “concrete”. Peggio ancora, parla di situazioni “concrete” che oggi sarebbero diverse da quelle di ieri, per cui sarebbe legittimo fare oggi il contrario di quello che ha prescritto il magistero solenne e ordinario della Chiesa fino a ieri.
In realtà, l’unica differenza tra ieri e oggi che può essere significativa per la pastorale è che molti fedeli hanno una coscienza obnubilata dall’ignoranza religiosa e dai vizi, e per questo non avvertono più il loro peccato come volontaria infrazione delle norme morali, oppure non riescono ad applicare correttamente la regola morale (naturale ed evangelica) alla loro personale situazione. Ma se il Papa volesse davvero assecondare con la nuova prassi del “caso per caso” l’insensibilità degli uomini del nostro tempo nei confronti del “piano d’amore di Dio”, allora avrebbero ragione coloro che hanno visto la sua Esortazione come una resa totale del Magistero all’opinione pubblica, alla secolarizzazione, alla teologia progressista che esalta il soggettivismo (quella che afferma che ogni soggetto è in buona fede, e la Chiesa deve confermarlo nella sua infondata presunzione di essere in grazia!).
lanuovabq.it
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