29.03.2016
Ricordo anni fa, il venerdì Santo la liturgia della adorazione della Croce, l’austero ingresso del sacerdote sul presbiterio, omettendo il segno della Croce, in una Chiesa nuda, disadorna, priva di ogni addobbo, con l’altare spoglio della tovaglia ed il tabernacolo aperto e vuoto il celebrante si prostrava a terra e lì, in quella posizione sostava alcuni istanti.
Quando si è in quella posizione, che il sacerdote ha già vissuto prima nell’ordinazione diaconale e poi in quella presbiterale (ed è parte anche del rito dell’ordinazione episcopale) si sperimenta la sensazione del corpo che aderisce al pavimento, si sentono i bottoni della talare (per chi la porta ancora) premere sulla carne del petto, si percepisce il freddo del pavimento solitamente di marmo del presbiterio , che “ aspira, succhia “ letteralmente il calore delle mani messe a protezione della fronte.
Distesi in quella posizione nel più assoluto silenzio, rotto solo dallo scricchiolio dei banchi sotto il peso delle ginocchia e dei gomiti dei fedeli, si ascolta il proprio respiro e il battito del cuore riflessi e trasmessi dalla cassa toracica aderente al pavimento e compressa dal peso del corpo.
Oggi, di questi tempi, non sempre è usata la prostrazione, spesso i sacerdoti scelgono lo stare in ginocchio posizione più comoda. Così come al bacio della Croce ricordo che privi delle scarpe, ci si indirizzava verso il sacro legno in una processione fatta di piccoli passi e tre genuflessioni sino a giungere alla croce per consegnarsi ad essa attraverso un bacio, questa che assomigliava più ad una danza che ad una processione, non l’ho mai più vista fare così con il passare degli anni molti dei segni non sono più stati ripetuti e proposti, la liturgia è stata associata all’orologio, relegata nel tempo, mentre essa è fuori dal tempo, è evasione dal tempo, non ha tempo, malgrado si svolga nel tempo.
Non ha tempo perché ogni atto liturgico è perenne, sì …. la liturgia è perenne, continua, è gesto che propone l’Assoluto che non ha tempo, che è oltre il tempo dunque non può essere prigioniera del tempo.
Nella veglia pasquale le letture previste dalla sacra liturgia sarebbero sette, ma spesso e volentieri si riducono perché ciò che si attende è il potere consumare, come gesto comunitario, la fetta di colomba precedentemente preparata o in sacrestia o nella attigua piazza della chiesa o nei locali parrocchiali.
Se la liturgia è nel tempo è perchè è legata al precetto o peggio ancora al risvolto economico o perché è vissuta come professione allora i segni divengono gesti dunque non più segni.
Nella santa Quaresima, non ci si prepara più alla Pasqua, preparando i fedeli ai segni, i fedeli non più catechizzati non sanno più leggere i segni che si compiono nella liturgia e tutto diviene parte del tempo cioè piatto, senza forma.
La forma al tempo è data dal sentire, dal percepire, è data dal rendere segno il sentire, il percepire, il sacerdote è lì per trasmettere il sentire di Dio per l’uomo attraverso i segni, la liturgia, guai se riduce i segni, se non valorizza i segni o peggio ancora se li lega al tempo dunque a gesti slegati dal contesto.
Non è questione di leggere velocemente o lentamente è il linguaggio del corpo che parla, come un dipinto, l’affresco del Giudizio di Michelangelo nella cappella Sistina non è una natura morta, e chi osserva è lì per percepire, attraverso quei corpi, attraverso quello statico movimento, il divino, che è quella parte di noi che ci è stata conferita con il battesimo.
Nella liturgia si percepisce la grazia di Dio cioè la vita divina che ci è stata conferita e che noi, Dio in Dio, viviamo. Il sacerdote ha questo impegno, ma ormai tutto è un decadimento totale, i segni sono l’orologio e il dopo funzione o il rifugiato o il carcerato a cui vengono lavati i piedi, non viene più letto il gesto, ma come in un teatro si assiste dalla platea o in galleria ad uno spettacolo che spesso non piace o nelle peggiori delle ipotesi non dice nulla.
Anche le Chiese non hanno più lo splendore di un tempo, i fregi dorati hanno perso la loro splendore, i candelabri d’argento sono ormai neri ossidati, il cero pasquale in plastica nell’Exultet è presentato come il frutto del lavoro delle api, l’acqua lustrale spesso è contenuta in bacinelle di plastica tutto è ridotto, il divino è ridotto, perde il suo primario posto agli occhi e nel sentire dell’uomo.
Dobbiamo risollevare il capo e fare quadrato, magari meno gite e pellegrinaggi sicuramente più formazione e lectio divina, ciò vale per i preti ma anche per la comunità cristiana. Si deve ricominciare dal basso, dal catechismo, dall’uso del linguaggio e dei segni liturgici, dobbiamo dunque all’evangelicamente tornare bambini, basta con quelle conferenze dove tra il conferenziere, pagato profumatamente e l’assemblea vi sia lo spazio per qualche domanda, magari preparata, per poi chiudere entri tempo stabilito perché il conferenziere ha già riempito il portafoglio e non fa straordinari e poi deve incontrare in separata sede i borghesucci amici del prete che magari hanno finanziato la serata mentre gli altri esclusi devono andare a nanna.
Il prete deve fare ricrescere i suoi fedeli, pochi per volta, divisi in più gruppi, deve rievangelizzare, spiegare l’abc del nostro credo così può anch’egli crescere in ciò che è decresciuto, in un continuo ed estenuante lavoro che non permette certamente le pazze notti a Lisbona tra un “ moiito “ e l’altro postato su facebook in un falso pellegrinaggio ….
E pensare che mentre sono qui a vagheggiare, tra pochi giorni il gruppo vacanze del clero biellese sotto la regia dell’agente dei viaggi (il vescovo), se la spasseranno dopo le fatiche d’Ercole della liturgia a buon mercato, tra l’altro parzialmente rimborsati, lasciandoci intendere il rigore del pellegrinaggio perché anche di questo si è perso il segno ed il significato della parola.
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